martedì 18 marzo 2014

C'ERA UNA VOLTA - Lo scaldaletto


Una volta non c‘era il riscaldamento a gas: c’era la stufa a legna, una meraviglia dell’ingegno dell’uomo: quattro fornelli, due cassetti destinati alla legna da ardere e alla raccolta della cenere che poi serviva a conservare i salumi. E non c’era niente di meglio delle stufa per abbrustolirci sopra le fette di polenta da mangiare con ogni tipo di condimento, fosse ragù o marmellata o altro. 
La stufa bastava a riscaldare una abitazione non troppo grande, che veniva invasa da una tepore pulito e profumato. Certo, d’inverno riscaldare una stanza da letto “gelata” non era facile. Ma anche qui qualcuno si inventò qualcosa di geniale: lo “scaldaletto”. Era formato da due coppie di assicelle ricurve unite alle estremità e poste sopra e sotto una specie di gabbia quadrata ricoperta da lamiera destinata ad ospitare un contenitore con la brace prelevata dalla stufa. Questo attrezzo veniva sistemato sotto le coperte per togliere umidità alle lenzuola e al materasso. Il risultato, una mezz’oretta dopo, era un tepore piacevolissimo che consentiva di addormentarti. Maliziosamente lo scaldaletto veniva chiamato “prete”, e “suora” il contenitore della brace: si diceva che preti e suore per scaldarsi nelle lunghe notti d’inverno giacessero assieme a letto, secondo una convinzione abbastanza diffusa. 
Ho passato la mia infanzia con lo scaldaletto, nella casa di campagna dei miei nonni. E il ricordo che ne ho è indelebile. Perché secondo me lo scaldaletto era qualcosa di miracoloso: mai un raffreddore o altro di simile.

domenica 9 marzo 2014

LE STORIE - IL MIRACOLO DEL FARNETO



Il "Farneto" è una località a 3,5 km dal centro di San Lazzaro di Savena. Il toponimo deriva dal nome di una varietà di quercia, la "Quercia Farnia" o "Quercus Robur", un albero maestoso (fino a 50 mt di altezza) e longevo (fino a 600 anni e oltre), tipico dei terreni profondi, fertili e umidi; nell'antichità era anche detto "Albero di Giove" o "albero felice": la mitologia narra che quando gli uomini ancora si cibavano con carne umana, Giove indicò loro le ghiande della Farnia come forma di cibo. Il legno pregiato e resistentissimo di questo gigantesco albero veniva usato per le ruote e le traverse dei carri agricoli, per le travi di case, portici e fienili, per le botti, e per costruzioni navali ed edili. Col tempo molti dei querceti sono stati distrutti per far spazio a terreni da pascolo o da coltivazione. La località contraddistita da questi vasti boschi di querce farnie fu chiamata "Farneto". Il Farneto di San Lazzaro di Savena è contraddistinto da grotte suggestive, da "gessi" in cui sono incastonate conchiglie, ma soprattutto da un "miracolo" avvenuto più di 160 anni fa: la zona restò indenne da una terribile epidemia di  colera.

Il colera e la sua diffusione

Lo chiamavano “morbo asiatico” perché arrivava dall’Oriente. Gli studiosi ne avevano individuato l’origine nel “Drago cholericus”, antenato del vibrione: era raffigurato come una specie di insetto con un inquietante pungiglione. Prosperava – dicevano – in ambienti di scarsa o nulla igienicità, là dove c’erano fogne a cielo aperto e cibi contaminati. Chi veniva aggredito dal “Drago”, nel giro di un paio di giorni accusava vomito e diarrea, dolori addominali e sete, poi diventava cianotico e moriva. La gente che non sapeva di scienza attribuiva l’origine della malattia a cause fantastiche: alcuni pensavano ai governanti che, avvelenando scientemente il popolino, ne volevano stroncare gli ansiti di libertà e le lamentele per le misere condizioni di vita; altri invece dicevano che era la punizione divina per la degenerazione dei costumi. Che fosse una maledizione di Dio per l’umanità intera ci se ne convinse quando si seppe che il morbo non restava circoscritto al luogo d’origine ma si propagava a macchia d’olio fino a contagiare tutte le terre e tutte le genti.
La prima pandemia di colera dell’era moderna si sviluppò fra il 1817 e il 1823, la seconda fra il 1839 e il 1851, la terza fra il 1852 e il 1859. Al giorno d’oggi siamo arrivati alla settima pandemia, diffusasi dall’Indonesia attorno al 1970. Ma intanto già nel 1882 Koch aveva scoperto il batterio “Vibrio Cholerae” e gli esiti del morbo erano stati resi meno devastanti da farmaci appropriati.

