Ci sono cose che ti restano dentro per la vita, che
ti traumatizzano. Mio padre fu condizionato da un trauma subìto da giovane. Era
un uomo semplice, di campagna, umile, generoso, profondamente legato a sentimenti
di giustizia, abituato ad andare in giro prima con i carri attaccati al cavallo
e poi come camionista. Un giorno, verso la fine degli anni 20, si trovò a
dovere andare alla stazione ferroviaria di Bologna a fare non so cosa. Capostazione era un
romagnolo del forlivese, Domenico Lama, padre di Luciano Lama, che – nato nel
1921 - sarebbe poi diventato comunista, sindacalista
e quindi politico di sinistra. Domenico Lama si era iscritto al Partito
Popolare Italiano fondato nel 1921 da Don Sturzo. Il partito dopo il 1926 si
sarebbe sfaldato in tanti rivoli, uno dei quali aderente al fascismo. Ecco,
Domenico Lama era fascista convinto. Mio padre al cospetto di tale personaggio
sbagliò qualcosa, non so cosa, non ricordo cosa mi disse. Forse sbagliò il saluto, forse disse qualcosa che
non era nelle regole, forse non disse “a noi!”. Fatto sta che Domenico Lama si
alzò con fare arrogante e prese a schiaffi mio padre redarguendolo duramente.
Ecco il trauma. Da allora e per sempre, quando vedeva in tv un politico,
diceva: Magnapàn a tradimant!,
mangiapane a tradimento. Oggi si dice la stessa cosa in modi diversi ma la
sostanza è quella. Dopo quella invettiva, mio padre magari ricordava
quell’episodio con voce tremante di pianto. Un pianto di rabbia, per quella
assurda ingiustizia patita. Ricorderò per sempre il suo viso stravolto nel raccontare quel fatto.
CERVELLO IN LIBERTA'
Scritti e pensieri di un giornalista in pensione
mercoledì 23 aprile 2014
sabato 5 aprile 2014
C'ERA UNA VOLTA - Il "rusco"
Oggi l’Italia è invasa dall’immondizia. Non parlo
di quella morale, che dilaga in ogni dove del Paese, ma dei rifiuti che – bisogna
ammetterlo – caratterizzano vergognosamente soprattutto le strade del
meridione. Da Catania a Palermo, da Napoli a Salerno e a Roma, l’inciviltà e
l’arretratezza culturale della gente diviene spettacolo orribile e
indimenticabile agli occhi dei turisti. Una volta a Giardini Naxos, in
provincia di Messina, ho visto una donna che con noncuranza dal marciapiede
davanti a casa sua gettava sulla spiaggia sottostante un sacco di immondizia:
ha notato che la guardavo e con una mano sulla bocca ha nascosto un sorriso di
complicità, era consapevole della sua cialtroneria ma evidentemente questa era
la sua abitudine. Poi ci sarebbe stato tempo per andare a protestare perché
l’amministrazione locale aveva lasciato la città in quello stato di degrado. Fare una discarica? Fatela dove volete, ma non qui da noi!
Nelle parti meno devastate dalla spazzatura, siamo
invasi da una miriade di cassonetti per la raccolta differenziata: vetro,
carta, plastica, umido, ecc. Fuori dalle farmacie ci sono appositi bidoni per
medicinali scaduti. Poi succede che per pigrizia uno sbatte tutto dentro a un
unico contenitore o che il camion destinato alla raccolta carichi tutto insieme. Le statistiche dicono
che solo una piccola parte della nostra popolazione fa la raccolta
differenziata. E che una gran parte getta rifiuti tossici vicino a campi coltivati, incurate dei danni non solo agli altri ma anche a se stessi. Pochi hanno capito che i rifiuti possono essere una risorsa: ripeto fino alla
noia, siamo diventati un paese di cialtroni arretrati. Voglio dire un’altra verità che altri tacciono per non essere
accusati di razzismo: il degrado delle città è dovuto in gran parte
all’immigrazione, interna ed esterna, gente disabituata al convivere civile e
solidale.
Ovviamente i rifiuti sono frutto della
industrializzazione. Una volta, parlo degli anni 50-60, non c’erano in giro
troppe scatole, plastica e confezioni. Ogni negozio era specializzato in
qualche cosa: drogheria, salumeria, latteria e vendeva i prodotti al minuto. Il
latte (freschissimo e saporito) lo andavi a prendere in una latteria dove con
un mestolo si raccoglieva la quantità richiesta da una catinella che veniva poi
sversata in un contenitore portato da casa. Il vino lo compravi sfuso e lo
mettevi sempre nella stessa bottiglia. Difficile che alla fine della giornata
il “rusco” (così si chiamava in Emilia la spazzatura) riempisse un sacchetto di
carta. Ogni due giorni passava il “ruscarolo”: aveva un carretto trascinato da
un cavallo e avvisava la gente del suo arrivo dando fiato a una trombetta.
