mercoledì 23 aprile 2014

AMARCORD - Lo schiaffo


Ci sono cose che ti restano dentro per la vita, che ti traumatizzano. Mio padre fu condizionato da un trauma subìto da giovane. Era un uomo semplice, di campagna, umile, generoso, profondamente legato a sentimenti di giustizia, abituato ad andare in giro prima con i carri attaccati al cavallo e poi come camionista. Un giorno, verso la fine degli anni 20, si trovò a dovere andare alla stazione ferroviaria di Bologna a fare non so cosa. Capostazione era un romagnolo del forlivese, Domenico Lama, padre di Luciano Lama, che – nato nel 1921 -  sarebbe poi diventato comunista, sindacalista e quindi politico di sinistra. Domenico Lama si era iscritto al Partito Popolare Italiano fondato nel 1921 da Don Sturzo. Il partito dopo il 1926 si sarebbe sfaldato in tanti rivoli, uno dei quali aderente al fascismo. Ecco, Domenico Lama era fascista convinto. Mio padre al cospetto di tale personaggio sbagliò qualcosa, non so cosa, non ricordo cosa mi disse. Forse sbagliò il saluto, forse disse qualcosa che non era nelle regole, forse non disse “a noi!”. Fatto sta che Domenico Lama si alzò con fare arrogante e prese a schiaffi mio padre redarguendolo duramente. Ecco il trauma. Da allora e per sempre, quando vedeva in tv un politico, diceva: Magnapàn a tradimant!, mangiapane a tradimento. Oggi si dice la stessa cosa in modi diversi ma la sostanza è quella. Dopo quella invettiva, mio padre magari ricordava quell’episodio con voce tremante di pianto. Un pianto di rabbia, per quella assurda ingiustizia patita. Ricorderò per sempre il suo viso stravolto nel raccontare quel fatto.

sabato 5 aprile 2014

C'ERA UNA VOLTA - Il "rusco"


Oggi l’Italia è invasa dall’immondizia. Non parlo di quella morale, che dilaga in ogni dove del Paese, ma dei rifiuti che – bisogna ammetterlo – caratterizzano vergognosamente soprattutto le strade del meridione. Da Catania a Palermo, da Napoli a Salerno e a Roma, l’inciviltà e l’arretratezza culturale della gente diviene spettacolo orribile e indimenticabile agli occhi dei turisti. Una volta a Giardini Naxos, in provincia di Messina, ho visto una donna che con noncuranza dal marciapiede davanti a casa sua gettava sulla spiaggia sottostante un sacco di immondizia: ha notato che la guardavo e con una mano sulla bocca ha nascosto un sorriso di complicità, era consapevole della sua cialtroneria ma evidentemente questa era la sua abitudine. Poi ci sarebbe stato tempo per andare a protestare perché l’amministrazione locale aveva lasciato la città in quello stato di degrado. Fare una discarica? Fatela dove volete, ma non qui da noi! 

Nelle parti meno devastate dalla spazzatura, siamo invasi da una miriade di cassonetti per la raccolta differenziata: vetro, carta, plastica, umido, ecc. Fuori dalle farmacie ci sono appositi bidoni per medicinali scaduti. Poi succede che per pigrizia uno sbatte tutto dentro a un unico contenitore o che il camion destinato alla raccolta carichi tutto insieme. Le statistiche dicono che solo una piccola parte della nostra popolazione fa la raccolta differenziata. E che una gran parte getta rifiuti tossici vicino a campi coltivati, incurate dei danni non solo agli altri ma anche a se stessi. Pochi hanno capito che i rifiuti possono essere una risorsa: ripeto fino alla noia, siamo diventati un paese di cialtroni arretrati. Voglio dire un’altra verità che altri tacciono per non essere accusati di razzismo: il degrado delle città è dovuto in gran parte all’immigrazione, interna ed esterna, gente disabituata al convivere civile e solidale.

Ovviamente i rifiuti sono frutto della industrializzazione. Una volta, parlo degli anni 50-60, non c’erano in giro troppe scatole, plastica e confezioni. Ogni negozio era specializzato in qualche cosa: drogheria, salumeria, latteria e vendeva i prodotti al minuto. Il latte (freschissimo e saporito) lo andavi a prendere in una latteria dove con un mestolo si raccoglieva la quantità richiesta da una catinella che veniva poi sversata in un contenitore portato da casa. Il vino lo compravi sfuso e lo mettevi sempre nella stessa bottiglia. Difficile che alla fine della giornata il “rusco” (così si chiamava in Emilia la spazzatura) riempisse un sacchetto di carta. Ogni due giorni passava il “ruscarolo”: aveva un carretto trascinato da un cavallo e avvisava la gente del suo arrivo dando fiato a una trombetta. Qualcuno dice che la parola rusco è l’acronimo di Rifiuti Urbani Solidi Comunali: l’ha visto scritto sui primi bidoni della spazzatura usati dal Comune di Bologna. Ma non credo sia così: io “rusco” l’ho sentito dire fin dai primi anni 40 del 900.

