martedì 26 novembre 2013

RIFLESSIONI - Discriminazioni


Mi fa molto arrabbiare il fatto che si parli più dei gay e delle lesbiche che dei disabili. Sia chiaro, non ho niente contro gli omosessuali: da piccolo avevo un cugino gay e da grande fra gli amici più cari due erano gay, un caro amico di mio figlio è omosessuale. Però non sopporto che nella comunicazione venga dato enorme risalto alle manifestazioni per i diritti degli omosessuali mentre attorno ai disabili cala un silenzio ipocrita e vigliacco. Con qualche minima eccezione: il Corriere della Sera a inizio 2012 ha istituito il blog Corriere.it Invisibili, che però resta sempre e solo una discussione interna. Leggo a inizio 2014 che "il governo è a rischio sulla questione dei matrimoni gay". La trovo una cosa oscena, offensiva. Così come il fatto che a Sochi, sede dei Giochi Olimpici Invernali, 2014, si sia parlato più di gay che di sport: per dire, Luxuria è andata apposta a Sochi per sbandierare uno striscione a favore dei gay. A "C'è posta per te" di Maria de Filippi c'è stato il primo bacio in diretta fra due uomimi. E al Festival di Sanremo 2014 è stato ospite tale Rufus, che Elton John definisce il più gande cantautore, con la canzone "Gesù Cristo è un gay": idiota, oltre che bestemmiatore. I problemi dei disabili sono un milione di volte più gravi di quelli dei gay, attorno a loro ruota un invisibile mondo di solidarietà che però non basta ad alleviarne il percorso di vita. Perché a fianco c’è anche un mondo altrettanto vasto di indifferenza. Basti pensare alla tranquillità di chi occupa il parcheggio di un disabile, al menefreghismo di chi fa costruire un ascensore in cui non può entrare una carrozzella, alle barriere insulse che si oppongono al passaggio di un disabile. A metà dicembre 2013 un corteo di malati di Sla a Roma aveva bloccato il traffico: molti automobilisti inviperiti gli hanno urlato di levarsi dai coglioni. A gennaio 2014 a Reggio Calabria hanno detto che negli asili nido non ci sono posti per bambini disabili: mancano gli insegnanti di sostegno. Una vergogna. Un gay è gay e basta, pur con tutti i suoi problemi. Un disabile ha mille sfaccettature di inabilità. Eppure i media propagandano con gran clamore le manifestazioni dei primi e ignorano le battaglie quotidiane degli altri. In tv è una gara ad ospitare gay, a solidarizzare con loro, ad “accettarli”. Vorrei vedere in primo piano altrettanti disabili. Ma no, non li chiamano, pare quasi che diano fastidio. E' come quando si ha paura di un problema e allora lo si ignora. Nei loro confronti c’è una sorta di indifferenza, quasi di repulsione, che maschera disagio e grande vigliaccheria. Si parla delle vessazioni dei gay ma non di quelle dei disabili, che sono anche oggetto di altre cialtronate indicibili. Nessuno si finge gay, moltissimi si fingono disabili: i gay dilagano in televisione, i falsi disabili dilagano nelle strade. Una volta beccati, sarebbero da bastonare e dopo, solo dopo, da sbattere in galera. Assieme ai medici che li certificano.

lunedì 25 novembre 2013

AMARCORD - Anthony Quinn


In redazione, a “Stadio”, passavano sempre personaggi famosi, non necessariamente dello sport. Non ricordo perché arrivassero o chi li portasse lì e se fossero davvero interessati a quello che veniva loro mostrato, dalla redazione alla tipografia. Forse perché “Stadio” nel suo piccolo era davanti agli altri per tecnologia (fu il secondo giornale ad adottare l’offset, una nuova tecnica di stampa, dopo il Messaggero Veneto, e il primo a pubblicare foto a colori) e quindi era interessante da scoprire. Una volta venne Nicola Di Bari, il cantante. Un’altra volta arrivò Anthony Quinn, il grandissimo Antony Quinn di Zorba il greco e di tanti altri film. Forse era il 1976. Aveva una sessantina d'anni, messicano di nascita parlava bene l'italiano per aver lavorato molto a Cinecittà. Di lui mi ricordo bene, perché pareva davvero interessato a quello che vedeva. Faceva domande e questo mi sembrò essere indice di sincerità. Voleva sapere come nasceva il giornale e come veniva realizzato, come veniva impaginato. C’è una foto, che mostro come testimonianza di quel che dico: è davanti a una pagina in via di esecuzione, si rivolge a me (quello con le mani in tasca di fronte a lui; al centro della foto c'è Adalberto Bortolotti, che era direttore di "Stadio", grandissimo giornalista) per sapere il perché della disposizione degli articoli e conoscere il seguito del processo di realizzazione del giornale. Dopo andammo al bar e lui continuò a fare domande. Un tipo cordiale, aperto, curioso e quindi intelligente. Sono felice di averlo conosciuto.