Qualcuno dice che la parola rusco è l’acronimo di Rifiuti Urbani Solidi
Comunali: l’ha visto scritto sui primi bidoni della spazzatura usati dal Comune
di Bologna. Ma non credo sia così: io “rusco” l’ho sentito dire fin dai primi anni 40 del 900.
martedì 18 marzo 2014
C'ERA UNA VOLTA - Lo scaldaletto
Una volta non c‘era il riscaldamento a gas: c’era
la stufa a legna, una meraviglia dell’ingegno dell’uomo: quattro fornelli, due
cassetti destinati alla legna da ardere e alla raccolta della cenere che poi
serviva a conservare i salumi. E non c’era niente di meglio delle stufa per
abbrustolirci sopra le fette di polenta da mangiare con ogni tipo di
condimento, fosse ragù o marmellata o altro.
La stufa bastava a riscaldare una
abitazione non troppo grande, che veniva invasa da una tepore pulito e profumato.
Certo, d’inverno riscaldare una stanza da letto “gelata” non era facile. Ma
anche qui qualcuno si inventò qualcosa di geniale: lo “scaldaletto”. Era
formato da due coppie di assicelle ricurve unite alle estremità e poste sopra e
sotto una specie di gabbia quadrata ricoperta da lamiera destinata ad ospitare
un contenitore con la brace prelevata dalla stufa. Questo attrezzo veniva
sistemato sotto le coperte per togliere umidità alle lenzuola e al materasso.
Il risultato, una mezz’oretta dopo, era un tepore piacevolissimo che consentiva
di addormentarti. Maliziosamente lo scaldaletto veniva chiamato “prete”, e “suora”
il contenitore della brace: si diceva che preti e suore per scaldarsi nelle
lunghe notti d’inverno giacessero assieme a letto, secondo una convinzione abbastanza diffusa.
domenica 9 marzo 2014
LE STORIE - IL MIRACOLO DEL FARNETO
Il "Farneto" è una località a 3,5 km dal centro di San Lazzaro di Savena. Il toponimo deriva dal nome di una varietà di quercia, la "Quercia Farnia" o "Quercus Robur", un albero maestoso (fino a 50 mt di altezza) e longevo (fino a 600 anni e oltre), tipico dei terreni profondi, fertili e umidi; nell'antichità era anche detto "Albero di Giove" o "albero felice": la mitologia narra che quando gli uomini ancora si cibavano con carne umana, Giove indicò loro le ghiande della Farnia come forma di cibo. Il legno pregiato e resistentissimo di questo gigantesco albero veniva usato per le ruote e le traverse dei carri agricoli, per le travi di case, portici e fienili, per le botti, e per costruzioni navali ed edili. Col tempo molti dei querceti sono stati distrutti per far spazio a terreni da pascolo o da coltivazione. La località contraddistita da questi vasti boschi di querce farnie fu chiamata "Farneto". Il Farneto di San Lazzaro di Savena è contraddistinto da grotte suggestive, da "gessi" in cui sono incastonate conchiglie, ma soprattutto da un "miracolo" avvenuto più di 160 anni fa: la zona restò indenne da una terribile epidemia di colera.
Il colera e la sua diffusione
Il colera e la sua diffusione
Lo chiamavano “morbo asiatico” perché
arrivava dall’Oriente. Gli studiosi ne avevano individuato l’origine nel “Drago
cholericus”, antenato del vibrione: era raffigurato come una specie di insetto
con un inquietante pungiglione. Prosperava – dicevano – in ambienti di scarsa o
nulla igienicità, là dove c’erano fogne a cielo aperto e cibi contaminati. Chi
veniva aggredito dal “Drago”, nel giro di un paio di giorni accusava vomito e
diarrea, dolori addominali e sete, poi diventava cianotico e moriva. La gente
che non sapeva di scienza attribuiva l’origine della malattia a cause fantastiche:
alcuni pensavano ai governanti che, avvelenando scientemente il popolino, ne
volevano stroncare gli ansiti di libertà e le lamentele per le misere
condizioni di vita; altri invece dicevano che era la punizione divina per la
degenerazione dei costumi. Che fosse una maledizione di Dio per l’umanità
intera ci se ne convinse quando si seppe che il morbo non restava circoscritto
al luogo d’origine ma si propagava a macchia d’olio fino a contagiare tutte le
terre e tutte le genti.
La prima pandemia di colera dell’era
moderna si sviluppò fra il 1817 e il 1823, la seconda fra il 1839 e il 1851, la
terza fra il 1852 e il 1859. Al giorno d’oggi siamo arrivati alla settima
pandemia, diffusasi dall’Indonesia attorno al 1970. Ma intanto già nel 1882
Koch aveva scoperto il batterio “Vibrio Cholerae” e gli esiti del morbo erano
stati resi meno devastanti da farmaci appropriati.
La terza epidemia fu la più distruttiva.
Era partita nel 1852 dall’India, attraverso l’attività di commercio si era
espansa in medio Oriente e di qui nel 1854 era dilagata in Europa: prima in
Inghilterra e Francia e poi, da qui, nei porti italiani: Genova, Livorno,
Palermo, Napoli, Venezia.
In Italia il morbo asiatico arrivò nel
luglio del 1854, prima nelle città costiere, quindi si infiltrò dovunque. Parve
esaurirsi nei mesi invernali ma poi il suo dilagare assunse ancora maggior
vigore nella primavera del 1855. Bologna fu una delle province più colpite: ci
furono più morti solo a Messina, Palermo, Sassari e Napoli; ne contarono di
meno Genova, Torino e Milano.