martedì 18 marzo 2014

C'ERA UNA VOLTA - Lo scaldaletto


Una volta non c‘era il riscaldamento a gas: c’era la stufa a legna, una meraviglia dell’ingegno dell’uomo: quattro fornelli, due cassetti destinati alla legna da ardere e alla raccolta della cenere che poi serviva a conservare i salumi. E non c’era niente di meglio delle stufa per abbrustolirci sopra le fette di polenta da mangiare con ogni tipo di condimento, fosse ragù o marmellata o altro. 
La stufa bastava a riscaldare una abitazione non troppo grande, che veniva invasa da una tepore pulito e profumato. Certo, d’inverno riscaldare una stanza da letto “gelata” non era facile. Ma anche qui qualcuno si inventò qualcosa di geniale: lo “scaldaletto”. Era formato da due coppie di assicelle ricurve unite alle estremità e poste sopra e sotto una specie di gabbia quadrata ricoperta da lamiera destinata ad ospitare un contenitore con la brace prelevata dalla stufa. Questo attrezzo veniva sistemato sotto le coperte per togliere umidità alle lenzuola e al materasso. Il risultato, una mezz’oretta dopo, era un tepore piacevolissimo che consentiva di addormentarti. Maliziosamente lo scaldaletto veniva chiamato “prete”, e “suora” il contenitore della brace: si diceva che preti e suore per scaldarsi nelle lunghe notti d’inverno giacessero assieme a letto, secondo una convinzione abbastanza diffusa. 
Ho passato la mia infanzia con lo scaldaletto, nella casa di campagna dei miei nonni. E il ricordo che ne ho è indelebile. Perché secondo me lo scaldaletto era qualcosa di miracoloso: mai un raffreddore o altro di simile.

domenica 9 marzo 2014

LE STORIE - IL MIRACOLO DEL FARNETO



Il "Farneto" è una località a 3,5 km dal centro di San Lazzaro di Savena. Il toponimo deriva dal nome di una varietà di quercia, la "Quercia Farnia" o "Quercus Robur", un albero maestoso (fino a 50 mt di altezza) e longevo (fino a 600 anni e oltre), tipico dei terreni profondi, fertili e umidi; nell'antichità era anche detto "Albero di Giove" o "albero felice": la mitologia narra che quando gli uomini ancora si cibavano con carne umana, Giove indicò loro le ghiande della Farnia come forma di cibo. Il legno pregiato e resistentissimo di questo gigantesco albero veniva usato per le ruote e le traverse dei carri agricoli, per le travi di case, portici e fienili, per le botti, e per costruzioni navali ed edili. Col tempo molti dei querceti sono stati distrutti per far spazio a terreni da pascolo o da coltivazione. La località contraddistita da questi vasti boschi di querce farnie fu chiamata "Farneto". Il Farneto di San Lazzaro di Savena è contraddistinto da grotte suggestive, da "gessi" in cui sono incastonate conchiglie, ma soprattutto da un "miracolo" avvenuto più di 160 anni fa: la zona restò indenne da una terribile epidemia di  colera.

Il colera e la sua diffusione

Lo chiamavano “morbo asiatico” perché arrivava dall’Oriente. Gli studiosi ne avevano individuato l’origine nel “Drago cholericus”, antenato del vibrione: era raffigurato come una specie di insetto con un inquietante pungiglione. Prosperava – dicevano – in ambienti di scarsa o nulla igienicità, là dove c’erano fogne a cielo aperto e cibi contaminati. Chi veniva aggredito dal “Drago”, nel giro di un paio di giorni accusava vomito e diarrea, dolori addominali e sete, poi diventava cianotico e moriva. La gente che non sapeva di scienza attribuiva l’origine della malattia a cause fantastiche: alcuni pensavano ai governanti che, avvelenando scientemente il popolino, ne volevano stroncare gli ansiti di libertà e le lamentele per le misere condizioni di vita; altri invece dicevano che era la punizione divina per la degenerazione dei costumi. Che fosse una maledizione di Dio per l’umanità intera ci se ne convinse quando si seppe che il morbo non restava circoscritto al luogo d’origine ma si propagava a macchia d’olio fino a contagiare tutte le terre e tutte le genti.
La prima pandemia di colera dell’era moderna si sviluppò fra il 1817 e il 1823, la seconda fra il 1839 e il 1851, la terza fra il 1852 e il 1859. Al giorno d’oggi siamo arrivati alla settima pandemia, diffusasi dall’Indonesia attorno al 1970. Ma intanto già nel 1882 Koch aveva scoperto il batterio “Vibrio Cholerae” e gli esiti del morbo erano stati resi meno devastanti da farmaci appropriati.