PER RIDERE - Cappuccett Red


THE BELLISSIM STORY OF CAPPUCCETT RED
Non so chi ne sia il geniale autore, ma da anni circola questa favola in inglese maccheronico:

One mattin Cappuccet Red's mamma dissed: "Dear Cappuccett, take this cest to the nonn, but attention to the lup that is very ma very kattiv! And torn prest! Good luck! And in bocc at the lup!".
Cappuccett didn't cap very well this ultim thing but went away, da sol, with the cest.


Cammining cammining, in the cuor of the forest, at acert punt she incontered the lup, who dissed:

"Hi! Piccula piezz'egirl! 'Ndove do you go?".

"To the nonn with this little cest, which is little but it is full of a sacc of chocolate and biscots and panettons and more and mirtills", she dissed.


"Ah, mannagg 'a Maruschella (maybe an expression com: what a cul that had)" dissed the lup, with a fium of saliv out of the bocc.  And so the lup dissed:

"Beh, now I dev andar because the telephonin is squilling, sorry."

And the lup went away, but not very away, but to the nonn 's House.


Cappuccett Red, who was very ma very lent, lent un casin, continued for her sentier in the forest.


The lup arrived at the house, suoned the campanel, entered, and after saluting the nonn, magned her in a boccon. Then, after sputing the dentier, he indossed the ridicol night beret and fikked himself in the let.

When Cappuccett Red came to the fint nonn's house, suoned and entered. But when the little and stupid girl saw the nonn (non was the nonn, but the lup, ricord?) dissed:

"But nonn, why do you stay in let?".

And the nonn-lup:

"Oh, I've stort my cavigl doing aerobics!".

"Oh, poor nonn!", said Cappuccett (she was more than stupid, I think, wasn't she?).

Then she dissed:

"But...what big okks you have! Do you bisogn some collir?".

"Oh, no! It's for see you better, my dear (stupid) little girl", dissed the nonn-lup.

Then cappuccett, who was more dur than a block of marm:

"But what big oreks you have! Do you have the Orekkions?".

And the nonn- lup:

"Oh, no! It is to ascolt you better".

And Cappuccett (that I think was now really rincoglionited) said:

"But what big dents you have!".

And the lup, at this point dissed:

"It is to magn you better!".

And magned really tutt quant the poor little girl.


But (ta dah!) out of the house a simpatic, curious and innocent cacciator of frod sented all and dissed:

"Accident! A lup! Its pellicc vals a sac of solds".

And so, spinted only for the compassion for the little girl, butted a terr many kils of volps, fringuells and conigls that he had ammazzed till that moment, imbracced the fucil, entered in the stanz and killed the lup.

Then squarced his panz (being attent not to rovin the pellicc) and tired fora the nonn (still viv) and Cappuccett (still rincoglionited).

And so, at the end, the cacciator of frod vended the pellicc and guadagned honestly a sacc of solds.

The nonn magned tutt the leccornies that were in the cest.

And so, everybody lived felix and content (maybe not the lup!).








giovedì 21 novembre 2013

I CIALTRONI - LO SCHERZO GENIALE


Quell’ormai famoso cartello appeso davanti all’ufficio Gestione Verde Urbano del Comune di Roma a metà novembre 2013 e in cui si invitava la gente a non rompere le scatole agli impiegati agli sportelli altrimenti sarebbero volati insulti, a me ha fatto ridere. Lo trovo geniale. In un momento di crisi come questo, qualcuno ha trovato il modo di scherzare. Penso che una cosa così non sarebbe mai successa in Inghilterra o in Norvegia, dove non sanno ridere. Era un cartello talmente improbabile e assurdo che avrebbe dovuto subito riscuotere un sorriso e invece nei più ha suscitato feroce indignazione, sollecitata da un giornalismo ormai abituato a rincorrere il sensazionalismo senza approfondire. Se facessi ancora il mio mestiere mi sarei dato daffare per scoprirne gli autori e per farmi una risata assieme a loro. Invece ci si è fermati all’apparenza e adesso qualcuno forse pagherà per la “goliardata”, come era stata subito definita dal vicesindaco di Roma. Nei giorni successivi allo sdegno è esplosa poi un’ondata di ipocrisia. Ah sì? Era una goliardata? Ecco, gli impiegati comunali sono dei fannulloni, dei mangiapane a tradimento, invece di lavorare stanno lì a inventarsi queste cose! Che razza di cialtroni siamo! Ma nessuno di quelli che hanno protestato ha mai scherzato sul posto di lavoro?! Nessuno dei giornalisti che ha riportato la notizia si è mai fatto una risata alle spalle di altri? Da altra parte ho già ricordato che in redazione a "Stadio" Giorgio Comaschi era solito rispondere al telefono: "Il direttore? No, non c'è, sta imbiancando i corridori!". Dino Biondi, il direttore di allora, quando lo seppe si fece una risata. La realtà è che abbiamo perso il senso dell’umorismo. E questo sì che fa tristezza, mica quel cartello che era solo uno scherzo ben riuscito.