L’epidemia del 1855 a Bologna
L’epidemia di colera a Bologna e dintorni
– una delle venti province dello Stato Pontificio - ebbe proporzioni
catastrofiche perché il pericolo venne sottovalutato. La circolare n.528 dell’8
agosto 1854 inviata dalla Commissione Provinciale di Sanità di Bologna alle
Deputazioni Sanitarie Comunali della Provincia annunciava che era “apparso
in vari luoghi d’Italia il cholera” e si suggerivano le disposizioni per
prevenire il diffondersi dell’epidemia. Ma l’avvertimento era andato disatteso.
Tanto che ai primi di maggio del 1855 l’ufficio sanitario incredibilmente inviò
ai vari Comuni una nota in cui si diceva che si aveva sentore dell’arrivo di
un’epidemia e che dunque sarebbe stato bene predisporre una vaccinazione contro
il vaiolo (!) da effettuarsi nelle parrocchie.
Che il flagello in arrivo non fosse il vaiolo ma il più temibile colera se ne erano già accorti due settimane prima a Molinella: il 15 aprile una contadina era caduta preda del “Drago cholericus”. Il cui micidiale progredire fu chiaramente indicato dalle cifre del “Bullettino Sanitario della Legazione di Bologna” in data 15 agosto 1855: l’11 maggio si ebbe il primo caso a Baricella, il 29 a Bologna, il 30 a Budrio. In quella data la Società Medico-Chirurgica di Bologna inviava ai Cardinali Legati dei Comuni del bolognese e ai Priori delle varie frazioni una circolare firmata dal Commissario per lo Studio delle Epidemie da distribuire fra tutti i medici dello Stato Pontificio: avvertiva che il colera, e non il vaiolo, stava diffondendosi ovunque. Avvertenza tardiva. Al 31 agosto a Bologna-città i casi denunciati erano già 4.579 con 3.185 morti. Alla stessa data Persiceto contava 408 casi e 252 decessi, Crevalcore 323 casi (182 morti), Medicina 422 (297), Budrio 336 (239). Un’autentica catastrofe. L’ondata del morbo arrivava dalla Serenissima Repubblica di Venezia dove, per non aggravare la situazione della città, si era pensato bene di trasferire nel bolognese, col beneplacito del Ducato Estense e dello Stato Pontificio, le truppe contagiate. I malati erano stati trasferiti su imbarcazioni che avevano percorso i canali della laguna e del ferrarese per approdare a Malalbergo e nei porti fluviali della zona.
Che il flagello in arrivo non fosse il vaiolo ma il più temibile colera se ne erano già accorti due settimane prima a Molinella: il 15 aprile una contadina era caduta preda del “Drago cholericus”. Il cui micidiale progredire fu chiaramente indicato dalle cifre del “Bullettino Sanitario della Legazione di Bologna” in data 15 agosto 1855: l’11 maggio si ebbe il primo caso a Baricella, il 29 a Bologna, il 30 a Budrio. In quella data la Società Medico-Chirurgica di Bologna inviava ai Cardinali Legati dei Comuni del bolognese e ai Priori delle varie frazioni una circolare firmata dal Commissario per lo Studio delle Epidemie da distribuire fra tutti i medici dello Stato Pontificio: avvertiva che il colera, e non il vaiolo, stava diffondendosi ovunque. Avvertenza tardiva. Al 31 agosto a Bologna-città i casi denunciati erano già 4.579 con 3.185 morti. Alla stessa data Persiceto contava 408 casi e 252 decessi, Crevalcore 323 casi (182 morti), Medicina 422 (297), Budrio 336 (239). Un’autentica catastrofe. L’ondata del morbo arrivava dalla Serenissima Repubblica di Venezia dove, per non aggravare la situazione della città, si era pensato bene di trasferire nel bolognese, col beneplacito del Ducato Estense e dello Stato Pontificio, le truppe contagiate. I malati erano stati trasferiti su imbarcazioni che avevano percorso i canali della laguna e del ferrarese per approdare a Malalbergo e nei porti fluviali della zona.
Il contagio fu fulmineo. La gente fuggiva
dai luoghi contaminati ma così non faceva che esportare il morbo. Enrico
Bottrigari, cronista bolognese dell’epoca, annotò: “Nel vicino contado anche
il più piccolo abituro é cercato dai fuggenti...Moltissimi sono partiti per
recarsi in lontane regioni....”. Fu così che non vennero risparmiati
nemmeno i più sperduti paesi di montagna: Monghidoro al 31 agosto contava 340
casi e 189 morti, Vergato 405 (257), Poretta 331 (151), Lojano 314 (106).
Il contagio arriva a San Lazzaro
Il 15 luglio 1855 il Priore di San Lazzaro
in fretta e furia dettò allo scrivano una lettera destinata ai parroci delle
varie frazioni e che iniziava così: “Il fatto d’oggi stesso che un girovago,
il quale ha passato la notte scorsa sotto il portico presso il Lazzaretto, é
stato colto dalla malattia dominante, deve convincere che é necessario di
consigliare alle genti di campagna di non alloggiare questi miserabili....”.
Cinque giorni prima la Commissione Centrale di Pubblica Beneficenza aveva
emesso una circolare destinata alle varie Magistrature Municipali avvertendo
che “oggi che tutti i ricoveri della provincia sono infetti dal cholera non
sarebbe né prudente né coscienzioso di accogliervi verun nuovo individuo,
mancando i mezzi e i locali per tenere opportune separazioni le quali poco
potrebbero giovare...”.