La terza epidemia fu la più distruttiva. Era partita nel 1852 dall’India, attraverso l’attività di commercio si era espansa in medio Oriente e di qui nel 1854 era dilagata in Europa: prima in Inghilterra e Francia e poi, da qui, nei porti italiani: Genova, Livorno, Palermo, Napoli, Venezia.

In Italia il morbo asiatico arrivò nel luglio del 1854, prima nelle città costiere, quindi si infiltrò dovunque. Parve esaurirsi nei mesi invernali ma poi il suo dilagare assunse ancora maggior vigore nella primavera del 1855. Bologna fu una delle province più colpite: ci furono più morti solo a Messina, Palermo, Sassari e Napoli; ne contarono di meno Genova, Torino e Milano.


L’epidemia del 1855 a Bologna

L’epidemia di colera a Bologna e dintorni – una delle venti province dello Stato Pontificio - ebbe proporzioni catastrofiche perché il pericolo venne sottovalutato. La circolare n.528 dell’8 agosto 1854 inviata dalla Commissione Provinciale di Sanità di Bologna alle Deputazioni Sanitarie Comunali della Provincia annunciava che era “apparso in vari luoghi d’Italia il cholera” e si suggerivano le disposizioni per prevenire il diffondersi dell’epidemia. Ma l’avvertimento era andato disatteso. Tanto che ai primi di maggio del 1855 l’ufficio sanitario incredibilmente inviò ai vari Comuni una nota in cui si diceva che si aveva sentore dell’arrivo di un’epidemia e che dunque sarebbe stato bene predisporre una vaccinazione contro il vaiolo (!) da effettuarsi nelle parrocchie.
Che il flagello in arrivo non fosse il vaiolo ma il più temibile colera se ne erano già accorti due settimane prima a Molinella: il 15 aprile una contadina era caduta preda del “Drago cholericus”. Il cui micidiale progredire fu chiaramente indicato dalle cifre del “Bullettino Sanitario della Legazione di Bologna” in data 15 agosto 1855: l’11 maggio si ebbe il primo caso a Baricella, il 29 a Bologna, il 30 a Budrio. In quella data la Società Medico-Chirurgica di Bologna inviava ai Cardinali Legati dei Comuni del bolognese e ai Priori delle varie frazioni una circolare firmata dal Commissario per lo Studio delle Epidemie da distribuire fra tutti i medici dello Stato Pontificio: avvertiva che il colera, e non il vaiolo, stava diffondendosi ovunque. Avvertenza tardiva. Al 31 agosto a Bologna-città i casi denunciati erano già 4.579 con 3.185 morti. Alla stessa data Persiceto contava 408 casi e 252 decessi, Crevalcore 323 casi (182 morti), Medicina 422 (297), Budrio 336 (239). Un’autentica catastrofe. L’ondata del morbo arrivava dalla Serenissima Repubblica di Venezia dove, per non aggravare la situazione della città, si era pensato bene di trasferire nel bolognese, col beneplacito del Ducato Estense e dello Stato Pontificio, le truppe contagiate. I malati erano stati trasferiti su imbarcazioni che avevano percorso i canali della laguna e del ferrarese per approdare a Malalbergo e nei porti fluviali della zona.

Il contagio fu fulmineo. La gente fuggiva dai luoghi contaminati ma così non faceva che esportare il morbo. Enrico Bottrigari, cronista bolognese dell’epoca, annotò: “Nel vicino contado anche il più piccolo abituro é cercato dai fuggenti...Moltissimi sono partiti per recarsi in lontane regioni....”. Fu così che non vennero risparmiati nemmeno i più sperduti paesi di montagna: Monghidoro al 31 agosto contava 340 casi e 189 morti, Vergato 405 (257), Poretta 331 (151), Lojano 314 (106).


Il contagio arriva a San Lazzaro

Il 15 luglio 1855 il Priore di San Lazzaro in fretta e furia dettò allo scrivano una lettera destinata ai parroci delle varie frazioni e che iniziava così: “Il fatto d’oggi stesso che un girovago, il quale ha passato la notte scorsa sotto il portico presso il Lazzaretto, é stato colto dalla malattia dominante, deve convincere che é necessario di consigliare alle genti di campagna di non alloggiare questi miserabili....”. Cinque giorni prima la Commissione Centrale di Pubblica Beneficenza aveva emesso una circolare destinata alle varie Magistrature Municipali avvertendo che “oggi che tutti i ricoveri della provincia sono infetti dal cholera non sarebbe né prudente né coscienzioso di accogliervi verun nuovo individuo, mancando i mezzi e i locali per tenere opportune separazioni le quali poco potrebbero giovare...”.

