mercoledì 12 febbraio 2014

COSE MIE - Il mondo invisibile


E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Rubo a Giacomo Leopardi l’ultimo verso de “L’Infinito” per meglio definire il mio particolare stato d’animo e alcune considerazioni che adesso mi piace esternare. Da un anno non sto bene, sono alla fine dei miei giorni, e lo dico con grande serenità. Tutto questo mi ha indotto ad avvicinarmi a quel mondo invisibile fatto di sensazioni visive e auditive che nella vita trascuriamo perché troppo presi da una frenetica quotidianità. Apprezzo il soffio del vento sul viso, il canto dei merli all'alba, il profumo del biancospino, il tepore di una notte serena; osservo con attenzione lo spuntare delle viole nel mio giardino, guardo il calar del sole come un miracolo. Vedo cose che prima non vedevo. Come il diventare rosse le foglie verdi della mia liquidambra, il crescere dei frutti sul mio fico, la nascita delle olive nere sull’albero che piantai sei anni fa per la mia nipotina. Ascolto cose che prima non ascoltavo. Come il silenzio dei campi e di una notte che si riempie di stelle o l’alba di un nuovo giorno. E il naufragar m’è dolce in questo mare. 
Come Giacomo Leopardi, sfortunato conte marchigiano, di Recanati in provincia di Macerata, morto a 39 anni nel 1837, afflitto fin da piccolo da una tubercolosi ossea alla colonna vertebrale che lo indusse ad aspettare la fine dei suoi giorni affidando se stesso alle sensazioni più pure e sconosciute, mirabilmente poi espresse in un capolavoro di portata mondiale, “L’Infinito”. Le coglieva osservando il mondo oltre una siepe del suo “ermo colle”, il Monte Tabor (foto sotto a destra): da qui assimilava “sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Il mio ermo colle è stato il Monte delle Formiche, un monte di 638 metri a 30 km da San Lazzaro, che sovrasta la Valle dell’Idice e la Val di Zena, colline, boschi, vallate. 
Nei giorni più limpidi lo sguardo può spaziare dall’Adriatico alle prealpi veronesi. Un monte misterioso e affascinante: è detto Monte delle Formiche (foto sotto a sinistra) perché fin da tempi remoti è teatro di un fenomeno inspiegabile e suggestivo: a metà settembre dalla Baviera arrivano milioni di esemplari maschi di formiche alate, qui si accoppiano e poi si lasciano morire sapendo che il loro destino è questo. Sul monte c’è un santuario: al momento opportuno le colonne del santuario e il piazzale e tutto quanto intorno si riempiono di formiche agonizzanti o morte. 
Qui a metà nel 1500, in una grotta, si stabilì l’eremita Barberius vivendo di sensazioni e di visioni fantastiche. Qui sono stato per l’ultima volta nel settembre di due anni fa. Qui, fra “questa immensità”, si è annegato “il pensier mio”. E adesso “il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da anni ho appeso in una parete del mio studio un quadro con la riproduzione de l’Infinito di Leopardi, mi ha sempre toccato il cuore. Adesso lo rileggo ogni giorno. Mi permetto di consigliarlo a tutti, per non rischiare di scoprire troppo tardi quel mondo invisibile e meraviglioso che ci circonda e che pare non vogliamo vedere.



L’INFINITO di Giacomo Leopardi

«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
.»

lunedì 10 febbraio 2014

RIFLESSIONI - I nuovi barbari


“Cosa faresti con la Boldrini (presidente della Camera dei Deputati, n.d.a) in macchina?”. E’ il twitt apparso sul sito di Beppe Grillo a febbraio 2014, volutamente teso a scatenare le più diverse oscenità: è un segno di disagio, mentale e comportamentale, del comico leader del Movimento 5 stelle. Il degrado dei modi e del linguaggio è sinonimo della decadenza della nostra epoca e di un paese, il nostro, che si definisce civile. E’ indice di un generale scadimento dei valori nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni, nella politica. Valori che da sempre sono alla base del vivere civile: rispetto, educazione. Quelli che blaterano e agiscono con volgarità lo fanno chiamando in causa la modernità, la disinibizione, la spontaneità. Sono solo dei limitati dotati di enorme arroganza. Non sanno nemmeno di cosa parlano, perché la volgarità diffusa comparve alla fine degli anni 80, più di 25 anni fa. 
Non parlo solo di politici, ma dell’agire della gente comune, del linguaggio dell’informazione. “Cuore”, supplemento satirico de l’Unità, si divertiva a mettere nei titoli la parola “culo”, in televisione si sentiva per la prima volta dire “cazzo”, persino una bestemmia. Vittorio Sgarbi cominciò a costruire il suo personaggio di intellettuale rissoso quando nel 1989 al Costanzo Show a una insegnante che aveva letto una propria poesia disse con violenza: “Lei è una stronza”. Luciana Litizzetto, che pure ha alle spalle una notevolissima carriera piena di riconoscimenti, ha creduto bene di affidare la propria popolarità alla scurrilità delle sue battute: pare che merda culo cazzo troia siano parole irrinunciabili. Berlusconi definì “culona inchiavabile” la Merkel dopo aver dato all'"abbronzato" ad Obama. Calderoli, leghista una volta intemperante, ancora un anno fa paragonava il ministro Kyenge ad un orango.
Umberto Bossi (che non conosce la storia altrimenti avrebbe saputo che gli italiani hanno invaso mezzo mondo), a parte la volgarità delle parole (“Io col tricolore mi pulisco il culo”), cominciò a usare minacce (“Centomila bergamaschi sono pronti con i fucili alla secessione”) in grado soltanto di intaccare le menti più labili e non di provocare quella rivoluzione illusionaria che andava predicando contro i meridionali e gli immigrati: se vuoi fare una rivoluzione vera devi avere al fianco qualcosa di più solido, mica delle chiacchiere insulse. Adesso sono di moda i “grillini”, che agli ordini di un comico fanno le loro battaglie con arroganza e supponenza. Anche loro vogliono rivoluzionare lo Stato e cavalcano la rabbia della gente usando offese e atti di bullismo non immaginando che alla lunga la gente si stancherà della loro vacuità. La volgarità ha ormai intaccato ogni settore della vita sociale. Vai su un autobus e inorridisci a sentire parlare gli studenti, che si credono “grandi” esibendo il linguaggio osceno. A scuola dilaga il bullismo. Le famiglie se ne disinteressano: tv e videogiochi bastando a educarli, pensano. La politica è diventata strumento per l'affarismo più cinico. Il Vaticano è scosso da casi di pedofilia. Negli stadi le scurrilità la fanno da padrone: “Juve merda” è il più quotato slogan fra i cervelli atrofizzati. “Tutti allo stadio porca puttana” diceva il cartellone di non so quale tifoseria: caspita che battuta! Nelle intenzioni del suo ideatore quella esclamazione doveva servire a dare forza al messaggio e invece lo sviliva. Che tristezza!