LO SCHERZO CRETINO
In Argentina a inizio 2014 sono stati messi in commercio da Carrefour dei budini fra i cui ingredienti figuravano anche 12 grammi di cocaina. Chi se ne è accorto ha subito pensato ad un errore, altri sono rimasti sbaloriti. La famosa azienda ha ritirato dai negozi i budini incriminati e ha attribuito la scritta allo "scherzo di cattivo gusto" di un impiegato di un'azienda fornitrice. Ovviamente, ha precisato, nei dolci non c'è alcuna traccia di cocaina.

sabato 16 novembre 2013

LUOGHI E CITTA' - Portogallo, la suggestione


Il Portogallo è la parte più occidentale dell’Europa: dopo, c’è l’Oceano Atlantico che porta ad altri mondi. Un viaggio in questa terra ti arricchisce. Ci sono stato per otto giorni una quindicina di anni fa e ancora conservo vividi ricordi. Nell’aria che respiri cogli un sentimento di libertà, di nostalgia, la saudade per avventure lontane. Il fado, la tipica armonia di queste parti, è il suono del Portogallo, intriso di malinconia, ne riassume bene lo spirito. Come la risacca delle onde che vengono da lontano contro spiagge e scogli. O come il Porto, un vino liquoroso che va bevuto dopo 10 o 20 o addirittura 40 anni dall’imbottigliamento e che va centellinato lentamente, ad occhi chiusi. La voce di Amalia Rodriguez, leggendaria interprete del fado, per anni ha riassunto in maniera perfetta questa atmosfera. La capitale del Portogallo è Lisbona, sulle foce del fiume Tago: la Torre di Belem (foto sopra) ricorda che da qui alla fine del 1400 partì Vasco da Gama per andare alla scoperta delle Indie e di altri orizzonti: il Brasile parla portoghese, per dire. 
Lisbona ha nemmeno mezzo milione di abitanti, dal mare sale fin sulle colline, ci puoi andare con un tram che arranca lentamente attraverso viuzze strette. E’ una città che ti sorprende ad ogni angolo e che va visitata adagio. Magari fermandosi ogni tanto in una delle numerose pastelerias dove fanno i celeberrimi pasteis, piccoli canestri di pasta sfoglia ripieni di crema cotta al forno. Così amava fare anche Fernando Pessoa, enigmatico poeta e scrittore portoghese la cui statua lo raffigura seduto a un tavolino di marmo in mezzo ad altri tavoli veri (foto sotto a destra). Farsi fotografare seduti accanto a Pessoa è quasi un obbligo. 
In giro c’è gente aperta, disponibile ma seria. Una caratteristica che ritrovi nella luce degli azuleios che ricoprono case o chiese: uno sfondo di piastrelle di ceramica sulle quali sono state disegnate scene di vita o di carattere religioso. Ne comprai tre, di queste piastrelle, con incise le iniziali mie, di mia moglie e di mio figlio, le ho appiccicate davanti alla porta di casa.
Ti muovi da Lisbona e scopri cose straordinarie. Come le scogliere dell’Algarve, costellate di campi da golf. O come Cascais, dove è d’obbligo sostare per vedere la vecchia residenza dei reali d’Italia qui in esilio e oggi trasformata in albergo lussuoso (foto a fianco). O come Nazarè, antichissimo e pittoresco villaggio di pescatori dove sulla spiaggia vedi ancora uomini che aggiustano le reti o preparano barche con i movimenti lenti di un tempo. Più su, a 123 km da Lisbona, c’è Fatima (foto sotto), il luogo dove nel 1917 la Madonna apparve a tre piccoli pastori preannunciando loro le sorti del mondo. E’ un posto magico attorno al quale si coagula la sofferenza e la speranza del mondo. Anche per chi non crede, come me, la suggestione è forte: inevitabile lasciarsi coinvolgere da sentimenti di rispetto, serenità. C'è gente arrivata fin qui da ogni parte a pregare per la propria guarigione o a sperare in un miracolo o semplicemente per avvertire la presenza di Maria. Invidio chi ha questa fede, mi arrabbio con me stesso per non riuscire a credere, odio la ragione, il cervello, che mi costringe ad affrontare la vita con perversa razionalità.