Si era all’isteria, alla disorganizzazione più totale: non si dovevano accogliere fuggiaschi, non si dovevano ricoverare i malati; chi poteva si curasse a casa propria. E anche qui una sequela di raccomandazioni. Il 28 luglio una circolare della Commissione Provinciale della Sanità raccomandava a tutti “di non dare cieca fiducia né ai mezzi né ai suggerimenti di una folla di ciarlatani, né di fidare intorno a ricette e metodi volgari senza indicazioni e regole”. Ricette come quella delle “gocce di salute”, vendute a caro prezzo e contenenti “spirito di lavanda, olio di menta piperita e tintura d’oppio”: c’era chi garantiva la loro efficacia. Il 10 luglio il Priore Presidente della Commissone Sanitaria Comunale, Matteo Pondrelli, aveva inviato al Comune di San Lazzaro e all’Appodiato di Pizzocalvo disposizioni dettagliate sul modo di affrontare la terribile epidemia.

Si diceva che in ogni Parrocchia doveva essere nominato un deputato sanitario e che “presto ai medesimi, nonché ai molto reverendi Parrochi, sarà spedita una dose sufficiente di cloruro di calce e di calcina viva per disinfettare”. Ogni caso di colera avrebbe dovuto essere riferito da uno della famiglia al deputato sanitario e al parrocco “che disinfettando tosto la persona la quale porta l’avviso, consegnerà a questa del cloruro di calce ....per lavare le mani a quelli che presta i propri uffici al malato, servendosi poi anche per lavarsi d'aceto o di vino in mancanza dell'aceto”. “Accaduta la morte del colpito di cholera - continuava la lettera -  il Sacerdote  che l’assiste deve, sia in questi momenti che dopo, usare ogni precauzione su fumigi e lavature, tenendo in oltre (...) canfora, cloruro e anche aglio”. Compito del Curato e del Deputato Sanitario di ogni Parrocchia sarebbe stato anche quello di procurarsi un becchino e due portantini. La raccomandazione era accompagnata da precise istruzioni: “Il becchino avvolgendo nel lenzuolo dove é morto il colleroso, lo metterà nella bara e sarà trasportato immediatamente nel cimitero della Parrocchia (senza introdurlo neppure per breve tempo nella Chiesa) e sepolto alla profondità di piedi sei; sopra il Cadavere si sovrapporrà uno strato di calce”. Appena registrava un caso, il curato doveva fare scavare la fossa. Se la bara veniva depositata brevemente nella cappellina del cimitero, questa doveva essere inondata di un “profumo” ricavato dal cloruro di calce “sul quale si verserà dell’accido solforico”, lo stesso profumo doveva essere messo nella camera dove era il malato. Oltre al becchino e ai portantini occorreva trovare due donne “che si adopreranno per lavature di biancherie, coperte, materazzi, lana, pagliacci, bruciatura delle foglie”. Era puntigliosamente stabilito anche il compenso per gli aiutanti del Curato e del Deputato Sanitario: il becchino per ogni cadavere riceveva “baiocchi cinquanta”, ciascuno dei due portantini e delle due donne 30 baiocchi.


Al Farneto un solo caso: Sante Landi

Il Comune di San Lazzaro all’epoca era frazionto in otto parrocchie: Castel de’ Britti, Croara, Caselle, Pizzocalvo, Russo, Farneto, Colunga e San Cristoforo di Castel de’ Britti. Fra il 15 luglio e il 4 agosto tutte le frazioni – con l’eccezione di Colunga e San Cristoforo che avrebbero conosciuto il colera solo a inizio ottobre – furono interessate all’epidemia. E allora si dovette constatare una strana anomalia: il parroco del Farneto, don Francesco Galloni, per quanto stesse in allerta, a differenza dei suoi colleghi non registrava casi di colera. La Parrocchia del Farneto, stando all’ultimo censimento del 1853, contava 182 residenti, 96 uomini e 86 donne, nonché un numero imprecisato di “immigrati”. Ai 182 residenti del 1853, durante l’epidemia si era aggiunta gente arrivata da lontano e sistematasi nelle povere case celate fra i boschi di querce e nobili rifugiatisi con amici, parenti e inservienti nelle loro ville di campagna immerse in grandi parchi alberati.

Mentre tutt’intorno infuriava il morbo, a Castel de’ Britti come alla Croara, a Pizzocalvo come a Caselle e Russo, al Farneto si continuava la vita di sempre. La Chiesa di San Lorenzo del Farneto era il luogo di raduno per raccogliere informazioni, ascoltare le raccomandzioni di Don Francesco, le disposizioni del Deputato Sanitario e soprattutto pregare, pregare di essere risparmiati dalla mortale malattia. C’era particolare devozione per la Beata Vergine della Cintura, raffigurata assieme agli Evangelisti Marco e Giovanni in un quadro di duecento anni prima, e a lei ci si rivolgeva con angoscia e speranza.

