Il "Farneto" è una località a 3,5 km dal centro di San Lazzaro di Savena. Il toponimo deriva dal nome di una varietà di quercia, la "Quercia Farnia" o "Quercus Robur", un albero maestoso (fino a 50 mt di altezza) e longevo (fino a 600 anni e oltre), tipico dei terreni profondi, fertili e umidi; nell'antichità era anche detto "Albero di Giove" o "albero felice": la mitologia narra che quando gli uomini ancora si cibavano con carne umana, Giove indicò loro le ghiande della Farnia come forma di cibo. Il legno pregiato e resistentissimo di questo gigantesco albero veniva usato per le ruote e le traverse dei carri agricoli, per le travi di case, portici e fienili, per le botti, e per costruzioni navali ed edili. Col tempo molti dei querceti sono stati distrutti per far spazio a terreni da pascolo o da coltivazione. La località contraddistita da questi vasti boschi di querce farnie fu chiamata "Farneto". Il Farneto di San Lazzaro di Savena è contraddistinto da grotte suggestive, da "gessi" in cui sono incastonate conchiglie, ma soprattutto da un "miracolo" avvenuto più di 160 anni fa: la zona restò indenne da una terribile epidemia di colera.
Il colera e la sua diffusione
Lo chiamavano “morbo asiatico” perché
arrivava dall’Oriente. Gli studiosi ne avevano individuato l’origine nel “Drago
cholericus”, antenato del vibrione: era raffigurato come una specie di insetto
con un inquietante pungiglione. Prosperava – dicevano – in ambienti di scarsa o
nulla igienicità, là dove c’erano fogne a cielo aperto e cibi contaminati. Chi
veniva aggredito dal “Drago”, nel giro di un paio di giorni accusava vomito e
diarrea, dolori addominali e sete, poi diventava cianotico e moriva. La gente
che non sapeva di scienza attribuiva l’origine della malattia a cause fantastiche:
alcuni pensavano ai governanti che, avvelenando scientemente il popolino, ne
volevano stroncare gli ansiti di libertà e le lamentele per le misere
condizioni di vita; altri invece dicevano che era la punizione divina per la
degenerazione dei costumi. Che fosse una maledizione di Dio per l’umanità
intera ci se ne convinse quando si seppe che il morbo non restava circoscritto
al luogo d’origine ma si propagava a macchia d’olio fino a contagiare tutte le
terre e tutte le genti.
La prima pandemia di colera dell’era
moderna si sviluppò fra il 1817 e il 1823, la seconda fra il 1839 e il 1851, la
terza fra il 1852 e il 1859. Al giorno d’oggi siamo arrivati alla settima
pandemia, diffusasi dall’Indonesia attorno al 1970. Ma intanto già nel 1882
Koch aveva scoperto il batterio “Vibrio Cholerae” e gli esiti del morbo erano
stati resi meno devastanti da farmaci appropriati.
La terza epidemia fu la più distruttiva.
Era partita nel 1852 dall’India, attraverso l’attività di commercio si era
espansa in medio Oriente e di qui nel 1854 era dilagata in Europa: prima in
Inghilterra e Francia e poi, da qui, nei porti italiani: Genova, Livorno,
Palermo, Napoli, Venezia.
In Italia il morbo asiatico arrivò nel
luglio del 1854, prima nelle città costiere, quindi si infiltrò dovunque. Parve
esaurirsi nei mesi invernali ma poi il suo dilagare assunse ancora maggior
vigore nella primavera del 1855. Bologna fu una delle province più colpite: ci
furono più morti solo a Messina, Palermo, Sassari e Napoli; ne contarono di
meno Genova, Torino e Milano.
L’epidemia del 1855 a Bologna
L’epidemia di colera a Bologna e dintorni
– una delle venti province dello Stato Pontificio - ebbe proporzioni
catastrofiche perché il pericolo venne sottovalutato. La circolare n.528 dell’8
agosto 1854 inviata dalla Commissione Provinciale di Sanità di Bologna alle
Deputazioni Sanitarie Comunali della Provincia annunciava che era “apparso
in vari luoghi d’Italia il cholera” e si suggerivano le disposizioni per
prevenire il diffondersi dell’epidemia. Ma l’avvertimento era andato disatteso.