venerdì 15 novembre 2013

LUOGHI E CITTA' - Amburgo, stupefacente


Conosco la Germania a menadito e penso che sia turisticamente sottovalutata: Colonia, Friburgo, Monaco, Norimberga, Baden-Baden, tutta la valle del Reno, la Foresta Nera sono delizie che nessuno dovrebbe perdersi. Mi interessai alla Germania quando al liceo cominciai a studiare il tedesco. Poi nel 1956 a Cattolica conobbi una ragazza di Amburgo, Heike. Lei 17 anni, io 18. I suoi mi invitarono lassù, allora 17 ore di treno da Bologna. Loro vennero da me. Lei si sposò, io mi sposai, ma la nostra amicizia continuò con continue visite dei rispettivi famigliari. Ci vediamo, telefoniamo e scriviamo da 57 anni! 
Amo Amburgo, la definisco la mia seconda casa per esserci stato infinite volte. Città favolosa. Nata nell’810 come presidio al castello di Carlo Magno insidiato dagli slavi, è collocata sull’estuario del fiume Elba. Nel 1943 fu distrutta dai bombardamenti alleati. Rinacque più bella che mai. Oggi è la seconda città della Germania con 1.780.000 abitanti, il secondo porto europeo dopo Rotterdam, il reddito pro capite è il doppio di quello medio continentale. 
Percorsa da una fitta rete di canali, bagnata da due laghi (Aussenalster e Binnenalster), tragitta pedoni e automobili da una riva all’altra dell’Elba attraverso due tunnel spettacolari. Il suo segno distintivo è il St Michael, un altissimo campanile visibile a grande distanza. Ma Amburgo è celebre anche per la zona di Blankenese lungo l'Elba, con le vecchie case di pescatori oggi trasformate in ville di prestigio; lo stupefacente giardino botanico “Planten un Blomen” allestito nel 1930 e adagiato su 47 ettari di terreno; lo zoo Hagenbeck nato nel 1907 senza gabbie, esteso su 25 ettari con 7 km di sentieri; lo Jungfernstieg, che è la strada dei negozi di lusso; il sontuoso Rathaus e la Reeperbahn, il quartiere dei night. 
Qui nel 1961, al Tabù della Grosse Freiheitstrasse (via della grande libertà) fecero la loro prima uscita da Liverpool i Beatles. Posso dire che la mia “apertura mentale” nacque qui, in occasione dei miei primi viaggi ad Amburgo. Per la prima volta venni a contatto con gente di ogni tipo e di ogni colore, capii cosa significava l’internazionalità, l’integrazione, il mondo. E conobbi una città stupenda: da non perdere.

giovedì 14 novembre 2013

LUOGHI E CITTA' - La magia di Madeira


Ci sono stato in vacanza con mia moglie nel 2002, per una settimana. Credo che sia uno dei più bei posti mai visti al mondo. Per la magia che sprigiona, voglio credere che davvero sia un pezzo di Atlantide - il continente scomparso immaginato da Platone - che spunta dall’Oceano. E’ un’isola vulcanica posta a 700 km dalle coste del Marocco, sotto le Azzorre e sopra le Canarie. Appartiene al Portogallo. Winston Churchill ne era frequentatore abituale e per rilassarsi disegnava ad acquarello paesaggi fascinosi. E’ accarezzata dalla corrente del Golfo e questo le regala un clima sempre mite anche se un po' umido e una straordinaria e selvaggia vegetazione. E’ un inno alla bellezza della natura. E' detta il Regno dei Fiori, perchè ne è costellata in ogni dove. Lungo le strade ci sono cespugli di orchidee e di "uccelli del paradiso", cioè le strelizie (non "sterlizie" come  dice erroneamente la gente: vengono dal nome di Sophia Charlotte von Mecklemburg-Strelitz che divenne regina d'Inghilterra nel 1761 sposando Giorgio III); c'è l'incredibile "regina della notte", una sorta di cactus che fiorisce solo di notte e - dicono - una sola volta all'anno, in giugno. Churchill, dopo averne vista sbocciare una, scrisse: "Se le donne avessero il buon senso di imitare questo fiore, la vita degli uomini sarebbe molto più facile". E poi, dovunque, alberi di banane e di caffè.

L’acqua dell’Atlantico nel tempo ha scavato nelle antiche colate di lava scese fino a riva scenari di una bellezza incomparabile, piccoli laghetti di acqua sempre calda e fumante. All’interno, montagne maestose coperte di un verde intenso. Vedi vecchie casette dei residenti col tetto spiovente quasi fino a terra, piccoli villaggi decorati con gli azuleios, le caratteristiche piastrelle portoghesi, annusi un’aria pura e salutare, ascolti il silenzio. E ci sono distese sconfinate di vitigni arrampicati sulle alture che producono il celeberrimo Madeira, un vino liquoroso e dolce, unico al mondo per le caratteristiche conferitegli dal suolo vulcanico e dal clima. In casa ne ho ancora una bottiglia, mai stappata: forse sarebbe ora che lo facessi, è un vino da invecchiamento.
Meraviglioso è il giardino botanico vicino a Funchal, il capoluogo: una enorme distesa di piante e di profumi in cui ti ci perdi con gli occhi spalancati per lo stupore. A Funchal (dove fra l'altro è nato Cristiano Ronaldo), al centro di un giardino c’è una statua della principessa Sissi: era una che viaggiava molto e se pensava al Paradiso partiva dal suo castello di Neuschwanstein e andava a Madeira. C'è stata due volte, nel 1862 e nel 1883. Immagino ci mettesse un sacco di tempo. Adesso ci vai in 4 ore d’aereo da Bologna. Giuro che nessuno mi ha pagato per magnificare Madeira in questo modo: è solo che mi è rimasta nel cuore.


