lunedì 30 settembre 2013

RIFLESSIONI - La balera

Pur non frequentandole, le balere mi hanno sempre affascinato. Sarà perché quando ero piccolo nelle sere d’estate mia nonna mi portava a vedere quelli che ballavano: mi sono rimasti dentro il suono della fisarmonica e del clarinetto, e la visione di anziani che si muovevano al ritmo di un valzer o di una mazurka. Balera significa “locale popolare”, o “spazio all’aperto per balli campestri”. E’ un mondo straordinario, l’ho constatato nelle varie sagre, nei circoli Arci, alle feste de l’Unità. C’è l’orchestrina che suona dal vivo, dando spazio alla fisa, al sax, alla tastiera. C’è il/la cantante magari già un po’ avanti con l’età e con le forme pronunciate. E c’è un popolo che balla con una passione che non sospetteresti mai a vederlo in altri contesti. Un popolo di gente avanti con l'età, soprattutto. Li vedi la mattina quando vanno a fare la spesa o a prendere il giornale, la camminata lenta, le spalle un po' curve. Li rivedi  incredibilmente trasformati la sera. Seriosi, agili, concentrati, sembrano quasi persi in un sogno lontano. Ammiro questa gente che trova la forza di non rassegnarsi all’età che avanza o alla condizione sociale non elevata: seguendo la musica e ballando dimenticano gli acciacchi, la crisi, le delusioni. Socializzano, parlano, ridono. Sanno che domani ricominceranno i problemi di ogni giorno ma sanno anche come dimenticarli per un pò. Persone positive. Sono un inno alla vita. Che i giovani non conoscono: si stordiscono nelle discoteche riempiendosi il cervello di suoni fuori norma e il corpo di alcol e spesso droghe, anche loro forse per non pensare a un futuro che non c’è. Quando scomparirà questa generazione di anziani, scompariranno anche le balere.



domenica 29 settembre 2013

LE MIE PASSIONI - I giornali

I giornali mi hanno appassionato ben prima di diventare giornalista: anzi, forse proprio per questo mio interesse ho scelto questa professione. Avevo 13 anni e facevo il giornalino della parrocchia: testi e disegni tutto da solo, su un foglio di carta formato lenzuolo. Due di questi li ho ancora appesi alle pareti del mio studio. Dopo, essendomi avvicinato allo sport, divoravo "Il calcio e il ciclismo illustrato", "Lo sport illustrato", il "Guerin Sportivo" e intanto leggevo la "Domenica del Corriere" che compravano i miei. Argomenti interessanti, fotografie bellissime. Giornali straordinari che sfogliavo con religiosa prudenza. 

Dopo, la mia passione si è acuita portandomi a setacciare le bancarelle dei mercatini in cerca di rarità. Ho due annate della "Vie au grand air" (1903 e 1904), francese: le comprai per leggere le cronache dei primi Tour de France e scriverci un libro. Ho sette annate della "Domenica del Corriere" (la più vecchia è del 1914), 4 de "La Tribuna illustrata" e 1 de "La stampa sportiva". Ho copie singole di grande valore storico: la "Domenica del Corriere" che celebra la drammatica maratona di Dorando Pietri nel 1908 illustrata dall'insuperabile Achille Beltrame, il primo incontro Mussolini-Hitler; ho rilegato tutto ciò che è stato scritto sulle varie elezioni dei Papi o l'11 settembre. Ho comprato annate dei più diversi giornali: il "Candido" di Guareschi, il "Don Basilio", e libri che attraverso le prime pagine raccontavano la vita di testate storiche: da l'Equipe al Resto del Carlino, dal New York Times a "La Tradotta", giornale della terza armata che Mondadori pubblicò nel 1933 la prima volta e poi rieditò nel 1965.

Ho sempre pensato che non si può capire il presente né intuire il futuro se non si conosce il passato. E il passato lo si conosce attraverso i giornali d'epoca. Ma pare che a noi italiani la cosa non interessi più di tanto. Secondo un'indagine dell'"Economist" in quanto a numero di lettori di quotidiani noi siamo al 29° posto nel mondo e al 22° in Europa. Leggiamo meno dei bulgari e degli sloveni, poco più dei malesi. E' sconfortante. Conservo copie del "Resto del Carlino" o del "Corriere della Sera" di fine Ottocento e del primo Novecento che spiegano bene la politica di allora, la nascita delle guerre, l'evoluzione dei costumi e della società. Nessun testo scolastico può farti conoscere certi eventi meglio di un vecchio giornale. Leggo con raccapriccio che "la carta" è destinata a sparire, divorata da internet: non ci credo ma quel giorno - se mai verrà - andrà persa la memoria del passato e con essa la speranza di un futuro sensato.


LE MIE PASSIONI - I libri

Fin da piccolo mia madre mi ha abituato a leggere. Andavamo in un negozietto di libri usati perché non c’erano soldi per i nuovi e lì prendevo di tutto, affascinato dalle copertine o dai contenuti: dai misteri di Arsenio Lupin scritti dal giornalista sportivo francese Maurice Leblanc e Sherlock Holmes di Conan Doyle alle avventure di Gulliver e Robinson Crusoe, dalle fantasie di Emilio Salgari e Luigi Motta (ingiustamente dimenticato) a quelle di Jules Verne, da Gargantua e Pantagruele a Bertoldo Bertoldino e Cacasenno. Ho divorato i libri di Jack London, Joseph Conrad e Oliver Curwood che mi tenevano allenata la fantasia, dopo mi sono appassionato a Tolstoi e Cechov, poi Steinbeck è diventato il mio preferito per il suo scrivere semplice ed efficace. Mi hanno affascinato Luis Sepulveda con la sua "gabbianella" e Ken Follett con "I pilastri della terra": tutti e due hanno undici anni meno di me, accidenti a loro!
Li conservo ancora tutti e ogni tanto li guardo, li sfoglio con nostalgia. E' stato con questi libri che ho avuto l'impulso di cominciare a scrivere anch'io. Ed è stato con loro che ho allargato gli orizzonti della mia mente. Divenuto adulto mi sono dato alla ricerca di  altri libri, a seconda degli interessi man mano coltivati ma soprattutto affascinato dalla loro data di pubblicazione. Il mio vanto è una storia di Bologna del 1796 regalatami dalla badante di un notaio che alla morte era senza eredi; poi il “Paradiso Perduto” di Milton del 1911 con illustrazioni del Dorè, trovato fra le cose di mio padre che faceva il camionista e chissà perchè l’aveva in casa; ho un “Decamerone” del 1913, il preziosissimo “La Metà del Mondo vista da un’Automobile” scritto da Luigi Barzini nel 1910: è l’edizione originale e descrive l’incredibile viaggio Pechino-Parigi corso dal giornalista a dal principe Scipione Borghese, vinto dalla nostra "Itala". E ho "Il Giuoco del Calcio", manuale scritto nel 1930 per Corticelli Editore di Milano da Arpad Veisz e Aldo Molinari con prefazione di Vottorio Pozzo: chi se ne intende capisce la preziosità di questo volumetto.
Nella mia biblioteca oggi ho 1.115 libri di tutti i generi, dalle poesie di Trilussa e Neruda al saggio sulla cocaina di Kafka o al “Piloti che gente” di Enzo Ferrari e ho tutto ciò che ha scritto Oriana Fallaci: sono tutti fonte di conoscenza, cultura, istruzione, riflessioni. Ho il “Nuovissimo dizionario universale” del Melzi: è datato 1901 e fu un libro che aprì gli orizzonti a molti: nel 1910 vendeva 320.000 copie. E’ interessante scorrerlo, trovi parole ormai desuete, ti rendi conto dell’evoluzione della nostra lingua. Ed è bello toccare questi libri, sfogliarli, magari piegare l’angolo superiore di una pagina per ricordarsi da dove riprendere a leggere. Non capisco perché l’Italia, che ha una tradizione culturale impressionante (scrittura, pittura, scultura, musica) oggi sia uno degli ultimi consumatori di libri: forse è per questo che siamo un popolo di abissale ignoranza. Una recente indagine dell’Associazione Italiana Editori dice che da noi i lettori – anche occasionali – di libri sono il 53% della popolazione con più di 14 anni di età: in Francia sono il 62%, in Spagna il 68%, in Germania il 72% e in Gran Bretagna il 75%.... Mi fa malinconia frequentare certe case dove non c’è una biblioteca ma magari solo qualche libro di ricette.



sabato 28 settembre 2013

LE MIE PASSIONI - I burattini

Quando ero piccolo e abitavo in campagna dai nonni l'unico divertimento per bambini erano i burattini. I burattini, inventati nel 1700, per intenderci sono quelle "teste di legno" mosse dalle dita del burattinaio infilate nel collo e nelle maniche del vestito: quindi non sono da confondere con le marionette, mosse da fili. Di solito lo spettacolo consisteva in una storia completa, una favola con re e principesse, seguita poi da una "farsa". E' lì che si esplodeva in risate, è lì che ci si divertiva. Entravano in scena i personaggi bolognesi: il dottor Balanzone, un panciuto avvocato sempre pronto a dare consigli e a pontificare; Fagiolino, che rappresentava il monello dei bassifondi, costantemente sporco e affamato, sposato con tale Isabella che lui chiamava "Brisabella" (brisa equivale e non); Sganapino, spalla di Fagiolino creato nel 1877, un tipo semplice e allegro che girava sempre con un manico di scopa, pronto a menare tutti. Il nome completo di Sganapino era Sganapino Posapiano Squizzagnocchi. Le farse finivano immancabilmente nello stesso modo: con Sganapino che prendeva a bastonate sulla testa il malcapitato di turno.