Tanto che ai primi di maggio del 1855 l’ufficio sanitario incredibilmente inviò
ai vari Comuni una nota in cui si diceva che si aveva sentore dell’arrivo di
un’epidemia e che dunque sarebbe stato bene predisporre una vaccinazione contro
il vaiolo (!) da effettuarsi nelle parrocchie.
Che il flagello in arrivo non fosse il
vaiolo ma il più temibile colera se ne erano già accorti due settimane prima a
Molinella: il 15 aprile una contadina era caduta preda del “Drago cholericus”.
Il cui micidiale progredire fu chiaramente indicato dalle cifre del “Bullettino
Sanitario della Legazione di Bologna” in data 15 agosto 1855: l’11 maggio si
ebbe il primo caso a Baricella, il 29 a Bologna, il 30 a Budrio. In quella data
la Società Medico-Chirurgica di Bologna inviava ai Cardinali Legati dei Comuni
del bolognese e ai Priori delle varie frazioni una circolare firmata dal
Commissario per lo Studio delle Epidemie da distribuire fra tutti i medici
dello Stato Pontificio: avvertiva che il colera, e non il vaiolo, stava
diffondendosi ovunque. Avvertenza tardiva. Al 31 agosto a Bologna-città i casi
denunciati erano già 4.579 con 3.185 morti. Alla stessa data Persiceto contava
408 casi e 252 decessi, Crevalcore 323 casi (182 morti), Medicina 422 (297),
Budrio 336 (239). Un’autentica catastrofe. L’ondata del morbo arrivava dalla
Serenissima Repubblica di Venezia dove, per non aggravare la situazione della
città, si era pensato bene di trasferire nel bolognese, col beneplacito del
Ducato Estense e dello Stato Pontificio, le truppe contagiate. I malati erano
stati trasferiti su imbarcazioni che avevano percorso i canali della laguna e
del ferrarese per approdare a Malalbergo e nei porti fluviali della zona.
Il contagio fu fulmineo. La gente fuggiva
dai luoghi contaminati ma così non faceva che esportare il morbo. Enrico
Bottrigari, cronista bolognese dell’epoca, annotò: “Nel vicino contado anche
il più piccolo abituro é cercato dai fuggenti...Moltissimi sono partiti per
recarsi in lontane regioni....”. Fu così che non vennero risparmiati
nemmeno i più sperduti paesi di montagna: Monghidoro al 31 agosto contava 340
casi e 189 morti, Vergato 405 (257), Poretta 331 (151), Lojano 314 (106).
Il contagio arriva a San Lazzaro
Il 15 luglio 1855 il Priore di San Lazzaro
in fretta e furia dettò allo scrivano una lettera destinata ai parroci delle
varie frazioni e che iniziava così: “Il fatto d’oggi stesso che un girovago,
il quale ha passato la notte scorsa sotto il portico presso il Lazzaretto, é
stato colto dalla malattia dominante, deve convincere che é necessario di
consigliare alle genti di campagna di non alloggiare questi miserabili....”.
Cinque giorni prima la Commissione Centrale di Pubblica Beneficenza aveva
emesso una circolare destinata alle varie Magistrature Municipali avvertendo
che “oggi che tutti i ricoveri della provincia sono infetti dal cholera non
sarebbe né prudente né coscienzioso di accogliervi verun nuovo individuo,
mancando i mezzi e i locali per tenere opportune separazioni le quali poco
potrebbero giovare...”.
Si era all’isteria, alla
disorganizzazione più totale: non si dovevano accogliere fuggiaschi, non si
dovevano ricoverare i malati; chi poteva si curasse a casa propria. E anche qui
una sequela di raccomandazioni. Il 28 luglio una circolare della Commissione
Provinciale della Sanità raccomandava a tutti “di non dare cieca fiducia né
ai mezzi né ai suggerimenti di una folla di ciarlatani, né di fidare intorno a
ricette e metodi volgari senza indicazioni e regole”. Ricette come quella
delle “gocce di salute”, vendute a caro prezzo e contenenti “spirito di
lavanda, olio di menta piperita e tintura d’oppio”: c’era chi garantiva la
loro efficacia. Il 10 luglio il Priore Presidente della Commissone Sanitaria
Comunale, Matteo Pondrelli, aveva inviato al Comune di San Lazzaro e
all’Appodiato di Pizzocalvo disposizioni dettagliate sul modo di affrontare la
terribile epidemia.