Quando il 4 agosto i famigliari di Sante Landi, un “servente” nei campi, corsero dal parroco a denunciare che il loro congiunto accusava i sintomi del colera, la gente del posto si sentì abbandonata anche da Dio. Ma nel giro di pochi giorni Sante migliorò e si ristabilì completamente. Si diffuse la voce che la Madonna della Cintura aveva voluto ascoltare le invocazioni della povera gente del Farneto. E intanto a pochi chilometri di distanza in molti continuavano a morire.

Per scongiurare il diffondersi ulteriore del contagio, ad un certo punto non bastavano più le raccomandazioni di inizio luglio. L’11 agosto il Priore di San Lazzaro mandò una lettera a “tutti i Parrochi della Comune” supplicandoli di dare pubblicità “dall’altare” ad altre disposizioni d’emergenza, per esempio, “nella circostanza di somministrare il Ss.Viatico ai malati o di trasporare i morti non s’abbiano a suonare le campane”, perché “la cosa agita non poco la popolazione e porta l’inconveniente di accumulare gente dentro la casa del malato di cholera”. Il 23 agosto, visto che queste raccomandazioni andavano in parte disattese, soprattutto dai parroci di Colunga e San Cristoforo, il Priore scrisse una lettera al Vescovo di Bologna implorandolo di ricordare ai parroci “il divieto di trasportare i morti con accompagnamento” perché ciò “avrebbe richiamato dietro al morto una frotta di gente, parte ignorante, parte curiosa, la quale si sarebbe poi introdotta financo al cimitero per vedere seppellire il morto, la quale conseguenza dell’accompagnamento si sarebbe scontrata con le leggi ed i regolamenti”.


Il miracolo della Madonna della Cintura

Passarono i giorni e mentre nelle varie parrocchie di San Lazzaro si registrava un sempre maggior numero di casi e di decessi, il Farneto continuava a rimanere un’isola felice. I fedeli del luogo e coloro che lì si erano trasferiti dalle frazioni vicine si raccoglievano sempre più insistentemente attorno a don Francesco chiedendogli di organizzare turni di preghiere, penitenze e processioni affinché la Madonna della Cintura della chiesa di San Lorenzo continuasse a proteggerli. Passò l’estate e Sante Landi rimase al Farneto l’unico caso di colera, per di più dichiarato guarito ai primi di settembre. Qualche “laico” spiegò quel “miracolo” col vento continuo e purificatore che spira verso il Farneto da quell’imbuto formato dai monti fra cui scorre lo Zena. Può essere. Per tutti però, allora, il merito esclusivo era della Madonna.

Con l’arrivo dell’autunno sembrò che la furia del morbo stesse per placarsi. La Commissione Provinciale di Sanità in una circolare del 26 settembre raccomandava ancora vigilanza e cautela ma segnalava come “il Cholera per Divina Grazia mostri di volgere al suo termine...” L’1 ottobre però Colunga e San Cristoforo registrarono nuovi casi: erano le parrocchie che non avevano voluto seguire alla lettera le precauzioni raccomandate a inizio luglio. L’ultimo Bollettino Sanitario del Comune di San Lazzaro fu redatto il 21 novembre. Adesso davvero nel bolognese l’epidemia pareva terminata. Il 25 novembre 1855 la fine del colera fu festeggiata in San Petronio con un solenne Te Deum. E il 14 dicembre il Priore di San Lazzaro poteva mandare alla Commissione Provinciale di Sanità questo documento: “Col giorno 28 scorsomese cessò nel Comune il morbo Cholera, per cui vi invito a sospendere l’invio dei bollettini sanitari. Speriamo che Iddio vorrà per lungo tempo tenerci liberi dal terribile flagello”. Il consuntivo del Comune di San Lazzaro inviato alla Commissione Provinciale di Sanità il 7 dicembre 1855 fu il seguente:



Parrocchie
Sviluppo
Casi
Morti
Guariti
Castel de’Britti
15 luglio
22
16
6
Croara
17 luglio
17
7
10
Caselle
18 luglio
11
5
6
Pizzocalvo
4 agosto
47
27
20
Russo
4 agosto
5
1
4
Farneto
4 agosto
1
-
1
Colunga
1 ottobre
11
3
8
S.Cristoforo
5 ottobre
3
-
3
TOTALE
117
59
58





Da rito a festa e sagra paesana

Furono in tanti a stupirsi dell’eccezionalità del dato del Farneto, soprattutto se paragonato a quelli delle parrocchie più vicine. In tutti si radicò la convinzione che davvero la Beata Vergine della Cintura avesse voluto preservare dal contagio i residenti di quella piccola zona. Fu così che il parroco don Francesco Galloni decise che ogni anno, la prima o la seconda domenica di settembre avrebbe dovuto essere consacrata alla Madonna della Chiesa di San Lorenzo con una solenne cerimonia di ringraziamento.