Si era all’isteria, alla
disorganizzazione più totale: non si dovevano accogliere fuggiaschi, non si
dovevano ricoverare i malati; chi poteva si curasse a casa propria. E anche qui
una sequela di raccomandazioni. Il 28 luglio una circolare della Commissione
Provinciale della Sanità raccomandava a tutti “di non dare cieca fiducia né
ai mezzi né ai suggerimenti di una folla di ciarlatani, né di fidare intorno a
ricette e metodi volgari senza indicazioni e regole”. Ricette come quella
delle “gocce di salute”, vendute a caro prezzo e contenenti “spirito di
lavanda, olio di menta piperita e tintura d’oppio”: c’era chi garantiva la
loro efficacia. Il 10 luglio il Priore Presidente della Commissone Sanitaria
Comunale, Matteo Pondrelli, aveva inviato al Comune di San Lazzaro e
all’Appodiato di Pizzocalvo disposizioni dettagliate sul modo di affrontare la
terribile epidemia.
Si diceva che in ogni Parrocchia doveva
essere nominato un deputato sanitario e che “presto ai medesimi, nonché ai
molto reverendi Parrochi, sarà spedita una dose sufficiente di cloruro di calce
e di calcina viva per disinfettare”. Ogni caso di colera avrebbe dovuto
essere riferito da uno della famiglia al deputato sanitario e al parrocco “che
disinfettando tosto la persona la quale porta l’avviso, consegnerà a questa del
cloruro di calce ....per lavare le mani a quelli che presta i propri uffici al
malato, servendosi poi anche per lavarsi d'aceto o di vino in mancanza
dell'aceto”. “Accaduta la morte del colpito di cholera - continuava
la lettera - il Sacerdote che l’assiste deve, sia in questi momenti che
dopo, usare ogni precauzione su fumigi e lavature, tenendo in oltre (...) canfora,
cloruro e anche aglio”. Compito del Curato e del Deputato Sanitario di ogni
Parrocchia sarebbe stato anche quello di procurarsi un becchino e due
portantini. La raccomandazione era accompagnata da precise istruzioni: “Il
becchino avvolgendo nel lenzuolo dove é morto il colleroso, lo metterà nella
bara e sarà trasportato immediatamente nel cimitero della Parrocchia (senza
introdurlo neppure per breve tempo nella Chiesa) e sepolto alla profondità di
piedi sei; sopra il Cadavere si sovrapporrà uno strato di calce”. Appena
registrava un caso, il curato doveva fare scavare la fossa. Se la bara veniva depositata
brevemente nella cappellina del cimitero, questa doveva essere inondata di un
“profumo” ricavato dal cloruro di calce “sul quale si verserà dell’accido
solforico”, lo stesso profumo doveva essere messo nella camera dove era il
malato. Oltre al becchino e ai portantini occorreva trovare due donne “che
si adopreranno per lavature di biancherie, coperte, materazzi, lana, pagliacci,
bruciatura delle foglie”. Era puntigliosamente stabilito anche il compenso
per gli aiutanti del Curato e del Deputato Sanitario: il becchino per ogni
cadavere riceveva “baiocchi cinquanta”, ciascuno dei due portantini e
delle due donne 30 baiocchi.
Al Farneto un solo caso: Sante Landi
Il Comune di San Lazzaro all’epoca era
frazionto in otto parrocchie: Castel de’ Britti, Croara, Caselle, Pizzocalvo,
Russo, Farneto, Colunga e San Cristoforo di Castel de’ Britti. Fra il 15 luglio
e il 4 agosto tutte le frazioni – con l’eccezione di Colunga e San Cristoforo
che avrebbero conosciuto il colera solo a inizio ottobre – furono interessate
all’epidemia. E allora si dovette constatare una strana anomalia: il parroco
del Farneto, don Francesco Galloni, per quanto stesse in allerta, a differenza
dei suoi colleghi non registrava casi di colera. La Parrocchia del Farneto,
stando all’ultimo censimento del 1853, contava 182 residenti, 96 uomini e 86
donne, nonché un numero imprecisato di “immigrati”. Ai 182 residenti del 1853,
durante l’epidemia si era aggiunta gente arrivata da lontano e sistematasi
nelle povere case celate fra i boschi di querce e nobili rifugiatisi con amici,
parenti e inservienti nelle loro ville di campagna immerse in grandi parchi
alberati.
Mentre tutt’intorno infuriava il morbo, a
Castel de’ Britti come alla Croara, a Pizzocalvo come a Caselle e Russo, al
Farneto si continuava la vita di sempre. La Chiesa di San Lorenzo del Farneto
era il luogo di raduno per raccogliere informazioni, ascoltare le
raccomandzioni di Don Francesco, le disposizioni del Deputato Sanitario e
soprattutto pregare, pregare di essere risparmiati dalla mortale malattia.
C’era particolare devozione per la Beata Vergine della Cintura, raffigurata
assieme agli Evangelisti Marco e Giovanni in un quadro di duecento anni prima,
e a lei ci si rivolgeva con angoscia e speranza.