martedì 4 febbraio 2014

AMARCORD - Il mito di Buffalo Bill


Buffalo Bill è stato il mito di noi ragazzi nati nella prima metà del ‘900. Era l’eroe del selvaggio West americano: dicevi il suo nome e ti apparivano le lotte con i pellerossa, le carovane di coloni lanciate alla conquista di terre sconosciute, i saloon, la caccia ai bisonti, le corse sfrenate dei cavalli nelle praterie, le sparatorie. Libri e fumetti su questo personaggio ne alimentavano la popolarità. L’editore fiorentino Nerbini ci aveva fatto una fortuna e quando la censura fascista gli aveva imposto lo stop alla produzione di fumetti, lui si era inventato la “vera” identità di questa leggenda: Nerbini assicurava che Buffalo Bill in realtà era un italiano di Forlì, romagnolo come il duce. Gli credettero e potè continuare a pubblicare i suoi fumetti. 
Personaggio immaginario questo Buffalo Bill? Tutt’altro. Era esistito davvero, era morto nel 1917 a 71 anni. Ed era un tipo fantasioso, sempre in cerca di avventure. Nato nello Iowa, si chiamava William Cody, era figlio di un uomo poi ammazzato perché contrario allo schiavismo. A 11 anni sapeva sparare, usare il lazo, cavalcare; a 14 guidava i pony express; avrebbe poi partecipato con i nordisti alla guerra di secessione, ammazzando indiani ma poi divenendone amico fraterno. Più tardi avrebbe lavorato per la Compagnia che costruiva ferrovie: il suo compito era quello di procurare cibo agli operai, la sua specialità quella di ammazzare bisonti. In un anno e mezzo ne uccise 4.286 divenendo per questo “Buffalo Bill”. 
Un personaggio così per lungo tempo impersonò ciò che poi sarebbe stato immortalato nei film “western”. E un personaggio così scelse la strada più difficile per portare a conoscenza del suo mondo tutti gli altri paesi: nel 1883, a 37 anni, cominciò a viaggiare col circo di Phineas Barnum portando fra la gente il selvaggio West; una mastodontica compagnia formata da centinaia di cow boys, indiani, villaggi ricostruiti, carri e quant’altro serviva a dare corpo alle fantasie del suo periodo, come le sparatorie nel saloon o gli assalti degli indiani alle diligenze. Si stabilì a nord di Parigi per quattro anni e il mito delle sue rappresentazioni dilagò per l’Europa. Per qualche tempo fu con lui anche il leggendario Toro Seduto (foto sotto), vincitore del generale Custer nella famosa battaglia di Little Big Horn.
In Italia venne due volte, nel 1890 e nel 1906, sostando in complesso in 36 città, dando 119 spettacoli, sempre suscitando enorme interesse e arricchendoli ogni volta con sfide nuove: a Londra si erà già battuto con Dorando Pietri, l’eroe della Maratona di Londra, uomo a cavallo contro uomo a piedi; in Italia, corse a cavallo (cambiandone 10) per 100 km contro un ciclista, Romolo Bruni. L’andarono a vedere anche Giacomo Puccini ed Emilio Salgari. Amava l’Italia perché sua moglie, Luisa Frederici, aveva radici italiane. Anche Bologna ebbe l’onore di vedere Buffalo Bill. La prima volta, nel 1890, arrivò con un treno speciale composto da 18 carrozze contenente 500 persone, capanne, diligenze smontate, bisonti, cavalli, indiani. 
Si stabilirono all’Ippodromo Zappoli, sfilarono per le vie della città per invogliare la gente ad andare a vedere lo spettacolo nonostante l’alto prezzo d’ingresso: 5 lire. L’incasso del primo giorno fu di ben 118.000 lire. Fu lì che i bolognesi cominciarono a conoscere il popcorn e lo zucchero filato, importato dagli Stati Uniti. La seconda volta fu nel 1906, e l’apparato era ancora più imponente: 4 treni speciali. Misero le tende ai Prati di Caprara, di fronte all’odierno Ospedale Maggiore, dove da piccolo andavo a giocare a pallone con i miei amici. Il fatto di aver calpestato la stessa terra su cui aveva cavalcato e “combattuto” Buffalo Bill – come mi avrebbe poi raccontato mio padre – mi sarebbe sempre rimasto dentro.