La terza epidemia fu la più distruttiva. Era partita nel 1852 dall’India, attraverso l’attività di commercio si era espansa in medio Oriente e di qui nel 1854 era dilagata in Europa: prima in Inghilterra e Francia e poi, da qui, nei porti italiani: Genova, Livorno, Palermo, Napoli, Venezia.

In Italia il morbo asiatico arrivò nel luglio del 1854, prima nelle città costiere, quindi si infiltrò dovunque. Parve esaurirsi nei mesi invernali ma poi il suo dilagare assunse ancora maggior vigore nella primavera del 1855. Bologna fu una delle province più colpite: ci furono più morti solo a Messina, Palermo, Sassari e Napoli; ne contarono di meno Genova, Torino e Milano.


L’epidemia del 1855 a Bologna

L’epidemia di colera a Bologna e dintorni – una delle venti province dello Stato Pontificio - ebbe proporzioni catastrofiche perché il pericolo venne sottovalutato. La circolare n.528 dell’8 agosto 1854 inviata dalla Commissione Provinciale di Sanità di Bologna alle Deputazioni Sanitarie Comunali della Provincia annunciava che era “apparso in vari luoghi d’Italia il cholera” e si suggerivano le disposizioni per prevenire il diffondersi dell’epidemia. Ma l’avvertimento era andato disatteso. Tanto che ai primi di maggio del 1855 l’ufficio sanitario incredibilmente inviò ai vari Comuni una nota in cui si diceva che si aveva sentore dell’arrivo di un’epidemia e che dunque sarebbe stato bene predisporre una vaccinazione contro il vaiolo (!) da effettuarsi nelle parrocchie.
Che il flagello in arrivo non fosse il vaiolo ma il più temibile colera se ne erano già accorti due settimane prima a Molinella: il 15 aprile una contadina era caduta preda del “Drago cholericus”. Il cui micidiale progredire fu chiaramente indicato dalle cifre del “Bullettino Sanitario della Legazione di Bologna” in data 15 agosto 1855: l’11 maggio si ebbe il primo caso a Baricella, il 29 a Bologna, il 30 a Budrio. In quella data la Società Medico-Chirurgica di Bologna inviava ai Cardinali Legati dei Comuni del bolognese e ai Priori delle varie frazioni una circolare firmata dal Commissario per lo Studio delle Epidemie da distribuire fra tutti i medici dello Stato Pontificio: avvertiva che il colera, e non il vaiolo, stava diffondendosi ovunque. Avvertenza tardiva. Al 31 agosto a Bologna-città i casi denunciati erano già 4.579 con 3.185 morti. Alla stessa data Persiceto contava 408 casi e 252 decessi, Crevalcore 323 casi (182 morti), Medicina 422 (297), Budrio 336 (239). Un’autentica catastrofe. L’ondata del morbo arrivava dalla Serenissima Repubblica di Venezia dove, per non aggravare la situazione della città, si era pensato bene di trasferire nel bolognese, col beneplacito del Ducato Estense e dello Stato Pontificio, le truppe contagiate. I malati erano stati trasferiti su imbarcazioni che avevano percorso i canali della laguna e del ferrarese per approdare a Malalbergo e nei porti fluviali della zona.

Il contagio fu fulmineo. La gente fuggiva dai luoghi contaminati ma così non faceva che esportare il morbo. Enrico Bottrigari, cronista bolognese dell’epoca, annotò: “Nel vicino contado anche il più piccolo abituro é cercato dai fuggenti...Moltissimi sono partiti per recarsi in lontane regioni....”. Fu così che non vennero risparmiati nemmeno i più sperduti paesi di montagna: Monghidoro al 31 agosto contava 340 casi e 189 morti, Vergato 405 (257), Poretta 331 (151), Lojano 314 (106).