Quando il 4 agosto i famigliari di Sante
Landi, un “servente” nei campi, corsero dal parroco a denunciare che il loro
congiunto accusava i sintomi del colera, la gente del posto si sentì
abbandonata anche da Dio. Ma nel giro di pochi giorni Sante migliorò e si
ristabilì completamente. Si diffuse la voce che la Madonna della Cintura aveva
voluto ascoltare le invocazioni della povera gente del Farneto. E intanto a
pochi chilometri di distanza in molti continuavano a morire.
Per scongiurare il diffondersi ulteriore
del contagio, ad un certo punto non bastavano più le raccomandazioni di inizio
luglio. L’11 agosto il Priore di San Lazzaro mandò una lettera a “tutti i
Parrochi della Comune” supplicandoli di dare pubblicità “dall’altare”
ad altre disposizioni d’emergenza, per esempio, “nella circostanza di
somministrare il Ss.Viatico ai malati o di trasporare i morti non s’abbiano a
suonare le campane”, perché “la cosa agita non poco la popolazione e
porta l’inconveniente di accumulare gente dentro la casa del malato di cholera”.
Il 23 agosto, visto che queste raccomandazioni andavano in parte disattese,
soprattutto dai parroci di Colunga e San Cristoforo, il Priore scrisse una
lettera al Vescovo di Bologna implorandolo di ricordare ai parroci “il
divieto di trasportare i morti con accompagnamento” perché ciò “avrebbe
richiamato dietro al morto una frotta di gente, parte ignorante, parte curiosa,
la quale si sarebbe poi introdotta financo al cimitero per vedere seppellire il
morto, la quale conseguenza dell’accompagnamento si sarebbe scontrata con le
leggi ed i regolamenti”.
Il miracolo della Madonna della Cintura
Passarono i giorni e mentre nelle varie
parrocchie di San Lazzaro si registrava un sempre maggior numero di casi e di
decessi, il Farneto continuava a rimanere un’isola felice. I fedeli del luogo e
coloro che lì si erano trasferiti dalle frazioni vicine si raccoglievano sempre
più insistentemente attorno a don Francesco chiedendogli di organizzare turni
di preghiere, penitenze e processioni affinché la Madonna della Cintura della
chiesa di San Lorenzo continuasse a proteggerli. Passò l’estate e Sante Landi
rimase al Farneto l’unico caso di colera, per di più dichiarato guarito ai
primi di settembre. Qualche “laico” spiegò quel “miracolo” col vento continuo e
purificatore che spira verso il Farneto da quell’imbuto formato dai monti fra
cui scorre lo Zena. Può essere. Per tutti però, allora, il merito esclusivo era
della Madonna.
Con l’arrivo dell’autunno sembrò che la
furia del morbo stesse per placarsi. La Commissione Provinciale di Sanità in
una circolare del 26 settembre raccomandava ancora vigilanza e cautela ma
segnalava come “il Cholera per Divina Grazia mostri di volgere al suo
termine...” L’1 ottobre però Colunga e San Cristoforo registrarono nuovi
casi: erano le parrocchie che non avevano voluto seguire alla lettera le
precauzioni raccomandate a inizio luglio. L’ultimo Bollettino Sanitario del
Comune di San Lazzaro fu redatto il 21 novembre. Adesso davvero nel bolognese
l’epidemia pareva terminata. Il 25 novembre 1855 la fine del colera fu
festeggiata in San Petronio con un solenne Te Deum. E il 14 dicembre il Priore
di San Lazzaro poteva mandare alla Commissione Provinciale di Sanità questo
documento: “Col giorno 28 scorsomese cessò nel Comune il morbo Cholera, per
cui vi invito a sospendere l’invio dei bollettini sanitari. Speriamo che Iddio
vorrà per lungo tempo tenerci liberi dal terribile flagello”. Il consuntivo
del Comune di San Lazzaro inviato alla Commissione Provinciale di Sanità il 7
dicembre 1855 fu il seguente:
Parrocchie
|
Sviluppo
|
Casi
|
Morti
|
Guariti
|
Castel de’Britti
|
15 luglio
|
22
|
16
|
6
|
Croara
|
17 luglio
|
17
|
7
|
10
|
Caselle
|
18 luglio
|
11
|
5
|
6
|
Pizzocalvo
|
4 agosto
|
47
|
27
|
20
|
Russo
|
4 agosto
|
5
|
1
|
4
|
Farneto
|
4 agosto
|
1
|
-
|
1
|
Colunga
|
1 ottobre
|
11
|
3
|
8
|
S.Cristoforo
|
5 ottobre
|
3
|
-
|
3
|
TOTALE
|
117
|
59
|
58
|
Da rito a festa e sagra paesana
Furono in tanti a stupirsi
dell’eccezionalità del dato del Farneto, soprattutto se paragonato a quelli
delle parrocchie più vicine. In tutti si radicò la convinzione che davvero la
Beata Vergine della Cintura avesse voluto preservare dal contagio i residenti
di quella piccola zona. Fu così che il parroco don Francesco Galloni decise che
ogni anno, la prima o la seconda domenica di settembre avrebbe dovuto essere
consacrata alla Madonna della Chiesa di San Lorenzo con una solenne cerimonia
di ringraziamento.