Quelle scenette non me le sono più tolte dalla testa e col tempo imparai ad amare altri personaggi, come il modenese Sandrone, i bergamaschi Arlecchino e Brighella, il napoletano Pulcinella. Non vidi più uno spettacolo di burattini fino al 1991, quando entrò in scena il giovane Riccardo Pazzaglia, allievo di Demetrio Presini (nella foto in basso è con la Cancellieri, per qualche tempo commissario straordinario a Bologna). Pazzaglia è quello che ha sollecitato il ritorno di questo tipo di spettacolo portando l'arte del burattinaio nelle scuole, nelle piazze, nei centri culturali e creando nuovi personaggi, l'ultimo dei quali nato nel 2001 su suggerimento di una scuola elementare locale: Lazzarone, che nel gergo dialettale significa scapestrato e il cui nome vuole anche ricordare la sua origine a San Lazzaro di Savena. Il ritrovare i "miei" burattini fu un ritorno all'infanzia, alla serenità. Mi ci appassionai tanto che me ne feci costruire due da Pazzaglia, Fagiolino e Sganapino: ci mise parecchi mesi a lavorare il legno di pino per la testa e a cucire i vestiti, perchè Riccardo era oberato da impegni. Ma adesso ho in casa i miei due burattini personali: mi costarono parecchio, qualcosa come 250 mila lire ciascuno se ricordo bene, ma ancora adesso penso che mai tanti soldi furono spesi meglio. Li guardo, li ritengo amici, gli vorrei anche parlare ma mi freno pensando che se lo facessi dovrei ritenermi diventato matto.

MACCHIA BIANCA - STORIA DEL MORO


Avevo  sette  anni, allora, e la guerra era finita da poco. Ero piccolo e tutt’ossa. Dentro, mi portavo visioni di stupore e sofferenza: il rombo ovattato delle formazioni di aerei che sorvolavano il paese, il lampo dei cannoni lontani, la luce accecante del bengala caduto nel cortile, il campanile della chiesa fatto saltare dai tedeschi, gli americani che in paese erano arrivati con i carri armati dopo i tedeschi, portando zucchero e cioccolata.
Abitavo in campagna dai nonni, a Minerbio. Davanti a casa c’era un grande prato, che ricordo invaso dai pulcini. Mi sdraiavo sull’erba e li guardavo zampettare qua e là. Li aiutavo con la mano quando inciampavano: si raddrizzavano e scappavano via pigolando, non so se intimiditi o riconoscenti. Mi sorprendevo di quanta fame avessero: pareva che l’unico scopo del loro girovagare fosse la ricerca di qualcosa da beccare, come se anche in loro fosse ancora vivo il ricordo di patimenti passati.
A volte salivo sul grande tiglio di fianco alla casa. Fra i rami mi ero costruito una capanna di foglie. Da lì osservavo il mondo intorno e la vita che animava il grande cortile dietro la casa.
C’era l’orto, la stalla, il porcile, il portico col fienile, la rimessa per gli attrezzi del nonno e un pozzo profondo, con tanti piccoli funghi bianchi attaccati alla parete, dal quale prendevamo l’acqua sempre fresca.
Era il mio mondo, questo. Vi trascorrevo ore e ore a cercare chissacosa, a scoprire, a frugare, a osservare soprattutto lo svolgersi della vita degli animali. Avevamo conigli, galline, due mucche e tre maiali. Erano tutti amici, per me, e ciascuno aveva un nome, tranne le galline che erano troppe.
Ricordo ancora il giorno in cui arrivò il Moro. Era primavera, la siepe di biancospino dietro la stalla era in fiore e il suo profumo si mescolava a quello delle acacie e del caprifoglio che erano tutt’intorno.
Dal mio nascondiglio sull’albero vidi arrivare mio nonno. Il suo nome era Giovanni ma tutti lo chiamavano Zanén. Era piccolo, il naso e le guance accese, le mani grosse e nodose, i capelli bianchi tagliati cortissimi. Aveva un toscano sempre spento fra i denti e un fazzolettone rosso annodato al collo per trattenere il sudore. Di solito camminava piano, come fanno tutti quelli di campagna. Quel giorno trotterellava con passo svelto e intanto ridacchiava. Si trascinava dietro un cavallo. Scostai i rami del tiglio per vedere meglio, man mano che venivano avanti.
Era un cavallo bellissimo, elegante, slanciato. Non uno di quei tozzi cavalli da tiro che si vedono in campagna. Scivolai in fretta giù dall’albero sbucciandomi le cosce contro la corteccia e corsi verso la stalla. Il cuore sembrava volesse uscirmi dal petto, tanto batteva. Non avevo mai visto da vicino un animale così grande. Provavo paura e ammirazione insieme.
- Toccalo, accarezzalo sul muso, non aver paura. E’ buono... mi disse il nonno.
Lo sfiorai piano, scendendo con la mano dalla fronte fino alle narici umide. Era tutto nero, il manto lucidissimo. E aveva una grossa macchia di pelo bianco in mezzo al petto. Gli occhi erano docili, amichevoli, grandi. Quando lo accarezzai di nuovo scrollò la testa. Istintivamente ritrassi la mano, avevo paura che mi mordesse. E invece lui mi appoggiò la grossa testa sulla spalla.
- Ecco, adesso siete amici, disse il nonno.
- Come lo chiamiamo? chiesi, sperando che lasciasse decidere a me.
- Ha già un nome: si chiama Moro. Guarda, c’è scritto qui...
E mi mostrò un foglietto, una specie di carta di identità che allora era obbligatoria per cavalli e muli. Non sapevo leggere. Nemmeno il nonno sapeva leggere, però era bravissimo a fare i conti. C’era scritto - mi disse- che quel cavallo si chiamava Moro, era nato dieci anni prima, era alto un metro e sessantun centimetri, il mantello era baio scuro, come segni particolari aveva un “fiore” bianco sul petto.
Il nonno l’aveva acquistato dal Comando militare. Era appena finita la guerra e i militari stavano vendendo tutto ciò che non era più utile.
*****
Mentre il nonno sistemava il Moro nella stalla cominciai a fantasticare. Anche lui forse aveva fatto la guerra, chissà quale era stato il suo incarico, chissà che pericoli aveva corso. Lo esaminai ben bene per cercare una ferita, un segno del suo eroismo. Non trovai niente, né lui mi rispose quando gli chiesi - proprio così - del suo passato. Forse preferiva non ricordare le brutture della guerra. Rispettai il suo silenzio e da quel giorno non gli feci più domande del genere.
Da quel giorno trascurai anche quasi completamente i pulcini, i conigli, le mucche, i maiali. Mi interessai solo del Moro. Trascorrevo moltissimo tempo nella stalla con lui.
Mi sedevo sulla greppia di cemento per poterlo guardare bene negli occhi. Raccoglievo fasci di fieno profumato e glieli allungavo. Lui mangiava di gusto, stando bene attento a non toccarmi la mano con i grandi denti gialli. Sicuramente capiva quello che gli raccontavo, mi guardava in faccia con attenzione, di tanto in tanto annuiva con forza. Mi permetteva anche di andargli in groppa: con le gambe nude gli accarezzavo i fianchi rotondi solcati da grandi vene, gli strofinavo il ciuffo di capelli che aveva fra le orecchie e lui per dire che era d’accordo muoveva la coda.
Un giorno il nonno mi disse che i cavalli erano golosi di barbabietole e quella per me fu una rivelazione importantissima.
Il paese era tagliato in verticale dalla ferrovia. Ogni giorno passavano almeno tre treni-merci pieni di barbabietole: le caricavano in campagna e le portavano in città per farci lo zucchero. Mi misi ad aspettare il trenino e quando passava tiravo dei grossi sassi contro il carico di barbabietole ammucchiate a piramide nei vagoni scoperti.
In poco tempo diventai bravissimo: ad ogni passaggio del treno riuscivo a colpire e a far cadere almeno cinque o sei barbabietole. Mi infilavo il bottino nella camicetta e correvo alla stalla. Il Moro al sentirmi arrivare trafelato si voltava pigramente, poi annusava le barbabietole e nitriva. Forse rideva di contentezza e di complicità per quella mia trovata. Mangiava con gusto, rompendo con grande fracasso quel tubero e ingoiandolo in tre bocconi. Non facevo in tempo a pulirne uno dalla terra rappresa fra le rughe della buccia che già lui cercava l’altro.
Una volta stette male. Non so se fosse perché aveva mangiato troppe barbabietole. Si sdraiò sulla paglia, lui che stava sempre in piedi anche quando dormiva, e cominciò a respirare forte e a lamentarsi. Corsi dal nonno, disperato. Il nonno camminando pian piano andò a vederlo, poi tornò in casa a prendere qualcosa e tornò nella stalla. Stette dentro più di un’ora e io lì fuori, al sole, che pregavo.
Quando uscì, il nonno era sereno. Disse solo:
- Un blocco dell’intestino, adesso sta bene. Portagli una coperta e guarda se ha bisogno di qualche cosa...
Volai nella stalla. Il Moro era in piedi e mi guardava con gli occhi lucidi. Gli sistemai sulla schiena una coperta di lana poi andai al pozzo a prendere un bel secchio d’acqua fresca. Bevve golosamente e nitrì sollevando appena le labbra. Forse per dire che d’ora in poi avremmo dovuto rubare meno barbabietole.
*****
Non crediate che il Moro se ne stesse lì nella stalla tutto il giorno a fare niente. Il nonno l’aveva comperato per un motivo ben preciso: doveva tirare il carro ai funerali.
Mio nonno nella rimessa aveva tre carri per i funerali. Uno nero, molto semplice, senza tanti fronzoli. Un altro tutto nero ma con bellissimi fregi e incisioni, per i più ricchi. Poi uno bianco, per i bambini, più piccolo, con tante incisioni, uguali per ricchi e poveri. Quando in paese moriva qualcuno, chiamavano il nonno per il “trasporto” dalla chiesa al cimitero, o dalla casa al cimitero se era uno senza religione. E il Moro doveva tirare il carro.
A me pareva che fosse nato per quel mestiere. Non si emozionava, perché lui in guerra chissà quanti morti aveva già visto. Poi era tutto nero e quindi era intonato al colore del funerale. E poi era docile e paziente e non scalpitava per il fatto di dover camminare pianissimo.
Un funerale in paese capitava sette-otto volte l’anno, forse di più, perché a quei tempi la gente moriva spesso e non campava tanto a lungo come adesso. Per me era un avvenimento straordinario, ogni volta. Non era come adesso che il carro funebre è un’automobile nera e la vedi passare in fretta nelle strade seguita da altre macchine con dentro i parenti che chiacchierano più che piangere. Allora era una cerimonia in grande stile, e nell’aria intorno si capiva che uno del paese non c’era più.
Il nonno aveva un vestito apposta per il funerale. Tutto nero, la camicia bianca con la farfalla, elegante; in testa metteva un cappello a bombetta, e per questo lo chiamavano anche “al bumbén”. Impiegava mezz’ora a vestirsi e a farsi la barba e a preparare il carro. Io invece vestivo il Moro. Anche lui era elegantissimo. Gli mettevo sulla groppa un drappo nero con l’orlo dorato, sulla testa il cappuccio nero orlato di bianco dal quale spuntavano gli occhi e le orecchie. Poi i finimenti buoni, che ingrassavo e lucidavo il giorno prima.
Aiutavo il nonno ad attaccare il Moro al carro e quando loro due partivano dal cortile, io correvo sul tiglio. Da lì avrei visto il funerale, perché per andare al cimitero passava davanti a casa nostra.
C’era sempre la banda davanti al Moro e al carro. Il tamburo e il trombone scandivano una marcia lenta e triste. Dietro, il prete e il chierichetto con la croce, poi il corteo dei parenti tutti vestiti di nero. Gli uomini tenevano il cappello in mano, le donne portavano in testa lunghi fazzoletti, chi non l’aveva si copriva la testa col fazzoletto da naso. Quando sentivo i rintocchi della campana - un suono lento e profondo - voleva dire che il corteo partiva. Le botteghe abbassavano le saracinesche in segno di lutto, le persone davanti alle osterie smettevano di giocare, di bere, di parlare e un grande silenzio scendeva su tutto il paese. Si sentiva solo bisbigliare: Puvratt, l’aveva la tisi... Oppure: Adess, chissà chi bèda ai ragazù...
In quel momento il Moro diventava protagonista del funerale. Il nonno, che sedeva a cassetta con la sua faccia rossa e il toscano spento fra i denti, non  faceva niente. Giusto un piccolo colpetto sulla schiena con i finimenti per dirgli che era ora di andare e una piccolissima tirata di redini quando dovevano fermarsi. Non c’era nemmeno bisogno di tirare a destra quando si doveva imboccare la strada del cimitero: il Moro dopo un paio di funerali aveva imparato tutto e guidava il corteo senza bisogno di istruzioni.
Lo guardavo arrivare e mi riempivo di orgoglio. Era imponente, così bardato a lutto. Camminava adagio per non affaticare troppo la gente del corteo. Non nitriva per non disturbare il dolore che era nell’aria. Non muoveva né la coda né la testa. Capiva. Trasportava una persona all’altro mondo ma col suo portamento discreto eppure fiero pareva volesse dire: la vita è questa, si nasce, si muore, ci si addolora, si ride; bisogna passare i giorni fin che ce n’è, con dignità e serenità.