domenica 10 novembre 2013

LUOGHI E CITTA' - La mia Bologna


Bologna è una città da amare. E’ di dimensioni vivibili e ha nemmeno 380.000 abitanti: in 20-25 minuti di tangenziale vai da sud a nord, da San Lazzaro a Casalecchio. E’ adagiata sotto le ultime colline dell’Appennino ed è titolare di  molti record mondiali. E’ detta “la dotta”: perché ha la più antica università del mondo (è del 1088). E’ detta “la grassa”: perché come si mangia qui non si mangia da nessuna altra parte, la ricetta originale dei tortellini (qui nati nel 1664) è conservata alla Camera di Commercio; il ragù “alla bolognese” è celebre nel mondo. E’ detta “la turrita”: perché mai in nessun’altra città ci sono state tante torri. Nel 1100 ne furono costruite 100, ne restano 34, le due più famose sono l’Asinelli (alta 97,20 mt) e la Garisenda (quella che pende più di quella di Pisa). E’ detta “la rossa”: perché le case più antiche erano fatte di mattoni rossi anche se poi questa caratterizzazione è stata accostata ai sindaci di sinistra del dopoguerra. 
E’ la città con più portici al mondo: nel solo centro storico ce ne sono per 38 km; il portico più famoso è quello che conduce fin su al Colle della Guardia (352 m di altitudine) alla basilica di San Luca, con 666 arcate (foto qui a sinistra); quello più spettacolare è di Casa Isolani, fatto nel 1250 con travi di rovere alte 9 mt  (in legno ce ne sono altri 8) e in cui sono ancora conficcate tre frecce lanciate da non si sa quali arcieri (foto in basso a destra). Ha il centro storico di origine medioevale più vasto d’Europa. Nella Basilica di San Petronio c’è la più grande meridiana del mondo, costruita a metà del 1500. Ha dato alla storia 5 Papi. Ha un sottosuolo straordinario fatto di percorsi semisconosciuti e di canali che in alcuni tratti sono ancora alla luce: un tempo collegavano la città al Po e a Venezia.

Bologna ha anche gente straordinaria: per la bonarietà, la cultura, la generosità e l'umiltà; quando al cinema o in tv ti propongono un tipo simpatico gli danno la cadenza bolognese con la “esse” pronunciata. Forse per questo, per naturale ritrosia, Bologna non ha mai avuto la fama turistica di cui gode ad esempio Firenze. O forse anche perché è situata strategicamente in uno snodo fondamentale per le comunicazioni fra sud e nord: treni, auto e anche aerei passano di qui, se vuoi andare da qualche parte. E la gente si ferma solo per mangiare un piatto di tortellini o di lasagne, non sapendo che cosa si perde. 
Quella che ricordo è la Bologna della mia gioventù, perché adesso – pur conservando le sue prerogative – è tutt’altra cosa, anche se un sondaggio di fine novembre 2013 la colloca al terzo posto fra le città italiane per qualità della vita. Come dovunque ci sono incivili che credendosi artisti imbrattano muri, altri che di notte schiamazzano, urinano e bevono nelle vie del centro, e ci sono fantasmi che non ti fanno sentire tranquilli. Per dire: davanti alla Basilica di San Petronio, in pieno centro, da anni staziona una pattuglia di Carabinieri: per prevenire eventuali attentati a causa di un affresco di Maometto all’inferno del 1400 stampato sul soffitto di una cripta. Una volta la Fiera di Bologna era un evento, adesso non più. L'ha abbandonata persino il Motor Show, che nel 2013 ha dato forfait, tornerà a fine 2014 spartendosi il bisiness con Modena). Una volta si cantava, in dialetto: “Oh Bulaggna oh Bulaggna / la città mia più bella sei tu”. Adesso questa canzoncina non la conosce nessuno. Ecco il testo completo: 

