Mi fa molto arrabbiare
il fatto che si parli più dei gay e delle lesbiche che dei disabili. Sia
chiaro, non ho niente contro gli omosessuali: da piccolo avevo un cugino gay e
da grande fra gli amici più cari due erano gay, un caro amico di mio figlio è omosessuale. Però non sopporto che nella
comunicazione venga dato enorme risalto alle manifestazioni per i diritti degli
omosessuali mentre attorno ai disabili cala un silenzio ipocrita e vigliacco. Con qualche minima eccezione: il Corriere della Sera a inizio 2012 ha istituito il blog Corriere.it Invisibili, che però resta sempre e solo una discussione interna. Leggo a inizio 2014 che "il governo è a rischio sulla questione dei matrimoni gay". La trovo una cosa oscena, offensiva. Così come il fatto che a Sochi, sede dei Giochi Olimpici Invernali, 2014, si sia parlato più di gay che di sport: per dire, Luxuria è andata apposta a Sochi per sbandierare uno striscione a favore dei gay. A "C'è posta per te" di Maria de Filippi c'è stato il primo bacio in diretta fra due uomimi. E al Festival di Sanremo 2014 è stato ospite tale Rufus, che Elton John definisce il più gande cantautore, con la canzone "Gesù Cristo è un gay": idiota, oltre che bestemmiatore. I
problemi dei disabili sono un milione di volte più gravi di quelli dei gay,
attorno a loro ruota un invisibile mondo di solidarietà che però non basta ad
alleviarne il percorso di vita. Perché a fianco c’è anche un mondo altrettanto vasto di
indifferenza. Basti pensare alla tranquillità di chi occupa il parcheggio di un
disabile, al menefreghismo di chi fa costruire un ascensore in cui non può
entrare una carrozzella, alle barriere insulse che si oppongono al passaggio di
un disabile. A metà dicembre 2013 un corteo di malati di Sla a Roma aveva bloccato il traffico: molti automobilisti inviperiti gli hanno urlato di levarsi dai coglioni. A gennaio 2014 a Reggio Calabria hanno detto che negli asili nido non ci sono posti per bambini disabili: mancano gli insegnanti di sostegno. Una vergogna. Un gay è gay e basta, pur con tutti i suoi problemi. Un disabile ha mille sfaccettature di inabilità.
Eppure i media propagandano con gran clamore le manifestazioni dei
primi e ignorano le battaglie quotidiane degli altri. In tv è una gara ad ospitare gay, a solidarizzare con loro, ad “accettarli”. Vorrei
vedere in primo piano altrettanti disabili. Ma no, non li chiamano, pare quasi che
diano fastidio. E' come quando si ha paura di un problema e allora lo si ignora. Nei loro confronti c’è una sorta di indifferenza, quasi di
repulsione, che maschera disagio e grande vigliaccheria. Si parla delle vessazioni dei
gay ma non di quelle dei disabili, che sono anche oggetto di altre cialtronate
indicibili. Nessuno si finge gay, moltissimi si fingono disabili: i gay
dilagano in televisione, i falsi disabili dilagano nelle strade. Una volta
beccati, sarebbero da bastonare e dopo, solo dopo, da sbattere in galera. Assieme ai medici che li certificano.
martedì 26 novembre 2013
lunedì 25 novembre 2013
AMARCORD - Anthony Quinn
In redazione, a “Stadio”,
passavano sempre personaggi famosi, non necessariamente dello sport. Non
ricordo perché arrivassero o chi li portasse lì e se fossero davvero
interessati a quello che veniva loro mostrato, dalla redazione alla tipografia.
Forse perché “Stadio” nel suo piccolo era davanti agli altri per tecnologia (fu
il secondo giornale ad adottare l’offset, una nuova tecnica di stampa, dopo il Messaggero Veneto, e il primo a pubblicare foto a colori) e
quindi era interessante da scoprire. Una volta venne Nicola Di Bari, il
cantante. Un’altra volta arrivò Anthony Quinn, il grandissimo Antony Quinn di
Zorba il greco e di tanti altri film. Forse era il 1976. Aveva una sessantina d'anni, messicano di nascita parlava bene l'italiano per aver lavorato molto a Cinecittà. Di lui mi ricordo bene, perché pareva
davvero interessato a quello che vedeva. Faceva domande e questo mi sembrò
essere indice di sincerità. Voleva sapere come nasceva il giornale e come
veniva realizzato, come veniva impaginato. C’è una foto, che mostro come
testimonianza di quel che dico: è davanti a una pagina in via di esecuzione, si
rivolge a me (quello con le mani in tasca di fronte a lui; al centro della foto c'è Adalberto Bortolotti, che era direttore di "Stadio", grandissimo giornalista) per sapere il perché
della disposizione degli articoli e conoscere il seguito del processo di
realizzazione del giornale. Dopo andammo al bar e lui continuò a fare domande.
Un tipo cordiale, aperto, curioso e quindi intelligente. Sono felice di averlo
conosciuto.