*****
Fui fiero di me stesso il giorno che per la prima volta tenni le redini del Moro. Lo avevamo attaccato al calesse e col nonno eravamo andati fuori del paese a prendere delle pesche da un contadino. Sulla strada del ritorno il nonno volle accendersi il toscano. E allora mi disse:
- Tò, tieni le redini che io devo avere le mani libere...
Fui preso da una emozione fortissima. E da paura. E se avessi tirato tanto da farlo imbizzarrire?  E se avessi tirato a destra, non saremmo finiti nel fosso? E come si fa a guidare un cavallo quando la strada curva? Doveva essere tanta e tanto evidente la mia ansia che il nonno si mise a ridacchiare e a tossire mentre con le mani proteggeva il fiammifero dal vento.
Il Moro fu bravissimo. Forse capì che le redini avevano cambiato di mano, perché voltò la testa un paio di volte. Ma fece finta di niente. Accennò a un passo di corsa, quel furfante, ma solo per un momento: tirai leggermente le redini verso di me e lui si rimise al passo. L’operazione dell’accensione del toscano durò sicuramente più del necessario e nel frattempo io acquistai sicurezza. Mi sentii in perfetto accordo col Moro, lo guidai a zigzag e lui mi accontentò andando dove volevo io, anche se era un andare da matti: in quel momento il Moro e io eravamo due bambini che giocavano lungo la strada, come quelli che si divertono a imitare il volo di un uccello o di un aereo e vanno di qua e di là.