Da allora, per 150 anni il rito si é
ripetuto con puntualità, persino negli anni di guerra, variando nel tempo i
propri contenuti. Fino ai primi del ‘900 la cerimonia era consistita nella
recita del rosario e nella processione dalla Chiesa del Farneto fino al Molino
Vecchio. Più tardi assunse il carattere di vera e propria festa: la processione
allargò il proprio percorso scorrendo lungo i viottoli del contado e ad essa si
aggiunse il ritrovo dei residenti che nei prati antistanti la chiesa gustavano
ciò che avevano portato da casa, vino, pollame, frutta, verdure. Così fu per
lunghi anni.
Da allora, essendo aumentato in
continuazione il numero dei parrocchiani, la festa si é trasformata in sagra
paesana richiamando anche persone delle vicine frazioni, grazie anche al
dilatarsi del programma dei festeggiamenti: non più solo processione, Messa e
rosario ma anche stand gastronomico, mercatino dell’usato, pesca di
beneficenza, giochi, gare sportive, canti e balli, recite, visite guidate al
Parco dei Gessi.
San Lorenzo del Farneto, il luogo del
“miracolo”
La chiesa del Farneto (anzi del “Farnito”,
così veniva chiamata questa zona nel 1048), come nome esiste da poco meno di un
migliaio di anni. Naturalmente il tempo ha prima corroso e poi distrutto la
struttura originaria, che é stata più volte ristrutturata e riedificata sempre
nello stesso luogo: “da Bologna lontano sei miglia percorrendo la strada
Emilia, ed alle falde di uno di quei colli che stendendosi verso il
mezzogiorno, ed ove il torrente Zena ne lambisce le radici”.
Mille anni fa: un’enormità che rende
ancora più suggestivo l’immaginarsi la successiva metamorfosi del territorio e
della sua popolazione. Mille anni fa, per dire, il torrente Zena non scorreva
nel letto attuale e il Farneto era un immensa foresta di querce farnie
interrotta da distese di ulivi. Poche casupole di contadini e pastori, votati
ad un’esistenza misera e solitaria che terminava in media intorno ai 30 anni.
Oggi il Farneto é una delle frazioni di San Lazzaro che più si é evoluta dal
punto di vista dell’urbanizzazione: vi abitano più di duemila persone affatto
dedite alla pastorizia o alla coltivazione dei campi, le rarissime querce
farnie costituiscono ormai solo curiosità per botanici, “i colli che si
stendono verso mezzogiorno” hanno rivelato una vita preistorica quando sono
stati disossati per strapparne il gesso e lo Zena si é visto deviare il corso.
Ma la chiesa del Farneto é sempre lì,
testimone del tempo e delle sue mutazioni.
mercoledì 12 febbraio 2014
COSE MIE - Il mondo invisibile
“E il naufragar
m’è dolce in questo mare”. Rubo a Giacomo Leopardi l’ultimo verso de
“L’Infinito” per meglio definire il mio particolare stato d’animo e alcune
considerazioni che adesso mi piace esternare. Da un anno non sto bene, sono
alla fine dei miei giorni, e lo dico con grande serenità. Tutto questo mi ha
indotto ad avvicinarmi a quel mondo invisibile fatto di sensazioni visive e
auditive che nella vita trascuriamo perché troppo presi da una frenetica
quotidianità. Apprezzo il soffio del vento sul viso, il canto dei merli all'alba, il profumo del biancospino, il tepore di una notte serena; osservo con attenzione lo
spuntare delle viole nel mio giardino, guardo il calar del sole come un
miracolo. Vedo cose che prima non vedevo. Come il diventare rosse le foglie
verdi della mia liquidambra, il crescere dei frutti sul mio fico, la nascita
delle olive nere sull’albero che piantai sei anni fa per la mia nipotina.
Ascolto cose che prima non ascoltavo. Come il silenzio dei campi e di una notte
che si riempie di stelle o l’alba di un nuovo giorno. E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Come Giacomo Leopardi,
sfortunato conte marchigiano, di Recanati in provincia di Macerata, morto a 39
anni nel 1837, afflitto fin da piccolo da una tubercolosi ossea alla colonna
vertebrale che lo indusse ad aspettare la fine dei suoi giorni affidando se
stesso alle sensazioni più pure e sconosciute, mirabilmente poi espresse in
un capolavoro di portata mondiale, “L’Infinito”. Le coglieva osservando il
mondo oltre una siepe del suo “ermo colle”, il Monte Tabor (foto sotto a destra): da qui assimilava
“sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Il mio ermo colle è stato il Monte
delle Formiche, un monte di 638 metri a 30 km da San Lazzaro, che sovrasta la
Valle dell’Idice e la Val di Zena, colline, boschi, vallate.
Nei giorni più
limpidi lo sguardo può spaziare dall’Adriatico alle prealpi veronesi. Un monte
misterioso e affascinante: è detto Monte delle Formiche (foto sotto a sinistra) perché fin da tempi
remoti è teatro di un fenomeno inspiegabile e suggestivo: a metà settembre
dalla Baviera arrivano milioni di esemplari maschi di formiche alate, qui si
accoppiano e poi si lasciano morire sapendo che il loro destino è questo. Sul
monte c’è un santuario: al momento opportuno le colonne del santuario e il
piazzale e tutto quanto intorno si riempiono di formiche agonizzanti o morte.