C’e’ chi dice che e’ bella Milano 
c’e’ chi ammira l’antica Venezia
c’e’ chi esalta Trieste e Torino 
chi Perugia, Rapallo e La Spezia.
C’e’ chi dice d’andare a Firenze 
se là vuoi veder la beltà. 
Io rispondo: ch’al vegna a Bulåggna
ch’le’ dal månd la pio bela zite’. 
Oh Bulåggna Oh Bulåggna 
la citta’ mia piu’ bella sei tu.
Oh Bulåggna Oh Bulåggna
le due torri, San Luca e non piu’
San Petronio coi bianchi gradini 
La magnifica e bela piazola
di Re Enzo il palazzo Isolani
e al Minghetti magnifica scola
il Nettuno, D’Azeglio, il Pratello
al palaz in duv i’ era al Pudste’.
A Bologna c’e’ tutto di bello 
L’e’ dal månd la pio’ bela zite’

sabato 9 novembre 2013

COSE MIE / PERSONE E FATTI

UNA CARRIERA DI CORSA
Ho suddiviso la mia vita professionale essenzialmente in tre canali: un quotidiano, “Stadio”; un settimanale, “Guerin Sportivo”; libri, 20. Il quotidiano è stata un’esperienza adrenalinica, esaltante: perché per mia fortuna l’ho vissuta più come facitore del giornale che come scribacchino. La mattina, dopo aver sfogliato la “mazzetta” della stampa, impostavi il lavoro basandoti sugli avvenimenti del giorno, pronto però a scombussolare tutto se succedeva qualcosa di straordinario, tipo cacciata di un allenatore. Il pomeriggio pensavi già all'edizione del giorno dopo, ideavi interviste o inchieste o servizi speciali. La sera, in occasione di importanti incontri di boxe o partite notturne di calcio, ti preparavi alla “ribattuta”, che vuol dire buttare via servizi già impaginati per sostituirli con la cronaca fresca degli eventi. Un lavoro creativo che mi impegnava dalla mattina alle 10.30 alle 11 di sera, praticamente sette giorni su sette. Si lavorava anche il 26 dicembre e il primo dell’anno: qualcuno arrivava ancora in smoking . 
Il periodico è stato fisicamente meno faticoso ma  molto affascinante, trattandosi del Guerin Sportivo. Un giornale speciale, carico di storia, la cui confezione era spalmata lungo la settimana e suddivisa in “sedicesimi” (16 pagine alla volta), la domenica invece si faceva un “trentaduesimo” dedicato ai campionati. Solo da pensionato mi sono reso conto che in un anno – nell’arco di tutta la carriera - sarò stato con la mia famiglia 3-4 domeniche, quelle delle feste comandate. 
Al Guerino – testata centenaria - ho avuto il tempo di studiarmene ogni numero, ogni supplemento, dal 1912 al 2012: la storia di questo giornale è così intrigante e suggestiva per le implicazioni storiche, sociali, letterarie che alla fine – autunno 2012 – ne ho fatto un libro. Il mio ultimo libro. Adesso non avrei più la forza, la testa, la voglia di fare altro.






I MIEI PORTIERI
Quel ruolo mi ha sempre affascinato: è l’estremo difensore, se sbaglia lui è gol. Invece di calciare, vola. E’ coraggioso: si butta nelle mischie quasi con incoscienza. Per questo, quando giocavo a calcio, mi venne istintivo mettermi fra i pali. Il primo a impressionarmi fu Ottavio Bugatti, un lombardo che allora (anni 50) giocava nella Spal. Gli scrissi chiedendogli una foto e nella busta misi il francobollo per la risposta. Mi mandò una fotografia autografata (per la miseria, non la trovo più!!!) e mi rispedì il francobollo. Poi conobbi Giorgio Ghezzi, romagnolo, detto “il kamikaze” perché fu il primo a “uscire” dalla porta e a scaraventarsi fra i piedi degli attaccanti avversari. Lo rividi nel 1970, quando andai nel suo “Peccato Veniale”, un night di Cesenatico, per vedere assieme a lui e ai suoi ospiti Italia-Germania Ovest del Mondiale e farne un servizio per il giornale. Dici Ghezzi e ricordi Lorenzo Buffon (foto sopra), friulano, suo antagonista nella vita e nello sport: era uno che volava, era spettacolare, con qualcosa di grande nell’anima. Faceva il portiere ma dipingeva già, da autodidatta. Due anni fa mi ha regalato un bellissimo quadro che ho appeso nel mio studio: All’amico Paolo, dice la dedica. 
Un sentimento particolare nutro per Claudio Taffarel, portiere brasiliano, con radici a Oderzo, nel Veneto. Nel 1990 - a 24 anni - fu acquistato dal Parma, primo portiere straniero in una nostra squadra, per motivi commerciali: era testimonial Parmalat nel suo paese. Portiere poco spettacolare, dotato di grande freddezza e senso della posizione, efficacissimo specie sui rigori. Nel 1994 sarebbe diventato campione del mondo col Brasile. L'ho conosciuto bene nel 1993 perchè con lui ho scritto il manuale "Come diventare portiere". Ho frequentato la sua casa a Parma (con lui, la moglie Andrea e due cani, John e Marilyn) per parecchi mesi, scoprendo un uomo vero pieno di sentimento e di purezza. Era un cattolico fervente: volle che il libro fosse stampato su carta riciclata e che i proventi delle vendite fossero destinati ai bambini di Padre Giorgio Paiusco (Belem, Parà) e di Don Onesto Costa (Primavera del Este, Mato Grosso).