*****
Quella meravigliosa amicizia fra me e il Moro durò per due anni. Due anni felici. Finché un giorno...
Era un bella sera d’autunno. L’aria era impregnata del profumo dei cespugli. Le luci nelle case erano già accese. Dall’osteria si levavano i canti degli ubriachi e le grida di quelli che giocavano a briscola. Ero sdraiato sul prato davanti a casa e guardavo il cielo. Provavo a contare le stelle e mi pareva che non finissero mai. I cani abbaiavano, lontano. E lontano, all’orizzonte, degli strani lampi illuminavano il cielo sereno. Erano grandi bagliori che scoprivano fantastiche montagne di nuvole nere. Si alzò una brezza che poi divenne vento. E il vento piegava le acacie e i cespugli di biancospino.
Cominciò a piovere, dopo un po’, e la nonna mi chiamò in casa. Poi la pioggia si trasformò in diluvio. E dalle nuvole scure che adesso erano sul paese si scatenarono tuoni e fulmini che sembrava la fine del mondo. Avevo paura, non pensai al Moro, non mi chiesi se anche lui aveva paura, da solo là nella stalla, e questo non me lo sono mai perdonato.
Ci fu un tuono terribile, e poi il rumore assordante di un portone spalancato, sbattuto dal vento. Corremmo ai vetri della finestra e vedemmo il Moro.
Si era slegato, era uscito dalla stalla. Era terrorizzato. Si impennò in mezzo al cortile e un lampo illuminò il suo mantello nero lucido di pioggia. Sul petto, la sua macchia bianca sembrava un fiore appassito. Si impennava e nitriva disperato, il Moro. Anche lui aveva paura di quel temporale. Non sapeva cosa fare, dove andare, aveva perso la ragione.
Uscì di corsa dal cortile e si mise a galoppare all’impazzata lungo la strada. Il nonno uscì a precipizio, era la prima volta che lo vedevo correre; chiamò altri uomini per aiutarlo a fermare il Moro. Lo rincorsero per tutto il paese, nei vicoli, fra le case strette. E lui scappava, impazzito per i tuoni e i lampi.
In casa, io aspettavo e piangevo. Pensavo che forse quei tuoni e quei lampi gli avevano ricordato la guerra, quella guerra che aveva voluto dimenticare e che adesso forse gli era tornata in mente. Lo riportarono a casa dopo tre ore. Era bagnato fradicio, gli occhi ancora impauriti e fermi in una strana fissità. Pareva calmo. Il nonno lo ricondusse nella stalla, io lo strofinai con un panno caldo sul muso, sulla schiena, sulle gambe e la pancia, lo rincuorai parlandogli sottovoce nell’orecchio. Mi guardava come non mi aveva mai guardato. Era triste, pareva che volesse chiedere scusa di quel momento di follia. Lo lasciammo quando sembrò che volesse dormire.
Il mattino dopo lo trovai sdraiato sulla paglia. Respirava a fatica muovendo forte la pancia e la schiena. Lo accarezzai, mosse la testa e mi guardò. Gli occhi erano umidi di lacrime. Emise un nitrito debole. Fu l’ultima volta che lo vidi. Il nonno mi fece uscire, era venuto il dottore dei cavalli. Non riuscì a salvarlo. A sera mi dissero che il Moro se ne era andato: il suo cuore non aveva resistito a quella paura e l’acqua di cui si era inzuppato gli aveva procurato una polmonite fulminante.
Era morto con dignità. Ma prima aveva voluto salutarmi, con quel nitrito debole.
Non ci fu carro funebre per il Moro, né corteo, né serrande abbassate, rintocchi di campane o silenzio nelle strade.
Soltanto nel mio cuore calò un silenzio sconfinato, immenso: era il dolore per la scomparsa di quell’amico tutto nero con una macchia bianca sul petto.
Cercarono di consolarmi dicendomi che il Moro adesso era felice e galoppava nei prati del cielo, che sono là oltre le nuvole più alte, fatti apposta da Dio per i cavalli. Non si sarebbe mai dimenticato di me – dicevano - e un giorno, se fossi stato buono, avrei anche potuto rivederlo...

MACCHIA BIANCA - STORIA DI FLIC


Avevo nove anni. La guerra era ormai un ricordo, il paese era tornato alla normalità, nei campi i contadini stavano piegati sulla terra. Di sera tornavano lentamente alle loro case, la zappa e il badile appoggiati su una spalla, il cappellaccio di paglia buttato indietro sulla testa sudata, un fazzolettone legato attorno al collo. Avevano la faccia rossa di sole, solcata da rughe profonde e nere di polvere ma si vedeva che dentro non erano stanchi.
Spuntavano dai viottoli laterali e quando arrivavano sullo stradone spesso incrociavano le mondine che rientravano dalla risaia in bicicletta. I capelli erano nascosti da grandi cappelli di paglia, tra quell’ombra lampeggiava il bagliore degli occhi. Pedalavano allegre, chiacchierando e ridendo e gesticolando. Le sottane svolazzavano qua e là, sollevate dalle ginocchia, lasciando intravedere le cosce bianche.
Allora ridevano anche gli uomini e volavano nell’aria le grida di appuntamento per la sera: Cesira, a s’vdan in piaza...  Maria, a s’truvan al baladur...
 La sera il paese si riempiva di vita. I giovani si incontravano in piazza e poi facevano lunghe passeggiate sul marciapiede lungo lo stradone. Altri invece si trovavano alla sala da ballo all’aperto, vicino al campo sportivo.
La nonna ci portava spesso, me e mia sorella, a vedere lo spettacolo del ballo. Stavamo dietro la stecconata ricoperta di edera e dai buchi guardavamo dentro. Mi piaceva sentire la fisarmonica e i violini, avevano un suono insieme allegro e malinconico che si perdeva lontano tra i profumi della sera.
E mi piaceva guardare i ballerini. C’era la Bruna che era la più ricercata. Aveva i capelli nerissimi, lo sguardo sfrontato, la sottana larga e gli uomini si vedeva che erano in soggezione davanti a lei. E c’era Sgargi, che non perdeva un ballo, fosse un tango o una mazurka: aveva i capelli lucidi di brillantina e la camicia bianca con le maniche rimboccate sulle braccia robuste, una faccia di quelle che non hanno paura di niente. Quando ballavano loro due, nella pista si faceva largo. Poi un giorno la Bruna avrebbe tentato di ammazzarsi con la varechina perché Sgargi l’aveva lasciata per un’altra venuta da fuori.
I vecchi invece andavano nelle osterie e giocavano a briscola o a morra; bevevano e battevano i pugni sul tavolo e gridavano quando avevano una carta buona o facevano il punto.
Quando il buio diventava fitto e i grilli cantavano più forte, nell’aria si levavano i canti degli ubriachi e dal ballatoio cominciavano ad andar via i giovani. Molti caricavano le ragazze sulla canna della bicicletta e sparivano nella notte, ridacchiando e lanciandosi saluti. La notte, allora, era bellissima e misteriosa
Anche il nonno andava all’osteria, una sera in quella dello zio Andrea e una sera in quella della zia Nina, per non far torto a nessuno. Erano osterie bellissime, col bancone alto, di legno vecchio e scuro, e dentro un odore acre di vino, e poi i tavolini di legno e le sedie di paglia; sopra i tavolini, i litri e i mezzi e i quartini di vetro trasparente. Capivo che il nonno tornava dall’osteria quando lo sentivo canticchiare con la voce incerta: La Marianna la va in campagna, la va in campagna a lavurer, la va la vaaaaa!

*****
Da quando non c’era più il Moro il nonno non faceva più i funerali e che io sappia non lavorava nemmeno. Aveva venduto i carri, poi le mucche, poi i maiali. Forse campava vendendo e comprando roba, come aveva fatto suo padre, che era stato ambulante.
Io andavo a scuola, da qualche anno. Non c’era la scuola, a Minerbio. E allora la mamma mi mandava a lezione da una maestra privata, in casa sua, dove c’era un buon profumo di inchiostro. E’ lei che mi ha insegnato a scrivere e far di conto.
Avevo una grande difficoltà coi numeri, facevo fatica a capire la questione dei decioni e dei soldoni e allora mi si inumidivano gli occhi per la vergogna: la maestra mi spiegava paziente, ma io non capivo. A casa riempivo le pagine del quaderno con numeri e parole ma soprattutto disegnavo cavalli. Ero diventato bravissimo, avevo copiato il primo da un vecchio libro e dopo ero riuscito a farli da solo, subito, a penna, senza correggere il segno.
Se chiudo gli occhi e ripenso a quei giorni, sento odori, soprattutto quello della drogheria, quando andavo a comprare i pennini e i quaderni, un profumo acre e gradevole fatto di una infinità di sfumature, perché in quella bottega piccola vendevano tutto, dalla cioccolata all’inchiostro, dalle scarpe di tela alla farina.
Ero triste. Avevo ancora la mia capanna sul tiglio e ci stavo ore e ore a pensare a chissachè. Ero così da quando era morto il Moro. Forse fu per questo che un giorno mia mamma decise di farmi una sorpresa...