Il contagio arriva a San Lazzaro

Il 15 luglio 1855 il Priore di San Lazzaro in fretta e furia dettò allo scrivano una lettera destinata ai parroci delle varie frazioni e che iniziava così: “Il fatto d’oggi stesso che un girovago, il quale ha passato la notte scorsa sotto il portico presso il Lazzaretto, é stato colto dalla malattia dominante, deve convincere che é necessario di consigliare alle genti di campagna di non alloggiare questi miserabili....”. Cinque giorni prima la Commissione Centrale di Pubblica Beneficenza aveva emesso una circolare destinata alle varie Magistrature Municipali avvertendo che “oggi che tutti i ricoveri della provincia sono infetti dal cholera non sarebbe né prudente né coscienzioso di accogliervi verun nuovo individuo, mancando i mezzi e i locali per tenere opportune separazioni le quali poco potrebbero giovare...”.

Si era all’isteria, alla disorganizzazione più totale: non si dovevano accogliere fuggiaschi, non si dovevano ricoverare i malati; chi poteva si curasse a casa propria. E anche qui una sequela di raccomandazioni. Il 28 luglio una circolare della Commissione Provinciale della Sanità raccomandava a tutti “di non dare cieca fiducia né ai mezzi né ai suggerimenti di una folla di ciarlatani, né di fidare intorno a ricette e metodi volgari senza indicazioni e regole”. Ricette come quella delle “gocce di salute”, vendute a caro prezzo e contenenti “spirito di lavanda, olio di menta piperita e tintura d’oppio”: c’era chi garantiva la loro efficacia. Il 10 luglio il Priore Presidente della Commissone Sanitaria Comunale, Matteo Pondrelli, aveva inviato al Comune di San Lazzaro e all’Appodiato di Pizzocalvo disposizioni dettagliate sul modo di affrontare la terribile epidemia.

Si diceva che in ogni Parrocchia doveva essere nominato un deputato sanitario e che “presto ai medesimi, nonché ai molto reverendi Parrochi, sarà spedita una dose sufficiente di cloruro di calce e di calcina viva per disinfettare”. Ogni caso di colera avrebbe dovuto essere riferito da uno della famiglia al deputato sanitario e al parrocco “che disinfettando tosto la persona la quale porta l’avviso, consegnerà a questa del cloruro di calce ....per lavare le mani a quelli che presta i propri uffici al malato, servendosi poi anche per lavarsi d'aceto o di vino in mancanza dell'aceto”. “Accaduta la morte del colpito di cholera - continuava la lettera -  il Sacerdote  che l’assiste deve, sia in questi momenti che dopo, usare ogni precauzione su fumigi e lavature, tenendo in oltre (...) canfora, cloruro e anche aglio”. Compito del Curato e del Deputato Sanitario di ogni Parrocchia sarebbe stato anche quello di procurarsi un becchino e due portantini. La raccomandazione era accompagnata da precise istruzioni: “Il becchino avvolgendo nel lenzuolo dove é morto il colleroso, lo metterà nella bara e sarà trasportato immediatamente nel cimitero della Parrocchia (senza introdurlo neppure per breve tempo nella Chiesa) e sepolto alla profondità di piedi sei; sopra il Cadavere si sovrapporrà uno strato di calce”. Appena registrava un caso, il curato doveva fare scavare la fossa. Se la bara veniva depositata brevemente nella cappellina del cimitero, questa doveva essere inondata di un “profumo” ricavato dal cloruro di calce “sul quale si verserà dell’accido solforico”, lo stesso profumo doveva essere messo nella camera dove era il malato. Oltre al becchino e ai portantini occorreva trovare due donne “che si adopreranno per lavature di biancherie, coperte, materazzi, lana, pagliacci, bruciatura delle foglie”. Era puntigliosamente stabilito anche il compenso per gli aiutanti del Curato e del Deputato Sanitario: il becchino per ogni cadavere riceveva “baiocchi cinquanta”, ciascuno dei due portantini e delle due donne 30 baiocchi.


Al Farneto un solo caso: Sante Landi

Il Comune di San Lazzaro all’epoca era frazionto in otto parrocchie: Castel de’ Britti, Croara, Caselle, Pizzocalvo, Russo, Farneto, Colunga e San Cristoforo di Castel de’ Britti. Fra il 15 luglio e il 4 agosto tutte le frazioni – con l’eccezione di Colunga e San Cristoforo che avrebbero conosciuto il colera solo a inizio ottobre – furono interessate all’epidemia. E allora si dovette constatare una strana anomalia: il parroco del Farneto, don Francesco Galloni, per quanto stesse in allerta, a differenza dei suoi colleghi non registrava casi di colera. La Parrocchia del Farneto, stando all’ultimo censimento del 1853, contava 182 residenti, 96 uomini e 86 donne, nonché un numero imprecisato di “immigrati”. Ai 182 residenti del 1853, durante l’epidemia si era aggiunta gente arrivata da lontano e sistematasi nelle povere case celate fra i boschi di querce e nobili rifugiatisi con amici, parenti e inservienti nelle loro ville di campagna immerse in grandi parchi alberati.