Da allora, per 150 anni il rito si é ripetuto con puntualità, persino negli anni di guerra, variando nel tempo i propri contenuti. Fino ai primi del ‘900 la cerimonia era consistita nella recita del rosario e nella processione dalla Chiesa del Farneto fino al Molino Vecchio. Più tardi assunse il carattere di vera e propria festa: la processione allargò il proprio percorso scorrendo lungo i viottoli del contado e ad essa si aggiunse il ritrovo dei residenti che nei prati antistanti la chiesa gustavano ciò che avevano portato da casa, vino, pollame, frutta, verdure. Così fu per lunghi anni.


Da allora, essendo aumentato in continuazione il numero dei parrocchiani, la festa si é trasformata in sagra paesana richiamando anche persone delle vicine frazioni, grazie anche al dilatarsi del programma dei festeggiamenti: non più solo processione, Messa e rosario ma anche stand gastronomico, mercatino dell’usato, pesca di beneficenza, giochi, gare sportive, canti e balli, recite, visite guidate al Parco dei Gessi.


San Lorenzo del Farneto, il luogo del “miracolo”

La chiesa del Farneto (anzi del “Farnito”, così veniva chiamata questa zona nel 1048), come nome esiste da poco meno di un migliaio di anni. Naturalmente il tempo ha prima corroso e poi distrutto la struttura originaria, che é stata più volte ristrutturata e riedificata sempre nello stesso luogo: “da Bologna lontano sei miglia percorrendo la strada Emilia, ed alle falde di uno di quei colli che stendendosi verso il mezzogiorno, ed ove il torrente Zena ne lambisce le radici”.

Mille anni fa: un’enormità che rende ancora più suggestivo l’immaginarsi la successiva metamorfosi del territorio e della sua popolazione. Mille anni fa, per dire, il torrente Zena non scorreva nel letto attuale e il Farneto era un immensa foresta di querce farnie interrotta da distese di ulivi. Poche casupole di contadini e pastori, votati ad un’esistenza misera e solitaria che terminava in media intorno ai 30 anni. Oggi il Farneto é una delle frazioni di San Lazzaro che più si é evoluta dal punto di vista dell’urbanizzazione: vi abitano più di duemila persone affatto dedite alla pastorizia o alla coltivazione dei campi, le rarissime querce farnie costituiscono ormai solo curiosità per botanici, “i colli che si stendono verso mezzogiorno” hanno rivelato una vita preistorica quando sono stati disossati per strapparne il gesso e lo Zena si é visto deviare il corso.

Ma la chiesa del Farneto é sempre lì, testimone del tempo e delle sue mutazioni.


mercoledì 12 febbraio 2014

COSE MIE - Il mondo invisibile


E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Rubo a Giacomo Leopardi l’ultimo verso de “L’Infinito” per meglio definire il mio particolare stato d’animo e alcune considerazioni che adesso mi piace esternare. Da un anno non sto bene, sono alla fine dei miei giorni, e lo dico con grande serenità. Tutto questo mi ha indotto ad avvicinarmi a quel mondo invisibile fatto di sensazioni visive e auditive che nella vita trascuriamo perché troppo presi da una frenetica quotidianità. Apprezzo il soffio del vento sul viso, il canto dei merli all'alba, il profumo del biancospino, il tepore di una notte serena; osservo con attenzione lo spuntare delle viole nel mio giardino, guardo il calar del sole come un miracolo. Vedo cose che prima non vedevo. Come il diventare rosse le foglie verdi della mia liquidambra, il crescere dei frutti sul mio fico, la nascita delle olive nere sull’albero che piantai sei anni fa per la mia nipotina. Ascolto cose che prima non ascoltavo. Come il silenzio dei campi e di una notte che si riempie di stelle o l’alba di un nuovo giorno. E il naufragar m’è dolce in questo mare. 
Come Giacomo Leopardi, sfortunato conte marchigiano, di Recanati in provincia di Macerata, morto a 39 anni nel 1837, afflitto fin da piccolo da una tubercolosi ossea alla colonna vertebrale che lo indusse ad aspettare la fine dei suoi giorni affidando se stesso alle sensazioni più pure e sconosciute, mirabilmente poi espresse in un capolavoro di portata mondiale, “L’Infinito”. Le coglieva osservando il mondo oltre una siepe del suo “ermo colle”, il Monte Tabor (foto sotto a destra): da qui assimilava “sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Il mio ermo colle è stato il Monte delle Formiche, un monte di 638 metri a 30 km da San Lazzaro, che sovrasta la Valle dell’Idice e la Val di Zena, colline, boschi, vallate. 
Nei giorni più limpidi lo sguardo può spaziare dall’Adriatico alle prealpi veronesi. Un monte misterioso e affascinante: è detto Monte delle Formiche (foto sotto a sinistra) perché fin da tempi remoti è teatro di un fenomeno inspiegabile e suggestivo: a metà settembre dalla Baviera arrivano milioni di esemplari maschi di formiche alate, qui si accoppiano e poi si lasciano morire sapendo che il loro destino è questo. Sul monte c’è un santuario: al momento opportuno le colonne del santuario e il piazzale e tutto quanto intorno si riempiono di formiche agonizzanti o morte. 
Qui a metà nel 1500, in una grotta, si stabilì l’eremita Barberius vivendo di sensazioni e di visioni fantastiche. Qui sono stato per l’ultima volta nel settembre di due anni fa. Qui, fra “questa immensità”, si è annegato “il pensier mio”. E adesso “il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da anni ho appeso in una parete del mio studio un quadro con la riproduzione de l’Infinito di Leopardi, mi ha sempre toccato il cuore. Adesso lo rileggo ogni giorno. Mi permetto di consigliarlo a tutti, per non rischiare di scoprire troppo tardi quel mondo invisibile e meraviglioso che ci circonda e che pare non vogliamo vedere.