Qui a metà nel
1500, in una grotta, si stabilì l’eremita Barberius vivendo di sensazioni e di
visioni fantastiche. Qui sono stato per l’ultima volta nel settembre di due
anni fa. Qui, fra “questa immensità”, si è annegato “il pensier mio”. E adesso
“il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da anni ho appeso in una parete del
mio studio un quadro con la riproduzione de l’Infinito di Leopardi, mi ha sempre toccato
il cuore. Adesso lo rileggo ogni giorno. Mi permetto di consigliarlo a tutti, per non rischiare di scoprire troppo tardi quel mondo invisibile e meraviglioso che ci circonda e che pare non vogliamo vedere.
L’INFINITO
di Giacomo Leopardi
«Sempre caro mi fu
quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.»
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.»
lunedì 10 febbraio 2014
RIFLESSIONI - I nuovi barbari
“Cosa faresti con la
Boldrini (presidente della Camera dei
Deputati, n.d.a) in macchina?”. E’ il twitt apparso sul sito di Beppe
Grillo a febbraio 2014, volutamente teso a scatenare le più diverse oscenità:
è un segno di disagio, mentale e comportamentale, del comico leader del Movimento 5
stelle. Il degrado dei modi e del linguaggio è sinonimo della decadenza della nostra epoca e di
un paese, il nostro, che si definisce civile. E’ indice di un generale
scadimento dei valori nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni, nella
politica. Valori che da sempre sono alla base del vivere civile: rispetto,
educazione. Quelli che blaterano e agiscono con volgarità lo fanno chiamando in
causa la modernità, la disinibizione, la spontaneità. Sono solo dei limitati
dotati di enorme arroganza. Non sanno nemmeno di cosa parlano, perché la
volgarità diffusa comparve alla fine degli anni 80, più di 25 anni fa.
Non
parlo solo di politici, ma dell’agire della gente comune, del linguaggio
dell’informazione. “Cuore”, supplemento satirico de l’Unità, si divertiva a
mettere nei titoli la parola “culo”, in televisione si sentiva per la prima
volta dire “cazzo”, persino una bestemmia. Vittorio Sgarbi cominciò a costruire
il suo personaggio di intellettuale rissoso quando nel 1989 al Costanzo Show a
una insegnante che aveva letto una propria poesia disse con violenza: “Lei è
una stronza”. Luciana Litizzetto, che pure ha alle spalle una notevolissima
carriera piena di riconoscimenti, ha creduto bene di affidare la propria
popolarità alla scurrilità delle sue battute: pare che merda culo cazzo troia
siano parole irrinunciabili. Berlusconi definì “culona inchiavabile” la Merkel dopo aver dato all'"abbronzato" ad Obama. Calderoli, leghista una volta intemperante, ancora un anno fa paragonava il
ministro Kyenge ad un orango.
Umberto Bossi (che non conosce la storia altrimenti avrebbe saputo che gli italiani hanno invaso mezzo mondo), a parte la volgarità delle parole (“Io
col tricolore mi pulisco il culo”), cominciò a usare minacce (“Centomila bergamaschi sono pronti con i
fucili alla secessione”) in grado soltanto di intaccare le menti più labili
e non di provocare quella rivoluzione illusionaria che andava predicando contro i meridionali e gli immigrati: se vuoi fare una
rivoluzione vera devi avere al fianco qualcosa di più solido, mica delle
chiacchiere insulse. Adesso sono di moda i “grillini”, che agli ordini di un comico fanno le loro battaglie con arroganza e supponenza. Anche loro vogliono rivoluzionare lo Stato e cavalcano
la rabbia della gente usando offese e atti di bullismo non immaginando che alla lunga la gente si stancherà della loro vacuità. La volgarità ha ormai intaccato ogni settore della vita sociale. Vai su un autobus e inorridisci a sentire parlare
gli studenti, che si credono “grandi” esibendo il linguaggio osceno. A scuola dilaga il bullismo. Le famiglie
se ne disinteressano: tv e videogiochi bastando a educarli, pensano. La politica è diventata strumento per l'affarismo più cinico. Il Vaticano
è scosso da casi di pedofilia. Negli stadi le scurrilità la fanno da padrone:
“Juve merda” è il più quotato slogan fra i cervelli atrofizzati. “Tutti allo stadio
porca puttana” diceva il cartellone di non so quale tifoseria: caspita che battuta! Nelle intenzioni
del suo ideatore quella esclamazione doveva servire a dare forza al messaggio e
invece lo sviliva. Che tristezza!
martedì 4 febbraio 2014
AMARCORD - Il mito di Buffalo Bill
Buffalo Bill è stato il mito di noi ragazzi nati
nella prima metà del ‘900. Era l’eroe del selvaggio West americano: dicevi il
suo nome e ti apparivano le lotte con i pellerossa, le carovane di coloni
lanciate alla conquista di terre sconosciute, i saloon, la caccia ai bisonti,
le corse sfrenate dei cavalli nelle praterie, le sparatorie. Libri e fumetti su
questo personaggio ne alimentavano la popolarità. L’editore fiorentino Nerbini
ci aveva fatto una fortuna e quando la censura fascista gli aveva imposto lo
stop alla produzione di fumetti, lui si era inventato la “vera” identità di
questa leggenda: Nerbini assicurava che Buffalo Bill in realtà era un italiano
di Forlì, romagnolo come il duce. Gli credettero e potè continuare a pubblicare
i suoi fumetti.