Mentre tutt’intorno infuriava il morbo, a Castel de’ Britti come alla Croara, a Pizzocalvo come a Caselle e Russo, al Farneto si continuava la vita di sempre. La Chiesa di San Lorenzo del Farneto era il luogo di raduno per raccogliere informazioni, ascoltare le raccomandzioni di Don Francesco, le disposizioni del Deputato Sanitario e soprattutto pregare, pregare di essere risparmiati dalla mortale malattia. C’era particolare devozione per la Beata Vergine della Cintura, raffigurata assieme agli Evangelisti Marco e Giovanni in un quadro di duecento anni prima, e a lei ci si rivolgeva con angoscia e speranza.

Quando il 4 agosto i famigliari di Sante Landi, un “servente” nei campi, corsero dal parroco a denunciare che il loro congiunto accusava i sintomi del colera, la gente del posto si sentì abbandonata anche da Dio. Ma nel giro di pochi giorni Sante migliorò e si ristabilì completamente. Si diffuse la voce che la Madonna della Cintura aveva voluto ascoltare le invocazioni della povera gente del Farneto. E intanto a pochi chilometri di distanza in molti continuavano a morire.

Per scongiurare il diffondersi ulteriore del contagio, ad un certo punto non bastavano più le raccomandazioni di inizio luglio. L’11 agosto il Priore di San Lazzaro mandò una lettera a “tutti i Parrochi della Comune” supplicandoli di dare pubblicità “dall’altare” ad altre disposizioni d’emergenza, per esempio, “nella circostanza di somministrare il Ss.Viatico ai malati o di trasporare i morti non s’abbiano a suonare le campane”, perché “la cosa agita non poco la popolazione e porta l’inconveniente di accumulare gente dentro la casa del malato di cholera”. Il 23 agosto, visto che queste raccomandazioni andavano in parte disattese, soprattutto dai parroci di Colunga e San Cristoforo, il Priore scrisse una lettera al Vescovo di Bologna implorandolo di ricordare ai parroci “il divieto di trasportare i morti con accompagnamento” perché ciò “avrebbe richiamato dietro al morto una frotta di gente, parte ignorante, parte curiosa, la quale si sarebbe poi introdotta financo al cimitero per vedere seppellire il morto, la quale conseguenza dell’accompagnamento si sarebbe scontrata con le leggi ed i regolamenti”.


Il miracolo della Madonna della Cintura

Passarono i giorni e mentre nelle varie parrocchie di San Lazzaro si registrava un sempre maggior numero di casi e di decessi, il Farneto continuava a rimanere un’isola felice. I fedeli del luogo e coloro che lì si erano trasferiti dalle frazioni vicine si raccoglievano sempre più insistentemente attorno a don Francesco chiedendogli di organizzare turni di preghiere, penitenze e processioni affinché la Madonna della Cintura della chiesa di San Lorenzo continuasse a proteggerli. Passò l’estate e Sante Landi rimase al Farneto l’unico caso di colera, per di più dichiarato guarito ai primi di settembre. Qualche “laico” spiegò quel “miracolo” col vento continuo e purificatore che spira verso il Farneto da quell’imbuto formato dai monti fra cui scorre lo Zena. Può essere. Per tutti però, allora, il merito esclusivo era della Madonna.