L’INFINITO di Giacomo Leopardi

«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
.»

lunedì 10 febbraio 2014

RIFLESSIONI - I nuovi barbari


“Cosa faresti con la Boldrini (presidente della Camera dei Deputati, n.d.a) in macchina?”. E’ il twitt apparso sul sito di Beppe Grillo a febbraio 2014, volutamente teso a scatenare le più diverse oscenità: è un segno di disagio, mentale e comportamentale, del comico leader del Movimento 5 stelle. Il degrado dei modi e del linguaggio è sinonimo della decadenza della nostra epoca e di un paese, il nostro, che si definisce civile. E’ indice di un generale scadimento dei valori nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni, nella politica. Valori che da sempre sono alla base del vivere civile: rispetto, educazione. Quelli che blaterano e agiscono con volgarità lo fanno chiamando in causa la modernità, la disinibizione, la spontaneità. Sono solo dei limitati dotati di enorme arroganza. Non sanno nemmeno di cosa parlano, perché la volgarità diffusa comparve alla fine degli anni 80, più di 25 anni fa. 
Non parlo solo di politici, ma dell’agire della gente comune, del linguaggio dell’informazione. “Cuore”, supplemento satirico de l’Unità, si divertiva a mettere nei titoli la parola “culo”, in televisione si sentiva per la prima volta dire “cazzo”, persino una bestemmia. Vittorio Sgarbi cominciò a costruire il suo personaggio di intellettuale rissoso quando nel 1989 al Costanzo Show a una insegnante che aveva letto una propria poesia disse con violenza: “Lei è una stronza”. Luciana Litizzetto, che pure ha alle spalle una notevolissima carriera piena di riconoscimenti, ha creduto bene di affidare la propria popolarità alla scurrilità delle sue battute: pare che merda culo cazzo troia siano parole irrinunciabili. Berlusconi definì “culona inchiavabile” la Merkel dopo aver dato all'"abbronzato" ad Obama. Calderoli, leghista una volta intemperante, ancora un anno fa paragonava il ministro Kyenge ad un orango.
Umberto Bossi (che non conosce la storia altrimenti avrebbe saputo che gli italiani hanno invaso mezzo mondo), a parte la volgarità delle parole (“Io col tricolore mi pulisco il culo”), cominciò a usare minacce (“Centomila bergamaschi sono pronti con i fucili alla secessione”) in grado soltanto di intaccare le menti più labili e non di provocare quella rivoluzione illusionaria che andava predicando contro i meridionali e gli immigrati: se vuoi fare una rivoluzione vera devi avere al fianco qualcosa di più solido, mica delle chiacchiere insulse. Adesso sono di moda i “grillini”, che agli ordini di un comico fanno le loro battaglie con arroganza e supponenza. Anche loro vogliono rivoluzionare lo Stato e cavalcano la rabbia della gente usando offese e atti di bullismo non immaginando che alla lunga la gente si stancherà della loro vacuità. La volgarità ha ormai intaccato ogni settore della vita sociale. Vai su un autobus e inorridisci a sentire parlare gli studenti, che si credono “grandi” esibendo il linguaggio osceno. A scuola dilaga il bullismo. Le famiglie se ne disinteressano: tv e videogiochi bastando a educarli, pensano. La politica è diventata strumento per l'affarismo più cinico. Il Vaticano è scosso da casi di pedofilia. Negli stadi le scurrilità la fanno da padrone: “Juve merda” è il più quotato slogan fra i cervelli atrofizzati. “Tutti allo stadio porca puttana” diceva il cartellone di non so quale tifoseria: caspita che battuta! Nelle intenzioni del suo ideatore quella esclamazione doveva servire a dare forza al messaggio e invece lo sviliva. Che tristezza!