Personaggio immaginario questo Buffalo Bill? Tutt’altro. Era esistito davvero, era morto nel 1917 a 71 anni. Ed era un tipo fantasioso, sempre in cerca di avventure. Nato nello Iowa, si chiamava William Cody, era figlio di un uomo poi ammazzato perché contrario allo schiavismo. A 11 anni sapeva sparare, usare il lazo, cavalcare; a 14 guidava i pony express; avrebbe poi partecipato con i nordisti alla guerra di secessione, ammazzando indiani ma poi divenendone amico fraterno. Più tardi avrebbe lavorato per la Compagnia che costruiva ferrovie: il suo compito era quello di procurare cibo agli operai, la sua specialità quella di ammazzare bisonti. In un anno e mezzo ne uccise 4.286 divenendo per questo “Buffalo Bill”.
Personaggio immaginario questo Buffalo Bill? Tutt’altro. Era esistito davvero, era morto nel 1917 a 71 anni. Ed era un tipo fantasioso, sempre in cerca di avventure. Nato nello Iowa, si chiamava William Cody, era figlio di un uomo poi ammazzato perché contrario allo schiavismo. A 11 anni sapeva sparare, usare il lazo, cavalcare; a 14 guidava i pony express; avrebbe poi partecipato con i nordisti alla guerra di secessione, ammazzando indiani ma poi divenendone amico fraterno. Più tardi avrebbe lavorato per la Compagnia che costruiva ferrovie: il suo compito era quello di procurare cibo agli operai, la sua specialità quella di ammazzare bisonti. In un anno e mezzo ne uccise 4.286 divenendo per questo “Buffalo Bill”.
Un personaggio così per lungo tempo impersonò ciò
che poi sarebbe stato immortalato nei film “western”. E un personaggio così
scelse la strada più difficile per portare a conoscenza del suo mondo tutti gli
altri paesi: nel 1883, a 37 anni, cominciò a viaggiare col circo di Phineas
Barnum portando fra la gente il selvaggio West; una mastodontica compagnia
formata da centinaia di cow boys, indiani, villaggi ricostruiti, carri e
quant’altro serviva a dare corpo alle fantasie del suo periodo, come le
sparatorie nel saloon o gli assalti degli indiani alle diligenze. Si stabilì a
nord di Parigi per quattro anni e il mito delle sue rappresentazioni dilagò per
l’Europa. Per qualche tempo fu con lui anche il leggendario Toro Seduto (foto sotto),
vincitore del generale Custer nella famosa battaglia di Little Big Horn.
In Italia venne due volte, nel 1890 e nel 1906,
sostando in complesso in 36 città, dando 119 spettacoli, sempre suscitando
enorme interesse e arricchendoli ogni volta con sfide nuove: a Londra si erà già battuto con
Dorando Pietri, l’eroe della Maratona di Londra, uomo a cavallo contro uomo a
piedi; in Italia, corse a cavallo (cambiandone 10) per 100 km contro un
ciclista, Romolo Bruni. L’andarono a vedere anche Giacomo Puccini ed Emilio
Salgari. Amava l’Italia perché sua moglie, Luisa Frederici, aveva radici
italiane. Anche Bologna ebbe l’onore di vedere Buffalo Bill. La prima volta,
nel 1890, arrivò con un treno speciale composto da 18 carrozze contenente 500
persone, capanne, diligenze smontate, bisonti, cavalli, indiani.
Si stabilirono all’Ippodromo Zappoli, sfilarono per le vie della città per invogliare la gente ad andare a vedere lo spettacolo nonostante l’alto prezzo d’ingresso: 5 lire. L’incasso del primo giorno fu di ben 118.000 lire. Fu lì che i bolognesi cominciarono a conoscere il popcorn e lo zucchero filato, importato dagli Stati Uniti. La seconda volta fu nel 1906, e l’apparato era ancora più imponente: 4 treni speciali. Misero le tende ai Prati di Caprara, di fronte all’odierno Ospedale Maggiore, dove da piccolo andavo a giocare a pallone con i miei amici. Il fatto di aver calpestato la stessa terra su cui aveva cavalcato e “combattuto” Buffalo Bill – come mi avrebbe poi raccontato mio padre – mi sarebbe sempre rimasto dentro.
Si stabilirono all’Ippodromo Zappoli, sfilarono per le vie della città per invogliare la gente ad andare a vedere lo spettacolo nonostante l’alto prezzo d’ingresso: 5 lire. L’incasso del primo giorno fu di ben 118.000 lire. Fu lì che i bolognesi cominciarono a conoscere il popcorn e lo zucchero filato, importato dagli Stati Uniti. La seconda volta fu nel 1906, e l’apparato era ancora più imponente: 4 treni speciali. Misero le tende ai Prati di Caprara, di fronte all’odierno Ospedale Maggiore, dove da piccolo andavo a giocare a pallone con i miei amici. Il fatto di aver calpestato la stessa terra su cui aveva cavalcato e “combattuto” Buffalo Bill – come mi avrebbe poi raccontato mio padre – mi sarebbe sempre rimasto dentro.
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