*****
Era un pomeriggio di una domenica d’estate. La nonna aveva messo a scaldare al sole una catinella d’acqua presa dal pozzo, mi ero fatto il bagno nella rimessa degli attrezzi poi mi ero seduto sui gradini davanti a casa a fare merenda con una fetta di pane coperta di panna e di zucchero.
Mi sentii chiamare dalla mamma, era in casa con la nonna e con la Pia, la moglie del fornaio. Sulla tavola c’era un cestino.
Mi avvicinai e guardai dentro il cestino. C’era un cosino tutto nero, raggomitolato, piccolissimo, profumava di latte e dormiva con le zampine sopra gli occhi.
Guardai la Pia, con fare interrogativo.
- Pavlein, it cuntaint?  chiese la moglie del fornaio.
- Contento di cosa?
- Mo’ dal cagnulén!...
Mi avevano regalato quel cagnolino, per vedere se riuscivano a farmi tornare allegro. Era nato forse un mese prima dalla cagna del fornaio e adesso era mio.
Non ero entusiasta, istintivamente paragonai quel cosino al Moro, così alto, imponente. Quel cagnino invece era una piccola cosa indifesa, indifferente a tutto. Lo guardai meglio, lo accarezzai piano. Era caldo e morbido. Lo rigirai sulla pancia e vidi che sul petto aveva una macchia bianca! Ebbi un tuffo al cuore: come il Moro! Gli volli bene all’istante, mi sentii vibrare in ogni nervo. Lo estrassi dal cestino, lo misi sulla tavola.
Il cagnino si guardava intorno con aria smarrita e impaurita, non capiva che cosa dovesse fare e che cosa tutta quella gente intorno si aspettasse da lui. La mamma gli mise sotto il muso una ciotola di latte. Cominciò a leccare furiosamente, spruzzandosi di bianco i baffi piccoli e il naso. Aveva una fame da lupo. E tanto era il suo entusiasmo che a forza di zampettare intorno alla tazza arrivò sull’orlo del tavolo e prima che potessimo farci qualcosa cadde per terra. Un tonfo sordo.
Non ebbi il coraggio di guardare. Temevo che si fosse fatto male, non avevo ancora cominciato a volergli bene e già lo perdevo?
Per fortuna non si era fatto niente. Gli misi la tazza in terra e lui continuò a leccare il latte come se niente fosse. Scoppiai a ridere di felicità e credo di aver ben ripagato mia madre, con quella risata.
Nemmeno quella volta riuscii a inventare un nome per il “mio” animale. Volevo chiamarlo Boby, o Fuffi, che erano nomi comuni a tutti cani del paese. Mia mamma però me ne suggerì uno che mi piacque subito: Flic. Non significava niente, ma era un nome famigliare: era il protagonista di una filastrocca che la mamma mi canticchiava sempre d’inverno davanti al camino: E’ morto flic, è morto floc / povero flic, povero floc...

*****
Flic fu l’amico delle mie scoperte, il mio compagno di avventura. Il Moro mi aspettava nella stalla e ascoltava quello che gli raccontavo. Flic invece semplicemente veniva con me. Per questo, col tempo, il mio legame con Flic se possibile divenne ancora più stretto di quello col Moro.
Era allegro, vivace, instancabile come tutti i cuccioli. E capiva il bene che gli volevo. Quando, dopo una corsa a perdifiato intorno al prato, mi lasciavo cadere a terra esausto, mi saltava sul petto e scodinzolando furiosamente cominciava a leccarmi la faccia, quasi con voluttà e mi mordicchiava le mani e il naso.
Ero già grande e il mio mondo si allargava ogni giorno di più. Minerbio non era più solo la mia casa col cortile e il fienile e la stalla e la rimessa. Era un paese lungo, le case vecchie costruite ai bordi dello stradone che porta a Baricella, in mezzo allo stradone c’erano i binari del trenino; e poi c’era una rocca antica e un borgo nascosto pieno di case vecchissime e piccole.
Tutt’intorno, i campi. Attraverso i campi andavo a esplorare posti nuovi: dietro i canneti scoprivo un macero, oltre una siepe di biancospino si spalancava una distesa di grano mai vista prima, là in fondo all’orizzonte c’era un boschetto di pioppi giovani a regalare frescura.
Mi piaceva entrare in quei mondi nuovi, mi immaginavo esploratore, stavo attento ai rumori, ai piccoli movimenti di una lucertola o di un insetto, ascoltavo il vento frusciare tra le foglie e le piante, annusavo i mille odori diversi che scaturivano dalla campagna, da quello dolciastro degli alberi da frutto a quello inebriante dei cespugli di caprifoglio.
Flic mi seguiva o mi precedeva con la stessa intensa emozione, con la stessa palpitante attesa di nuove e immediate rivelazioni. Ce ne tornavamo a casa dopo ore, stanchi, impolverati, ma felici, saltellando.
A volte stavamo fermi in un posto per ore. Come quando andavamo sull’orlo del canale o di un macero. Restavamo seduti sull’erba in silenzio a osservare le rane che si tuffavano o che emergevano dall’acqua stagnante gracidando, i pesci che facevano le bollicine: erano esseri straordinari che popolavano un mondo diverso. E poi c’erano gli uomini e le donne che battevano la canapa e la mettevano nell’acqua con bastoni lunghissimi: Flic li seguiva e abbaiava.
Ci piaceva stare anche in mezzo alla gente e guardare quello che faceva. Un giorno andavamo dal fabbro a vederlo piegare il ferro rosso di fuoco, un altro dal maniscalco che inchiodava i ferri ai cavalli e mi meravigliavo che non gli facessero male, un altro ancora dal falegname che impagliava le sedie e piallava le assi per i mobili.
Il mercoledì andavamo al mercato, a gironzolare fra le bancarelle. Flic si intrufolava fra le gambe della gente, abbaiava a tutti come per salutare e mi guardava per ricevere un cenno di approvazione. A volte ero così felice che me lo stringevo stretto al petto, e lo accarezzavo a lungo facendogli il solletico sulla macchia bianca.
Flic - avevo dimenticato di dirlo - era un “bastardino” alto non più di venti centimetri, due occhi vispi e lucidi, un naso sempre umido. Cresceva a vista d’occhio ogni giorno ma sarebbe rimasto sempre piccolo, come la sua macchia bianca sul petto.
In breve, in paese diventammo la favola di tutti per via che eravamo inseparabili. Quando dovevo andare a scuola, Flic mi aspettava sulla porta di casa e mi correva incontro che non mi aveva ancora visto, aveva sentito che stavo arrivando. Mi faceva feste a non finire, mi saltellava intorno come se non mi vedesse da mesi, prendeva la palla fra i denti e chiedeva di giocare.

*****
Un giorno seppi che avremmo dovuto lasciare la campagna. Mio padre faceva il camionista, quando tornava dai suoi viaggi doveva sempre tornare in bicicletta da Bologna a Minerbio, era dura. Così aveva trovato casa in città, lì ci saremmo trasferiti la mamma, mia sorella, il babbo e io. E naturalmente Flic.
La mamma e il babbo andarono a Bologna qualche giorno prima, per preparare la casa e i mobili e tutto. Mia sorella, io e Flic li raggiungemmo più tardi, in treno. Non mi resi conto che la mia vita sarebbe cambiata radicalmente, che avrei abbandonato la campagna, gli alberi, il prato, il mio tiglio, il paese. Mi importava solo che Flic fosse con me. Anzi, quella nuova avventura alla scoperta della città mi eccitava.
Non ero mai stato in treno. Per andare a Bologna, da Minerbio, allora c’era il treno: la littorina, tre carrozze, andava veloce, per arrivare impiegava solo quasi un’ora perché si fermava solo nei paesi grossi come Granarolo, Quarto Inferiore. Poi c’era anche un “accelerato”, un treno-merci a vapore che aveva anche una carrozza viaggiatori e che si fermava proprio ad ogni paesino, Ca de Fabbri, Armarolo, Sisto, Cadriano.
Flic e io osservavamo con curiosità mista a timore quel mondo nuovo che sfilava davanti a noi. La campagna pareva sconfinata, le case isolate vi si perdevano. Di tanto in tanto si elevavano boschetti di pioppi, o distese di meli o peri. Poi la campagna lasciò il posto alle case, fitte fitte, alcune alte. E la città, con le automobili. Credo che prima di allora avessi visto al massimo due o tre automobili: a Minerbio giravano tutti i bicicletta....
Alla stazione ci aspettava il babbo con un camioncino. Ci caricò tutti e ci portò a casa: Flic sedeva sulle mie ginocchia e guardava smarrito fuori dal finestrino ansimando per l’emozione, la lingua rosa fuori dalla bocca. Abbaiava, quando un’altra macchina ci passava vicino, forse perché aveva paura, forse per salutare. In noi c’era un senso di eccitazione misto a soggezione.
Di tanto in tanto, fra una casa e l’altra si vedevano cumuli di macerie, montagne di pietre e terra, erano le case abbattute dalle bombe degli aerei. Intorno, non un albero, non un prato, non un filo d’erba. E questo ci lasciò sgomenti,  me e Flic.
Arrivammo a casa. Un palazzone nuovo, di quattro piani. Noi stavamo al terzo. Mi piacque l’odore dell’intonaco ancora fresco, i pavimenti ben levigati, le porte nuove. Com’era diversa quella casa da quella dei nonni! Avremmo vissuto lì. Ma Flic come avrebbe fatto? Credo che per lui sia stato un trauma. Sotto casa c’era una strada larga, tutta di asfalto, dove avrebbe potuto correre? Pochi giorni dopo per fortuna avremmo scoperto che lì vicino scorreva un canale.