martedì 4 febbraio 2014

AMARCORD - Il mito di Buffalo Bill


Buffalo Bill è stato il mito di noi ragazzi nati nella prima metà del ‘900. Era l’eroe del selvaggio West americano: dicevi il suo nome e ti apparivano le lotte con i pellerossa, le carovane di coloni lanciate alla conquista di terre sconosciute, i saloon, la caccia ai bisonti, le corse sfrenate dei cavalli nelle praterie, le sparatorie. Libri e fumetti su questo personaggio ne alimentavano la popolarità. L’editore fiorentino Nerbini ci aveva fatto una fortuna e quando la censura fascista gli aveva imposto lo stop alla produzione di fumetti, lui si era inventato la “vera” identità di questa leggenda: Nerbini assicurava che Buffalo Bill in realtà era un italiano di Forlì, romagnolo come il duce. Gli credettero e potè continuare a pubblicare i suoi fumetti. 
Personaggio immaginario questo Buffalo Bill? Tutt’altro. Era esistito davvero, era morto nel 1917 a 71 anni. Ed era un tipo fantasioso, sempre in cerca di avventure. Nato nello Iowa, si chiamava William Cody, era figlio di un uomo poi ammazzato perché contrario allo schiavismo. A 11 anni sapeva sparare, usare il lazo, cavalcare; a 14 guidava i pony express; avrebbe poi partecipato con i nordisti alla guerra di secessione, ammazzando indiani ma poi divenendone amico fraterno. Più tardi avrebbe lavorato per la Compagnia che costruiva ferrovie: il suo compito era quello di procurare cibo agli operai, la sua specialità quella di ammazzare bisonti. In un anno e mezzo ne uccise 4.286 divenendo per questo “Buffalo Bill”. 
Un personaggio così per lungo tempo impersonò ciò che poi sarebbe stato immortalato nei film “western”. E un personaggio così scelse la strada più difficile per portare a conoscenza del suo mondo tutti gli altri paesi: nel 1883, a 37 anni, cominciò a viaggiare col circo di Phineas Barnum portando fra la gente il selvaggio West; una mastodontica compagnia formata da centinaia di cow boys, indiani, villaggi ricostruiti, carri e quant’altro serviva a dare corpo alle fantasie del suo periodo, come le sparatorie nel saloon o gli assalti degli indiani alle diligenze. Si stabilì a nord di Parigi per quattro anni e il mito delle sue rappresentazioni dilagò per l’Europa. Per qualche tempo fu con lui anche il leggendario Toro Seduto (foto sotto), vincitore del generale Custer nella famosa battaglia di Little Big Horn.
In Italia venne due volte, nel 1890 e nel 1906, sostando in complesso in 36 città, dando 119 spettacoli, sempre suscitando enorme interesse e arricchendoli ogni volta con sfide nuove: a Londra si erà già battuto con Dorando Pietri, l’eroe della Maratona di Londra, uomo a cavallo contro uomo a piedi; in Italia, corse a cavallo (cambiandone 10) per 100 km contro un ciclista, Romolo Bruni. L’andarono a vedere anche Giacomo Puccini ed Emilio Salgari. Amava l’Italia perché sua moglie, Luisa Frederici, aveva radici italiane. Anche Bologna ebbe l’onore di vedere Buffalo Bill. La prima volta, nel 1890, arrivò con un treno speciale composto da 18 carrozze contenente 500 persone, capanne, diligenze smontate, bisonti, cavalli, indiani. 
Si stabilirono all’Ippodromo Zappoli, sfilarono per le vie della città per invogliare la gente ad andare a vedere lo spettacolo nonostante l’alto prezzo d’ingresso: 5 lire. L’incasso del primo giorno fu di ben 118.000 lire. Fu lì che i bolognesi cominciarono a conoscere il popcorn e lo zucchero filato, importato dagli Stati Uniti. La seconda volta fu nel 1906, e l’apparato era ancora più imponente: 4 treni speciali. Misero le tende ai Prati di Caprara, di fronte all’odierno Ospedale Maggiore, dove da piccolo andavo a giocare a pallone con i miei amici. Il fatto di aver calpestato la stessa terra su cui aveva cavalcato e “combattuto” Buffalo Bill – come mi avrebbe poi raccontato mio padre – mi sarebbe sempre rimasto dentro.