Si diceva che in ogni Parrocchia doveva
essere nominato un deputato sanitario e che “presto ai medesimi, nonché ai
molto reverendi Parrochi, sarà spedita una dose sufficiente di cloruro di calce
e di calcina viva per disinfettare”. Ogni caso di colera avrebbe dovuto
essere riferito da uno della famiglia al deputato sanitario e al parrocco “che
disinfettando tosto la persona la quale porta l’avviso, consegnerà a questa del
cloruro di calce ....per lavare le mani a quelli che presta i propri uffici al
malato, servendosi poi anche per lavarsi d'aceto o di vino in mancanza
dell'aceto”. “Accaduta la morte del colpito di cholera - continuava
la lettera - il Sacerdote che l’assiste deve, sia in questi momenti che
dopo, usare ogni precauzione su fumigi e lavature, tenendo in oltre (...) canfora,
cloruro e anche aglio”. Compito del Curato e del Deputato Sanitario di ogni
Parrocchia sarebbe stato anche quello di procurarsi un becchino e due
portantini. La raccomandazione era accompagnata da precise istruzioni: “Il
becchino avvolgendo nel lenzuolo dove é morto il colleroso, lo metterà nella
bara e sarà trasportato immediatamente nel cimitero della Parrocchia (senza
introdurlo neppure per breve tempo nella Chiesa) e sepolto alla profondità di
piedi sei; sopra il Cadavere si sovrapporrà uno strato di calce”. Appena
registrava un caso, il curato doveva fare scavare la fossa. Se la bara veniva depositata
brevemente nella cappellina del cimitero, questa doveva essere inondata di un
“profumo” ricavato dal cloruro di calce “sul quale si verserà dell’accido
solforico”, lo stesso profumo doveva essere messo nella camera dove era il
malato. Oltre al becchino e ai portantini occorreva trovare due donne “che
si adopreranno per lavature di biancherie, coperte, materazzi, lana, pagliacci,
bruciatura delle foglie”. Era puntigliosamente stabilito anche il compenso
per gli aiutanti del Curato e del Deputato Sanitario: il becchino per ogni
cadavere riceveva “baiocchi cinquanta”, ciascuno dei due portantini e
delle due donne 30 baiocchi.
Al Farneto un solo caso: Sante Landi
Il Comune di San Lazzaro all’epoca era
frazionto in otto parrocchie: Castel de’ Britti, Croara, Caselle, Pizzocalvo,
Russo, Farneto, Colunga e San Cristoforo di Castel de’ Britti. Fra il 15 luglio
e il 4 agosto tutte le frazioni – con l’eccezione di Colunga e San Cristoforo
che avrebbero conosciuto il colera solo a inizio ottobre – furono interessate
all’epidemia. E allora si dovette constatare una strana anomalia: il parroco
del Farneto, don Francesco Galloni, per quanto stesse in allerta, a differenza
dei suoi colleghi non registrava casi di colera. La Parrocchia del Farneto,
stando all’ultimo censimento del 1853, contava 182 residenti, 96 uomini e 86
donne, nonché un numero imprecisato di “immigrati”. Ai 182 residenti del 1853,
durante l’epidemia si era aggiunta gente arrivata da lontano e sistematasi
nelle povere case celate fra i boschi di querce e nobili rifugiatisi con amici,
parenti e inservienti nelle loro ville di campagna immerse in grandi parchi
alberati.
Mentre tutt’intorno infuriava il morbo, a
Castel de’ Britti come alla Croara, a Pizzocalvo come a Caselle e Russo, al
Farneto si continuava la vita di sempre. La Chiesa di San Lorenzo del Farneto
era il luogo di raduno per raccogliere informazioni, ascoltare le
raccomandzioni di Don Francesco, le disposizioni del Deputato Sanitario e
soprattutto pregare, pregare di essere risparmiati dalla mortale malattia.