*****
Il canale divenne  il nostro nuovo terreno di esplorazione. Ci avventuravamo sulla riva e andavano ogni giorno sempre più lontano, scoprendo sempre qualcosa di nuovo, un’ansa, una chiusa, una barca, i pesci, le donne che lavavano i panni sulla riva e a volte si fermavano per togliersi le sanguisughe dai polpacci, e frotte di ragazzi che sguazzavano allegri nell’acqua limpida.
Pomeriggi di sole caldo dedicati a esplorare il nuovo mondo della città. Venne l’inverno e non fu così piacevole. Flic doveva stare in casa, io andavo a scuola e quando partivo lui correva in terrazza e guaiva e piangeva.
Il nostro legame si era fatto ancora più stretto. Ci divertivamo a fare il bagno assieme nella vasca, la domenica mattina veniva a letto con me, sotto le coperte, e mia madre rideva - prima di arrabbiarsi - nel vedere Flic con le lenzuola fino al collo e la piccola testa sul cuscino:
- Sembra un cristiano! diceva
Flic era stato bravissimo. Aveva imparato a fare i suoi bisogni in una cassettina, dormiva in cucina in una cesta di vimini, quando andavamo in giro stava attento a non scendere dal marciapiede per non essere investito dalle biciclette o dalle macchine. Capitava qualche volta, di sera, d’estate, che il babbo ci portasse tutti a prendere il gelato in un bar di un suo parente, parecchio lontano da casa. E allora Flic restava in casa da solo. Andava in terrazza e piangeva, piangeva da spaccare il cuore, forse aveva paura che lo abbandonassimo.
Quando tornavamo - e io per arrivare prima dicevo sempre che avevo sonno - era un diluvio di feste.
D’estate tornavamo anche a Minerbio, per un mese. Era un viaggio affascinante, in treno. Riscoprivamo pian piano la campagna, prima i campi da frutta, poi gli alberi, poi i nostri cespugli, poi il paese con le sue case. Erano visioni che mi riempivano il cuore.
Anche Flic era felice. Per un mese dimenticavamo la città, riconquistavamo la nostra libertà, riscoprivamo i nostri posti, le vecchie cose che adesso sembravano nuove e ci beavamo dei profumi intorno.

*****
Durò così qualche anno. Io andavo a scuola, mi ero fatto qualche amico nel palazzo, ma Flic restava il mio compagno preferito. Quando io ero a scuola, la mattina, Flic accompagnava sempre la mamma a fare la spesa.
Ormai lo conoscevano tutti e tutti lo salutavano, lo chiamavano e lui correva e scodinzolava. Quando la mamma entrava in un negozio, lui si sedeva fuori e aspettava guardando la gente.
Un giorno di maggio avvenne la tragedia. Tornai a casa da scuola e Flic non c’era, la mamma era seria. Disse che mentre lei era dal fruttivendolo Flic era stato preso dagli accalappiacani: lo avevano chiamato, lui era andato incontro scodinzolando e lo avevano preso, caricato su un furgone e portato via.
Fu come se mi avessero dato una bastonata in testa. Piansi, mi consolarono dicendo che forse, pagando, lo avremmo avuto indietro. Una nostra cugina, la Pina, andò al canile. Io aspettavo a casa piangendo e col cuore che batteva furiosamente nelle testa.
La Pina tornò, dopo alcune ore, scura in volto. Chiamò la mamma e le parlò fitto fitto in un angolo. Mia madre mi guardava, e piangeva. Capii che era accaduto qualcosa di irreparabile. Non ricordo più come me lo disse, con quali parole, forse l’ho rimosso dalla memoria. 
Mi fu detto che i cani presi e portati al canile di solito li tenevano per tre giorni prima di ucciderli. La verità era che tenevano in vita per tre giorni solo i cani di lusso. I “bastardi” li uccidevano subito. Flic era un bastardino ed era stato subito ucciso. Col gas, mi disse la mamma: non aveva sofferto, mi assicurò, non aveva sentito niente...
Fu un dolore indicibile, come se mi avessero strappato un pezzo di carne, una parte di cuore. Piansi per giorni, smisi di mangiare, non volevo credere alla ferocia degli uomini, avevano ucciso una bestiolina innocua e l’avevano fatto senza aspettare che qualcuno lo andasse a cercare soltanto perché era un piccolo bastardino, nero con una macchia bianca sul petto, come ce ne sono tanti.
Mi ammalai seriamente: itterizia. Divenni tutto giallo e ci vollero mesi di iniezioni e sciroppi per rimettermi in piedi. Ma quella ferita non si sarebbe più rimarginata. Capii che la mia vita sarebbe cambiata, senza Flic. Dissi che non  avrei mai più voluto animali per amici...

MACCHIA BIANCA - STORIA DELLA NERINA


Sono quel che  si dice un signore anziano. Ho moglie, un figlio e tanti gatti. Vivo sereno in una villetta tutta mia alla periferia di San Lazzaro, Bologna. Ho la campagna a portata di mano. In tre minuti di auto sono sulle colline. Ho tanto da fare, tanti progetti. E ho il senso del tempo che scorre tremendamente in fretta: non so se ce la farò a fare tutto, ho un sacco di malanni addosso che mi spegneranno presto. Pare ieri che piangevo Flic. E’ passato quasi mezzo secolo e io sono cambiato assieme al mondo.
Sono arrivati il fax e la tivù, il computer, internet e le astronavi. Da bambino guardavo affascinato le stelle. Adesso l’uomo è già stato sulla Luna da un pezzo. Una volta il Moro accompagnava al cimitero i morti di tisi o di malaria. Oggi un’auto sbriga la formalità per chi è stato sopraffatto dai mali “del secolo” che sono infiniti: droga, aids, diabete, cancro, infarto. Non ci sono più state guerre da cinquant’anni ma muore più gente oggi in un week end al mare che sotto un bombardamento allora. Le donne non sciacquano più i panni nei canali né i ragazzi vi nuotano: morirebbero di qualche malattia infettiva.
A Minerbio non ci sono più risaie, non c’è più il trenino in mezzo alla strada perché ci si arriva in un quarto d’ora di macchina.
Ci sono ancora le osterie, perchè qualcuno ha avuto l’idea di ricreare l’ambiente di una volta a beneficio di coloro che ne hanno sentito dire dai padri. I giovani dicono: questa sera andiamo all’osteria, ma non sanno cosa era davvero. Bevono di tutto ma non il vino, con questo rinnegando una cultura. L’osteria della Nina adesso si chiama “pub”, quella di Andrea è un locale “alternativo”: a che cosa, non è dato sapere.
La gente di campagna si è trasferita in città lasciando marcire bellissime case. E la gente della città spende follie per tornare in campagna, comprare i ruderi e ristrutturarli. E’ un mondo pazzo, questo: ostaggio della tecnologia, rincorre il passato forsennatamente quanto inutilmente. Le tagliatelle della nonna reclamizzate dal negozio sotto casa sono fatte con le uova di galline allevate in batteria. Il pane che si promette essere “casereccio” è cotto nei forni a microonde. Il formaggio “genuino” è parto di animali abituati ormai a ingozzare erba avvelenata.
Vado poche volte a Minerbio. La casa dei nonni c’è ancora, non so a chi appartenga, ma solo io so riconoscerla. Dove c’era la stalla e la rimessa sono stati fatti appartamenti. Il cortile è di asfalto, il tiglio è stato abbattuto per farci il parcheggio, il grande prato davanti a casa non c’è più, per allargare la strada, il pozzo è stato chiuso e coperto con un tombino.
E quando c’è un funerale, nessuno abbassa più le serrande o si toglie il cappello: è calata la solidarietà, sono aumentati a dismisura l’indifferenza e l’egoismo.

*****
Mezzo secolo, da allora. Sono cresciuto come tanti, fra momenti di sconforto e di coraggio, attraversando gioie e sofferenze. Soprattutto, prendendo coscienza delle miserie dell’uomo, sempre più “piccolo” man mano che passava il tempo. Ho lottato per vivere, per conquistarmi un posto: con ostinazione e orgoglio. Ce l’ho fatta, dicono. Sì, ho fatto il mestiere che mi piaceva. Ma soprattutto ce l’ho fatta perché sono rimasto quasi come allora: con i miei stupori, i candori di quando ero bambino, mai oscurati dalla rassegnazione e dalla conoscenza.
Amavo la natura, la campagna.  Ancora non posso farne a meno: avverto la necessità fisica di sentirne il sapore. Amavo i miei animali. Ora li adoro tutti, con sentimenti che sfiorano il fanatismo: mi infastidiscono le zanzare, ho paura delle vespe ma non ho ammazzato mai nemmeno una formica.
Ho sei gatti, tutta “gente” di grande personalità e intelligenza: avendomi fatto capire tante cose, provo per loro sincera riconoscenza.