UOMINI VERI 
Nella mia vita professionale ho incontrato e conosciuto moltissime persone, da atleti di sport diversi a presidenti del Coni, da presidenti di società sportive a editori e giornalisti. Mi piace ricordarne due perché in qualche modo mi sono rimasti dentro. Renato Bulfon: friulano schivo e di poche parole, proprietario a Mortegliano di un negozio di bici che ha trasformato in una specie di museo, collezionista di memorabilia ma soprattutto di testimonianze giornalistiche. Ha tutto e di più su quanto i giornali nel tempo hanno scritto di sport e campioni; un tipo preziosissimo per uno come me, sempre in cerca di documentazioni per i miei libri. Mi è rimasto dentro per la sua ritrosia a esibirsi, a comparire, per la passione autentica espressa nel confronti dello sport. 
Un altro è Giancarlo Brocci, senese di Gaiole in Chianti, estroverso quanto geniale, laureato in medicina ma operativo per un solo giorno in tutta la sua vita: il resto lo ha passato a a fare politica e soprattutto a recuperare il ciclismo più puro, la passione più vera per la fatica in bicicletta, quella delle “strade bianche”; lui stesso è cicloturista di lungo corso, si è fatto anche una Parigi-Brest-Parigi per amatori. Ha inventato l’Eroica (scampagnata da 15.000 partecipanti di tutto il mondo, con bici e abbigliamento d'epoca) e il Giro Bio (per dilettanti allo stato puro). Mi è rimasto dentro per la sincerità e la purezza dei suoi ideali. Recentemente ha aperto un blog: giancarlobrocci.it. Andate a leggerlo e non fate caso al titolo "Un perdente di successo". Lui è un vincente.

SERGIO NERI, UN GENIO
Romagnolo di Rimini, spinto da un innato spirito dell'avventura e appassionato alle storie dell'uomo, un giorno se ne andò a Roma. Lavorò per un paio di quotidiani, girò il mondo al seguito degli eventi più diversi: da inviato fece servizi sugli astronauti, sui primi voli lunari, sulla democrazia dei giovani svedesi, sulle tribù selvagge africane. Trovò la sua strada avvicinandosi al ciclismo, che era avventura agonistica ma soprattutto umana. Nel 1976, a 42 anni, fondò "Bicisport", il primo giornale ad avere come titolo un acronimo: BS (nella foto a destra uno dei primi numeri). Lavorava anche al Corriere dello Sport, ne sarebbe diventato direttore, ma intanto dilatava il suo interesse per le storie del ciclismo: di lì a poco sarebbero nati anche CT (Cicloturismo) e Mtb (Mountain bike) e avrebbe condensato i suoi tre mensili nella Compagnia Editoriale, che poi si sarebbe arricchita di altre iniziative come supplementi, "speciali", almanacchi, Club. 
Oggi BS è il periodico di ciclismo più venduto al mondo. Conobbi Neri quando per un breve periodo fu direttore di Stadio-Corriere dello Sport. Mi colpirono la sua sensibilità, l'onestà, la fantasia, l'entusiasmo, la genialità nel produrre idee. E ovviamente la sua passione autentica e pura per gli uomini del ciclismo. Ancora adesso che non è più giovanissimo, frulla come un matto dietro alle sue iniziative, instancabile ed entusiasta come lo era da giovane. Per lungo tempo ho collaborato a BS, per Neri ho scritto tre libri: Un certo Coppi, Bartali & Togliatti, L'Italia di Coppi e Bartali che dopo oltre trent'anni sono ancora venduti. E lui puntualmente mi fa mandare i miei "diritti", fossero anche 5-10 euro, a differenza di altri editori che si spacciano per gente seria ma che non onorano i contratti. Neri lo avrò sempre nel cuore. 




























STEINBECK, IL MITO

Fin da piccolo avevo deciso di fare il giornalista e lo scrittore, suggestionato dalle numerosissime letture di ogni genere che mia madre mi aveva sollecitato (mi portava in una vecchia libreria e comprava libri usati). Poco dopo aver cominciato a firmare per un giornale, La Notte, 1961, andavo confidando agli amici con presunzione e incoscienza che nel 1986 avrei vinto il Nobel per la letteratura! Chissà perché il 1986, però ricordo che l’anno scelto per la gloria era quello. Ovviamente non ho vinto il Nobel, sono rimasto uno scribacchino, un parolaio anche se ho scritto parecchio. Ho sempre invidiato gli scrittori che mi hanno trasmesso qualcosa: ma come facevano a entrarti così nell’anima!? Perché riuscivano a coinvolgerti nei loro romanzi? Qual era il segreto? Mai saputo, mai individuato. 
Il mio eroe – l’ho già scritto da qualche altra parte – era John Steinbeck, un californiano nato nel 1902 e morto nel 1968. Lui sì che vinse il Nobel: nel 1962. Mi piacevano le sue storie crude, di denuncia, scritte con semplicità suggestiva. Era considerato uomo di sinistra perché trattava temi sociali, il lavoro, lo sfruttamento della povera gente. Ricordo che divoravo Pian della Tortilla, Uomini e Topi, Furore, La Valle dell’Eden. Ancora adesso ne rileggo qualche pagina, ogni tanto, e sempre mi meraviglio della sua efficacia narrativa: mai un aggettivo di troppo, mai una parola inutile, solo concretezza affascinante. Un grande. Perchè a differenza di altri, tutto ciò che ha scritto è capolavoro. Sempre attuale. Leggetelo.