Con l’arrivo dell’autunno sembrò che la furia del morbo stesse per placarsi. La Commissione Provinciale di Sanità in una circolare del 26 settembre raccomandava ancora vigilanza e cautela ma segnalava come “il Cholera per Divina Grazia mostri di volgere al suo termine...” L’1 ottobre però Colunga e San Cristoforo registrarono nuovi casi: erano le parrocchie che non avevano voluto seguire alla lettera le precauzioni raccomandate a inizio luglio. L’ultimo Bollettino Sanitario del Comune di San Lazzaro fu redatto il 21 novembre. Adesso davvero nel bolognese l’epidemia pareva terminata. Il 25 novembre 1855 la fine del colera fu festeggiata in San Petronio con un solenne Te Deum. E il 14 dicembre il Priore di San Lazzaro poteva mandare alla Commissione Provinciale di Sanità questo documento: “Col giorno 28 scorsomese cessò nel Comune il morbo Cholera, per cui vi invito a sospendere l’invio dei bollettini sanitari. Speriamo che Iddio vorrà per lungo tempo tenerci liberi dal terribile flagello”. Il consuntivo del Comune di San Lazzaro inviato alla Commissione Provinciale di Sanità il 7 dicembre 1855 fu il seguente:



Parrocchie
Sviluppo
Casi
Morti
Guariti
Castel de’Britti
15 luglio
22
16
6
Croara
17 luglio
17
7
10
Caselle
18 luglio
11
5
6
Pizzocalvo
4 agosto
47
27
20
Russo
4 agosto
5
1
4
Farneto
4 agosto
1
-
1
Colunga
1 ottobre
11
3
8
S.Cristoforo
5 ottobre
3
-
3
TOTALE
117
59
58





Da rito a festa e sagra paesana

Furono in tanti a stupirsi dell’eccezionalità del dato del Farneto, soprattutto se paragonato a quelli delle parrocchie più vicine. In tutti si radicò la convinzione che davvero la Beata Vergine della Cintura avesse voluto preservare dal contagio i residenti di quella piccola zona. Fu così che il parroco don Francesco Galloni decise che ogni anno, la prima o la seconda domenica di settembre avrebbe dovuto essere consacrata alla Madonna della Chiesa di San Lorenzo con una solenne cerimonia di ringraziamento.

Da allora, per 150 anni il rito si é ripetuto con puntualità, persino negli anni di guerra, variando nel tempo i propri contenuti. Fino ai primi del ‘900 la cerimonia era consistita nella recita del rosario e nella processione dalla Chiesa del Farneto fino al Molino Vecchio. Più tardi assunse il carattere di vera e propria festa: la processione allargò il proprio percorso scorrendo lungo i viottoli del contado e ad essa si aggiunse il ritrovo dei residenti che nei prati antistanti la chiesa gustavano ciò che avevano portato da casa, vino, pollame, frutta, verdure. Così fu per lunghi anni.


Da allora, essendo aumentato in continuazione il numero dei parrocchiani, la festa si é trasformata in sagra paesana richiamando anche persone delle vicine frazioni, grazie anche al dilatarsi del programma dei festeggiamenti: non più solo processione, Messa e rosario ma anche stand gastronomico, mercatino dell’usato, pesca di beneficenza, giochi, gare sportive, canti e balli, recite, visite guidate al Parco dei Gessi.


San Lorenzo del Farneto, il luogo del “miracolo”

La chiesa del Farneto (anzi del “Farnito”, così veniva chiamata questa zona nel 1048), come nome esiste da poco meno di un migliaio di anni. Naturalmente il tempo ha prima corroso e poi distrutto la struttura originaria, che é stata più volte ristrutturata e riedificata sempre nello stesso luogo: “da Bologna lontano sei miglia percorrendo la strada Emilia, ed alle falde di uno di quei colli che stendendosi verso il mezzogiorno, ed ove il torrente Zena ne lambisce le radici”.

Mille anni fa: un’enormità che rende ancora più suggestivo l’immaginarsi la successiva metamorfosi del territorio e della sua popolazione. Mille anni fa, per dire, il torrente Zena non scorreva nel letto attuale e il Farneto era un immensa foresta di querce farnie interrotta da distese di ulivi. Poche casupole di contadini e pastori, votati ad un’esistenza misera e solitaria che terminava in media intorno ai 30 anni. Oggi il Farneto é una delle frazioni di San Lazzaro che più si é evoluta dal punto di vista dell’urbanizzazione: vi abitano più di duemila persone affatto dedite alla pastorizia o alla coltivazione dei campi, le rarissime querce farnie costituiscono ormai solo curiosità per botanici, “i colli che si stendono verso mezzogiorno” hanno rivelato una vita preistorica quando sono stati disossati per strapparne il gesso e lo Zena si é visto deviare il corso.

Ma la chiesa del Farneto é sempre lì, testimone del tempo e delle sue mutazioni.