*****
Cominciai a frequentare gatti a trentadue anni, quando conobbi Briciola, la gatta di quella che sarebbe diventata mia moglie. Ancora piccola, era ammalata. Affrontava la sua sofferenza con commovente dignità. Dovemmo farla sopprimere e quello fu un giorno atroce. Giurammo - io giurai, per l’ennesima volta - che non avremmo più voluto animali. E invece....
Da sposato, andai a vivere in un condominio, terzo piano: impossibile tenere animali. Resistei eroicamente per sette anni, poi scelsi la campagna. E fu un glorioso e rigeneratore ritorno al passato.
Nella nuova casa di San Lazzaro è stato un continuo andirivieni di gatti: tutti abbandonati, o perché era finito il divertimento dei bambini per i quali erano stati adottati o perché cuccioli non desiderati. Maschi e femmine indimenticabili: Bombolo, Silvestro, Matisse, Briciola II, Principessa, Scarabocchia, Zoppetto, Carboncino, Piccolissima. Capitavano in giardino, chiedevano da mangiare, offrivano sincerità. Alcuni se ne andavano dopo un po’, altri morivano investiti dalle auto quando - sospinti da curiosità o istinto - attraversavano la strada.
Oggi i miei sei gatti si chiamano Bianchina, Rossino, Gattone, Pellegrino, Nerina I, Nerina II. La Nerina (II) è la mia preferita: perché è tutta nera e ha una macchia bianca sul petto. Come il Moro, come Flic. Mi piace credere che ne sia la reincarnazione, anche perché il suo attaccamento alla mia persona ha del morboso.

*****
La Nerina arrivò un giorno di primavera di diciassette anni fa, portata da una donna che conosceva la nostra mania per gli animali. L’aveva trovata chissà dove, era piccola e vivace, gli occhi cercavano affetto. Avevamo già tre gatti e non ne volevamo altri. La rimpinzammo e poi decidemmo di portarla da un contadino in fondo alla strada, a circa un chilometro: lì sicuramente avrebbe trovato un posto per dormire e un pasto assicurato al giorno.
Non pensammo più a lei. Finchè due giorni dopo ce la ritrovammo in giardino. Stava accovacciata nell’erba e sonnecchiava al sole. Quando mi avvicinai, aprì mezzo occhio e piantò le unghie nella terra. Per avvertirmi della sua decisione di restare. Le accarezzai la testa e lei mi leccò le dita. La presi in braccio e mi si strofinò contro la faccia. Sorrisi della sua ruffianeria, non pensando che in lei forse c’era l’anima di Flic o del Moro.
La tenemmo per un giorno poi pensammo di fare un altro tentativo col contadino. Questa volta la portammo via assieme alla Piccolissima, una gatta capitata nel giardino del vicino e indesiderata.
Passò una settimana. E ricomparve, assieme alla Piccolissima. Immaginai il loro travaglio, la loro decisione di lasciare la nuova casa, il coraggio di mettersi in viaggio sfidando i pericoli della strada, dei cani sempre in giro. Entrambe avevano pochi mesi di vita ma erano già dotate di stupefacente determinazione.
Davanti a una prova di carattere così tenace, decisi di tenere la Nerina. Convinto anche da quel pelo nero e da quella macchia bianca sul petto. La Piccolissima invece fu sistemata in città presso alcuni parenti del nostro vicino.
Fu così che cominciò la mia storia con la terza “macchia bianca” della mia vita.
Non ebbe problemi di convivenza con gli altri tre gatti. Andava d’accordo con i due maschi, che allora erano Bombolo e Matisse, ed evitava Principessa, la prediletta di mia moglie, più vecchia di un anno, scomparsa nell’autunno ‘96 per un tumore. Quanto alle persone, la Nerina aveva scelto me.
Me lo dimostrò inequivocabilmente giorno per giorno. Il mattino mi salutava miagolando; saliva sul tavolo mentre facevo colazione e non smetteva di fissarmi: non voleva mangiare, solo voleva starmi vicino.
Poi mi aspettava. Non si allontanava mai, al massimo faceva il giro della casa, andando ad esplorare tutti gli alberi del giardino: dal fico all’albicocco, dal tiglio al melograno. Per qualche misterioso impulso del cervello, si avviava al garage pochi minuti prima del mio arrivo.
A volte la vedevo correre verso di me lungo il sentiero dietro casa, doveva aver sentito il rumore della macchina. Miagolava e mi precedeva in casa saltellandomi fra le gambe, visibilmente felice. La sera, se mi rinchiudevo nello studio a lavorare o ad ascoltare musica, pretendeva di entrare graffiando la porta: si sedeva sulla scrivania, guardandosi intorno.
A volte si sdraiava fra le mie carte, chiudeva gli occhi e aspettava. Non dormiva, perché come mi alzavo in piedi era pronta a scattare anche lei. Mi ricordava Flic, mi ricordava il Moro, sempre così attenti a ogni mio gesto.

*****
Mi sono  soffermato spesso a pensare alle differenze fra il Moro, Flic e la Nerina. Il Moro era l’amico fedele che ti aspetta sempre e comunque che sa ascoltarti, che ti induce alla riflessione. Flic era il compagno di avventure, solidale, fedele, allegro. La Nerina mi ha rivelato la grandiosità di certi valori: la dignità e la riconoscenza, la pazienza e la tenacia; la libertà e l’indipendenza.
Quando aspettava per ore che arrivassi o che smettessi di lavorare, stava assolutamente immobile, discreta e silenziosa. Quando decideva di uscire, mi girava intorno a lungo, avviandosi alla porta, tornando indietro, invitandomi chiaramente ad alzarmi. Non rinunciava mai al suo progetto. Quando non voleva giocare - come pretendevo - tirava fuori le unghie: era straordinaria la sua capacità di non graffiare pur esibendo quell’arma, era il suo solo modo per avvertire di lasciarla in pace.
Quando stava poco bene, si rintanava nel cantuccio più nascosto, nulla chiedendo se non di essere ignorata. Quando stava molto male, subiva senza lamenti le manipolazioni del veterinario, quasi capisse che erano fastidi necessari.

*****
Per lungo tempo le impedii di avere figli. Poi decisi che era disumano privarla di questa esperienza naturale. Non feci nulla per impedirle di innamorarsi, di essere “strana”, di andare in cerca di gatti. Mise su la pancia. Quando venne il tempo, scelse il posto per partorire. In cantina. Fece tutto da sola, fece cinque gattini, quattro neri e uno grigio.
Fu straordinario vederglieli crescere. Meglio di un cristiano. Li teneva puliti, sollecitava i più deboli, tratteneva i più vivaci. Quando cominciarono a saltellare, a uscire dalla cesta, aveva occhi per tutto e per tutti. Pronta a respingere con sbuffi minacciosi altri gatti che si avvicinavano per curiosità, attentissima a riprendere chi si allontanava troppo, ad aiutare chi tentava di arrampicarsi su un albero, a togliere dei pasticci chi si infilava fra la legna del camino. A me permetteva di accarezzarli, di tenerli in mano, ad altri no.
Non potevamo tenere altri cinque gatti e uno ad uno li sistemammo presso amici, quando ebbero poco più di due mesi. Fu in quei giorni che imparai a rispettare come essere umano la Nerina.
Pareva impazzita: cercava disperatamente il figlio mancante, lo chiamava a voce con miagolii strazianti. Quando scomparve anche l’ultimo, cadde in uno stato di profonda tristezza, forse di rassegnazione. Per molti giorni si rifiutò di mangiare: aveva capito che per qualche ragione “misteriosa” le erano stati sottratti i figli, che non li avrebbe più rivisti.
Mi sorpresi a chiedere che cosa mai potesse pensare, quali  sentimenti le si agitassero nel cuore e nel cervello, se mai i gatti fossero capaci di piangere. Sarà un caso, ma mi pare che da quei giorni avesse perso un po’ della sua voglia di giocare, della sua vivacità.
Era arrabbiatissima quando andavo in ferie. Mai più di otto giorni consecutivi, proprio per non farla soffrire troppo. Sì, perché la Nerina soffriva quando lasciavamo la casa vuota.
Non restava sola, naturalmente. Una donna era pagata apposta per portale da mangiare due volte al giorno. Ma non aveva più la mia voce, non la mia compagnia. Forse la prima volta pensò di essere rimasta sola. Quando tornai, invece di farmi le feste come mi aspettavo, mi ignorò per alcune ore. Mi teneva a distanza, era chiaramente “offesa”. Poi si lasciava andare e ricominciava con i comportamenti di sempre.