IL LATINO DI DALL'ARA
Renato Dall’Ara, un industriale reggiano di modestissime origini trapiantato a Bologna, fu presidente della società rossoblù per 30 anni, dal 1934 al 1964. Di lui in redazione a “Stadio” si raccontavano episodi gustosi (o forse erano leggende) che dovevano testimoniare i suoi tentativi di elevarsi da un livello culturale molto basso. Un giorno, a inizio campionato, parlò alla squadra. E disse: “Per la parte economica, sine qua non, siamo qua noi. Per la parte tecnica fiat lux, il mister, faccia lui”.

GLI SCHERZI DI COMASCHI
Giorgio Comaschi, giornalista bolognese di sport, spettacolo e costume, conduttore televisivo, e attore, cominciò la sua carriera a “Stadio”. E subito esibì la sua vena umoristica in redazione. Ricordo che quando squillava un telefono si precipitava a rispondere. A chi gli chiedeva se c’era il direttore o il tal giornalista, rispondeva con grande naturalezza: “No, mi spiace, ma è in giro a imbiancare il corridoio”. Oppure: “Adesso è occupato, sta spolverando le scrivanie”, "No, è fuori col camion".

QUEL TIRO DEL PIVA
Un sorriso che non dimentico mai è quello rivoltomi da Gino Pivatelli, grande centravanti del Bologna e della Nazionale. Avevo 16 anni, giocavo nei ragazzi rossoblu assieme a Bulgarelli, ai figli di Schiavio e di Sansone, qualche volta assieme anche a Pascutti che era un po' più grande. Facevo il portiere. A quei tempi, a metà degli Anni 50, la prima squadra il giovedì si allenava allo stadio in una partita vera contro i ragazzi. Per noi, robe da farti tremare le gambe, occasione di emozioni inenarrabili. Il mio gran giorno fu quello in cui parai una sventola angolata del leggendario Pivatelli: tirò dal limite dell'area indirizzando il pallone di cuoio nel "sette" alla mia destra. Ricordo che ero concentratissimo, teso. Istintivamente mi misi in volo e con la punta delle dita riuscii a deviare quel pallone sopra la traversa. Ricordo anche che Bulgarelli mi battè le mani. Il Piva non smise di correre, venne verso di me che ero atterrato dopo il volo: mi diede una manata sulla testa e mi fece un sorriso grande come una casa, sincero. Mi disse: "Sei stato bravo!".

LO SCOOP SU GIACOMINO
Nel mio percorso professionale ho fatto tre “scoop” (tutti per il quotidiano “Stadio”), cioè ho dato notizie che nessun altro aveva. Uno quando intervistai Nadia Comaneci, a Bologna quasi in incognito (leggi il relativo Amarcord). Un altro quando a Pechino ottenni un colloquio privato con He Zhenliang, divenuto poi vicepresidente del Cio, che mi annunciava il futuro esplosivo dello sport cinese. Un altro ancora (il primo in ordine temporale, è del 1973 o 74) quando diedi un clamoroso “buco” a tutta la stampa nazionale. Giulio C.Turrini, caposervizio calcio del giornale, mi disse di andare a intervistare Pesaola, allenatore del Bologna e mi anticipò  con uno sguardo complice una stupefacente notizia: Bulgarelli – numero 8 da sempre - avrebbe giocato da “libero”. Glielo aveva detto in confidenza lo stesso Pesaola e Turrini aveva voluto regalarmi lo scoop. Feci l’intervista al “Petisso” (così veniva chiamato il mister), e lui mi spiegò il perché di quella decisione presa su sollecitazione di Giacomino stesso. Il giorno dopo, sogghignando più che sorridendo, affrontai il livore dei colleghi delle altre testate. Ancora adesso sorrido pensando al gesto di stima e di affetto che il grande Turrini aveva voluto regalare a me, giovanissimo redattore.
LO SPONSOR DEL GAS
Akragas è il nome greco di Agrigento. La società di calcio locale con questo nome nacque nel 1939 e dopo varie vicissitudini è ancora attiva, milita nel girone I della Serie D. Mi sbalordii il giorno in cui sentii un giornalista sportivo della radio dire uno sproloquio tale da rotolarsi in terra per le risate: si meravigliava che quella squadra avesse preso addirittura il nome dallo sponsor, una fantomatica società di distribuzione del gas. Giuro che è vero.