C’era particolare devozione per la Beata Vergine della Cintura, raffigurata
assieme agli Evangelisti Marco e Giovanni in un quadro di duecento anni prima,
e a lei ci si rivolgeva con angoscia e speranza.
Quando il 4 agosto i famigliari di Sante
Landi, un “servente” nei campi, corsero dal parroco a denunciare che il loro
congiunto accusava i sintomi del colera, la gente del posto si sentì
abbandonata anche da Dio. Ma nel giro di pochi giorni Sante migliorò e si
ristabilì completamente. Si diffuse la voce che la Madonna della Cintura aveva
voluto ascoltare le invocazioni della povera gente del Farneto. E intanto a
pochi chilometri di distanza in molti continuavano a morire.
Per scongiurare il diffondersi ulteriore
del contagio, ad un certo punto non bastavano più le raccomandazioni di inizio
luglio. L’11 agosto il Priore di San Lazzaro mandò una lettera a “tutti i
Parrochi della Comune” supplicandoli di dare pubblicità “dall’altare”
ad altre disposizioni d’emergenza, per esempio, “nella circostanza di
somministrare il Ss.Viatico ai malati o di trasporare i morti non s’abbiano a
suonare le campane”, perché “la cosa agita non poco la popolazione e
porta l’inconveniente di accumulare gente dentro la casa del malato di cholera”.
Il 23 agosto, visto che queste raccomandazioni andavano in parte disattese,
soprattutto dai parroci di Colunga e San Cristoforo, il Priore scrisse una
lettera al Vescovo di Bologna implorandolo di ricordare ai parroci “il
divieto di trasportare i morti con accompagnamento” perché ciò “avrebbe
richiamato dietro al morto una frotta di gente, parte ignorante, parte curiosa,
la quale si sarebbe poi introdotta financo al cimitero per vedere seppellire il
morto, la quale conseguenza dell’accompagnamento si sarebbe scontrata con le
leggi ed i regolamenti”.
Il miracolo della Madonna della Cintura
Passarono i giorni e mentre nelle varie
parrocchie di San Lazzaro si registrava un sempre maggior numero di casi e di
decessi, il Farneto continuava a rimanere un’isola felice. I fedeli del luogo e
coloro che lì si erano trasferiti dalle frazioni vicine si raccoglievano sempre
più insistentemente attorno a don Francesco chiedendogli di organizzare turni
di preghiere, penitenze e processioni affinché la Madonna della Cintura della
chiesa di San Lorenzo continuasse a proteggerli. Passò l’estate e Sante Landi
rimase al Farneto l’unico caso di colera, per di più dichiarato guarito ai
primi di settembre. Qualche “laico” spiegò quel “miracolo” col vento continuo e
purificatore che spira verso il Farneto da quell’imbuto formato dai monti fra
cui scorre lo Zena. Può essere. Per tutti però, allora, il merito esclusivo era
della Madonna.