*****
La Nerina esiste ancora. Solo che è vecchia. Siamo entrambi invecchiati e come tali ci comportiamo: siamo più che mai rispettosi l’uno dell’indipendenza dell’altro.
Non gioca più, non rincorre più gomitoli o palle; dorme molto, non va in giro, non fa più gli agguati ai merli nè si avventura sugli alberi. E’ ancora capace di arrabbiarsi solo di sera, d’inverno, quando la metto fuori nella sua cesta imbottita. Vorrebbe restare in casa, e tira fuori le unghie giusto per dire che non è d’accordo. Per il resto, si accontenta di stare accovacciata vicino a me.
A me piace sentirla vicino. Ogni giorno che passa, aumentano e acquistano sempre più importanza i saluti rituali del mattino: vuole assolutamente essere presa in braccio, coccolata, le piace che le si parli.  E a me piace farlo. Ogni giorno che passa, è un giorno d’amore che ci regaliamo l’un l’altro.
Penso con dolore che un giorno, inesorabilmente sempre più vicino, verrà a mancarmi anche lei. E penso che dopo di lei, per me forse non ci sarà più tempo per un’altra “macchia bianca”.
Qualcuno ha detto che un gatto nero con la macchia bianca sul petto è un angelo.
Mi piace sempre di più credere che la mia Nerina sia un angelo che mi ha accompagnato fin qui  per tutta la vita: prima sotto le sembianze del Moro,  poi di Flic e poi di una gatta.

*****
APPENDICE 1
Questa “favola” é stata scritta nel 1998, al compimento del mio 60° anno. Oggi – anno 2006 - la Nerina non c’é più: é morta serenamente di vecchiaia a 19 anni.
Dopo di lei ci fu il Mascherino, un gatto trovatello nero e bianco (sempre quelli, i colori…): aveva la coda mozza, ricordo di chissà quale tragedia, l’abbiamo castrato ma nonostante tutto era sempre allegro, fiducioso nell’uomo e affettuoso. Amava il caldo e di notte voleva dormire con me: si sistemava col musino vicino alla mia testa, mi piaceva sentire il suo calore, il suo respiro. La mattina quando mi svegliavo, si stiracchiava a lungo e correva a reclamare il primo pasto. Dopo, era pronto per giocare. Per lui ho comprato chili di caramelle: gliele buttavo e lui le rincorreva, le lanciava, le nascondeva sotto i mobili e poi impazziva cercando di recuperarle.
Un giorno non ebbe più voglia di giocare. Stava sdraiato, era apatico. Lo portai dalla veterinaria, lo lasciai lì nella gabbietta, l’avrei ripreso la sera, dopo le analisi del sangue. Dopo alcune ore ricevetti una chiamata. Era la dottoressa, diceva che il mio Mascherino aveva l’aids, non c’era più niente da fare, volevo che fosse soppresso?
Piansi come un bambino, a 66 anni: quel gatto era stato un figlio, un fratello, l’amico che mi aveva fatto riacquistare la voglia di sorridere dopo un periodo nero. Fu un dolore atroce, non volli nemmeno vederlo, diedi disposizione perché fosse cremato. Pianse anche mia moglie. E ci dicemmo che questa era stata l’ultima sofferenza derivata dal nostro amore per gli animali.
Ma due mesi dopo arrivò la Bianchina. E un anno dopo, Carolina…. Avevano esperienze di vita disperanti, con me sono tornate a sorridere, a giocare, ad amare.

APPENDICE 2
Siamo alla fine del 2013. Adesso ho 4 gatti. C'è ancora la Bianchina, ormai vecchia ma sempre molto vitale e affettuosa. Poi sono arrivate Codagrigia e Codanera. Tutte e tre bianche pezzate di nero! L'ultimo è Tigrotto, nato il 14 aprile 2013 da Codanera. E' un discolo che rallegra le giornate mie e della mia nipotina.

domenica 22 settembre 2013

I PERCHE' - La valanga nera


Perché certi sport sono sempre più dominati da atleti di colore? E perché invece in certi altri – ciclismo o nuoto - la presenza dei “neri” é pressoché nulla?

Il calcio ha da tempo scoperto i talenti di colore e intanto celebra fra i suoi massimi campioni di sempre i “neri” Pelé (Brasile), Eusebio (Mozambico),  Weah (Liberia), Gullit e Seedorf (Suriname), Eto’o (Camerun). Negli Stati Uniti oltre l’80% dei giocatori professionisti di basket e il 73% dei giocatori di football sono di colore. Alle più recenti Olimpiadi oltre il 90% delle medaglie conquistate dagli americani sono “nere”. Gli atleti di colore dominano il pugilato e l’atletica leggera e ormai emergono in quasi tutte le discipline. Le sorelle Williams, Serena e Venus, dominano il tennis, Lewis Hamilton nel 2008 ha vinto il Mondiale di F.1, Tiger Woods è l’indiscusso re del golf, l’uomo che per primo al mondo ha guadagno in carriera un miliardo di dollari. C’é chi profetizza che fra meno di 50 anni non vi sarà alcun campione “bianco”.

Quando nel 1936 il nero dell’Alabama Jesse Owens (foto in alto) vinse quattro medaglie d’oro nell’Olimpiade di Berlino che doveva segnare il trionfo della “razza ariana”, un giornale tedesco si chiese: “Ma cos’hanno in più di noi questi negri?”. Alla domanda (se e che cosa i neri hanno in più dei bianchi) solo da pochi anni si é tentato di dare una risposta credibile, scientifica. Innanzitutto é stato detto che motivi sociali finora avevano tenuto - e in certi casi tengono ancora - gli atleti di colore lontani da certe discipline. Il golf o il nuoto per esempio non avevano mai espresso campioni neri anche per il fatto che in certi paesi era loro proibito l’ingresso in club e piscine. Arthur Ashe, un grande del tennis, “nero”, rivelò che quando aveva 10 anni un famoso Tennis Club di Richmond, Virginia, gli rifiutò l’ingresso. Ancora oggi 4.500 Club di golf statunitensi su 6.000 non hanno soci di colore. Un fatto anche di condizione economica: nero é anche stato spesso - ed é ancora dovunque - sinonimo di povertà, quindi impossibilità di avvicinarsi a discipline costose come lo sci o  l’automobilismo (qui, al massimo, solo meccanici fino a non molto tempo fa).

Ma sono stati anche sentimenti razzisti a ritardare l’avvento dei neri nello sport. Ai primi del 1900 negli Usa esisteva un “campionato mondiale per pugili neri”, distinto da quello dei bianchi. Alle Olimpiadi del 1904 erano in programma le “giornate antropologiche” in cui venivano esibiti a mo’ di sensazione atleti neri. Ancora nel 1936 gli atleti di colore venivano definiti “ausiliari”. Ha sempre fatto scalpore la “prima volta” di un nero. Come quando nella nazionale brasiliana di calcio nel 1922 trovò posto Tatù del Corinthians. Come quando Althea Gibson nel 1957 vinse il torneo femminile di tennis di Wimbledon o quando nelle Olimpiadi del 1928 l’algerino Boughera El Quafi vinse la maratona. Come quando nel 1978 la nazionale di calcio inglese esibì il primo giocatore di colore (Viv Anderson) o quando nel 1988 anche il rugby inglese fra molte diffidenze portò in Nazionale il nero Chris Oti. Altre novità sorprendenti: nel 1988 ai Giochi di Seul vi fu la prima medaglia d’oro olimpica nera nel nuoto, quella di Anthony Nesty (Suriname) nei 100 farfalla; nel 1984 alle Olimpiadi Invernali di Sarajevo debuttò il primo sciatore di colore, Guy Lamine del Senegal. Ha fatto scalpore, nell’aprile 1997, la vittoria a New York di Tiger Woods (21 anni, afroamericano da parte di padre) nel Master di golf.
Questo continuo emergere di atleti neri in ogni disciplina portò alcuni ricercatori ad affrontare seriamente la domanda iniziale: se e che cosa i neri hanno in più dei bianchi. Non sono ancora state date risposte precise e uniformi ma qualcosa é emerso. Roger Bannister, bianco, grande mezzofondista inglese divenuto poi biologo, affermò che “lo strapotere dei neri nelle gare di corsa, nel basket e in altri sport deriva da differenze biologiche”. Quali? I neri americani e dell’Africa occidentale hanno meno grasso sottocutaneo, fianchi più stretti, cosce più grosse, maggiore densità ossea, ossa delle caviglie più lunghe, soprattutto una maggiore percentuale di fibre “pallide” o veloci che predispongono alla forza esplosiva: queste particolarità permettono loro di eccellere nella velocità, nei balzi, negli scatti. Gli atleti dell’Africa nord-orientale (kenioti, etiopi, magrebini) hanno grande leggerezza scheletrica, maggior capacità di sfruttare l’ossigeno negli sforzi, più fibre muscolari “nere” o lente che li rendono adatti alle prove di resistenza.