Con l’arrivo dell’autunno sembrò che la
furia del morbo stesse per placarsi. La Commissione Provinciale di Sanità in
una circolare del 26 settembre raccomandava ancora vigilanza e cautela ma
segnalava come “il Cholera per Divina Grazia mostri di volgere al suo
termine...” L’1 ottobre però Colunga e San Cristoforo registrarono nuovi
casi: erano le parrocchie che non avevano voluto seguire alla lettera le
precauzioni raccomandate a inizio luglio. L’ultimo Bollettino Sanitario del
Comune di San Lazzaro fu redatto il 21 novembre. Adesso davvero nel bolognese
l’epidemia pareva terminata. Il 25 novembre 1855 la fine del colera fu
festeggiata in San Petronio con un solenne Te Deum. E il 14 dicembre il Priore
di San Lazzaro poteva mandare alla Commissione Provinciale di Sanità questo
documento: “Col giorno 28 scorsomese cessò nel Comune il morbo Cholera, per
cui vi invito a sospendere l’invio dei bollettini sanitari. Speriamo che Iddio
vorrà per lungo tempo tenerci liberi dal terribile flagello”. Il consuntivo
del Comune di San Lazzaro inviato alla Commissione Provinciale di Sanità il 7
dicembre 1855 fu il seguente:
Parrocchie
|
Sviluppo
|
Casi
|
Morti
|
Guariti
|
Castel de’Britti
|
15 luglio
|
22
|
16
|
6
|
Croara
|
17 luglio
|
17
|
7
|
10
|
Caselle
|
18 luglio
|
11
|
5
|
6
|
Pizzocalvo
|
4 agosto
|
47
|
27
|
20
|
Russo
|
4 agosto
|
5
|
1
|
4
|
Farneto
|
4 agosto
|
1
|
-
|
1
|
Colunga
|
1 ottobre
|
11
|
3
|
8
|
S.Cristoforo
|
5 ottobre
|
3
|
-
|
3
|
TOTALE
|
117
|
59
|
58
|
|
Da rito a festa e sagra paesana
Furono in tanti a stupirsi
dell’eccezionalità del dato del Farneto, soprattutto se paragonato a quelli
delle parrocchie più vicine. In tutti si radicò la convinzione che davvero la
Beata Vergine della Cintura avesse voluto preservare dal contagio i residenti
di quella piccola zona. Fu così che il parroco don Francesco Galloni decise che
ogni anno, la prima o la seconda domenica di settembre avrebbe dovuto essere
consacrata alla Madonna della Chiesa di San Lorenzo con una solenne cerimonia
di ringraziamento.
Da allora, per 150 anni il rito si é
ripetuto con puntualità, persino negli anni di guerra, variando nel tempo i
propri contenuti. Fino ai primi del ‘900 la cerimonia era consistita nella
recita del rosario e nella processione dalla Chiesa del Farneto fino al Molino
Vecchio. Più tardi assunse il carattere di vera e propria festa: la processione
allargò il proprio percorso scorrendo lungo i viottoli del contado e ad essa si
aggiunse il ritrovo dei residenti che nei prati antistanti la chiesa gustavano
ciò che avevano portato da casa, vino, pollame, frutta, verdure. Così fu per
lunghi anni.
Da allora, essendo aumentato in
continuazione il numero dei parrocchiani, la festa si é trasformata in sagra
paesana richiamando anche persone delle vicine frazioni, grazie anche al
dilatarsi del programma dei festeggiamenti: non più solo processione, Messa e
rosario ma anche stand gastronomico, mercatino dell’usato, pesca di
beneficenza, giochi, gare sportive, canti e balli, recite, visite guidate al
Parco dei Gessi.
San Lorenzo del Farneto, il luogo del
“miracolo”
La chiesa del Farneto (anzi del “Farnito”,
così veniva chiamata questa zona nel 1048), come nome esiste da poco meno di un
migliaio di anni. Naturalmente il tempo ha prima corroso e poi distrutto la
struttura originaria, che é stata più volte ristrutturata e riedificata sempre
nello stesso luogo: “da Bologna lontano sei miglia percorrendo la strada
Emilia, ed alle falde di uno di quei colli che stendendosi verso il
mezzogiorno, ed ove il torrente Zena ne lambisce le radici”.
Mille anni fa: un’enormità che rende
ancora più suggestivo l’immaginarsi la successiva metamorfosi del territorio e
della sua popolazione. Mille anni fa, per dire, il torrente Zena non scorreva
nel letto attuale e il Farneto era un immensa foresta di querce farnie
interrotta da distese di ulivi. Poche casupole di contadini e pastori, votati
ad un’esistenza misera e solitaria che terminava in media intorno ai 30 anni.
Oggi il Farneto é una delle frazioni di San Lazzaro che più si é evoluta dal
punto di vista dell’urbanizzazione: vi abitano più di duemila persone affatto
dedite alla pastorizia o alla coltivazione dei campi, le rarissime querce
farnie costituiscono ormai solo curiosità per botanici, “i colli che si
stendono verso mezzogiorno” hanno rivelato una vita preistorica quando sono
stati disossati per strapparne il gesso e lo Zena si é visto deviare il corso.
Ma la chiesa del Farneto é sempre lì,
testimone del tempo e delle sue mutazioni.