PER RIDERE - Cappuccett Red
THE BELLISSIM STORY OF CAPPUCCETT RED
Non so chi ne sia il geniale autore, ma da anni circola questa favola in inglese maccheronico:
One mattin
Cappuccet Red's mamma dissed: "Dear Cappuccett, take this cest to the
nonn, but attention to the lup that is very ma very kattiv! And torn prest!
Good luck! And in bocc at the lup!".
Cappuccett
didn't cap very well this ultim thing but went away, da sol, with the cest.
Cammining
cammining, in the cuor of the forest, at acert punt she incontered the lup, who
dissed:
"Hi!
Piccula piezz'egirl! 'Ndove do you go?".
"To the
nonn with this little cest, which is little but it is full of a sacc of
chocolate and biscots and panettons and more and mirtills", she dissed.
"Ah,
mannagg 'a Maruschella (maybe an expression com: what a cul that had)" dissed
the lup, with a fium of saliv out of the bocc.
And so the lup dissed:
"Beh,
now I dev andar because the telephonin is squilling, sorry."
And the lup
went away, but not very away, but to the nonn 's House.
Cappuccett
Red, who was very ma very lent, lent un casin, continued for her sentier in the
forest.
The lup arrived
at the house, suoned the campanel, entered, and after saluting the nonn, magned
her in a boccon. Then, after sputing the dentier, he indossed the ridicol night
beret and fikked himself in the let.
When
Cappuccett Red came to the fint nonn's house, suoned and entered. But when the
little and stupid girl saw the nonn (non was the nonn, but the lup, ricord?)
dissed:
"But
nonn, why do you stay in let?".
And the
nonn-lup:
"Oh,
I've stort my cavigl doing aerobics!".
"Oh,
poor nonn!", said Cappuccett (she was more than stupid, I think, wasn't
she?).
Then she
dissed:
"But...what
big okks you have! Do you bisogn some collir?".
"Oh, no!
It's for see you better, my dear (stupid) little girl", dissed the
nonn-lup.
Then
cappuccett, who was more dur than a block of marm:
"But
what big oreks you have! Do you have the Orekkions?".
And the nonn-
lup:
"Oh, no!
It is to ascolt you better".
And
Cappuccett (that I think was now really rincoglionited) said:
"But
what big dents you have!".
And the lup,
at this point dissed:
"It is
to magn you better!".
And magned
really tutt quant the poor little girl.
But (ta dah!)
out of the house a simpatic, curious and innocent cacciator of frod sented all
and dissed:
"Accident!
A lup! Its pellicc vals a sac of solds".
And so,
spinted only for the compassion for the little girl, butted a terr many kils of
volps, fringuells and conigls that he had ammazzed till that moment, imbracced
the fucil, entered in the stanz and killed the lup.
Then squarced
his panz (being attent not to rovin the pellicc) and tired fora the nonn (still
viv) and Cappuccett (still rincoglionited).
And so, at
the end, the cacciator of frod vended the pellicc and guadagned honestly a sacc
of solds.
The nonn
magned tutt the leccornies that were in the cest.
And so, everybody
lived felix and content (maybe not the lup!).
giovedì 21 novembre 2013
I CIALTRONI - LO SCHERZO GENIALE
Quell’ormai famoso cartello appeso davanti
all’ufficio Gestione Verde Urbano del Comune di Roma a metà novembre 2013 e in cui si invitava la
gente a non rompere le scatole agli impiegati agli sportelli altrimenti
sarebbero volati insulti, a me ha fatto ridere. Lo trovo geniale. In un momento
di crisi come questo, qualcuno ha trovato il modo di scherzare. Penso che
una cosa così non sarebbe mai successa in Inghilterra o in Norvegia, dove non sanno ridere.
Era un cartello talmente improbabile e assurdo che avrebbe dovuto subito
riscuotere un sorriso e invece nei più ha suscitato feroce indignazione, sollecitata da un giornalismo ormai abituato a rincorrere il sensazionalismo senza
approfondire. Se facessi ancora il mio mestiere mi sarei dato daffare per
scoprirne gli autori e per farmi una risata assieme a loro. Invece ci si è
fermati all’apparenza e adesso qualcuno forse pagherà per la “goliardata”, come era
stata subito definita dal vicesindaco di Roma. Nei giorni successivi allo sdegno è esplosa poi un’ondata di ipocrisia. Ah sì? Era una goliardata?
Ecco, gli impiegati comunali sono dei fannulloni, dei mangiapane a tradimento,
invece di lavorare stanno lì a inventarsi queste cose! Che razza di cialtroni
siamo! Ma nessuno di quelli che hanno protestato ha mai scherzato sul posto di
lavoro?! Nessuno dei giornalisti che ha riportato la notizia si è mai fatto una risata alle spalle di altri? Da altra parte ho già ricordato che in redazione a "Stadio" Giorgio Comaschi era solito rispondere al telefono: "Il direttore? No, non c'è, sta imbiancando i corridori!". Dino Biondi, il direttore di allora, quando lo seppe si fece una risata. La realtà è che abbiamo perso il senso dell’umorismo. E questo sì che
fa tristezza, mica quel cartello che era solo uno scherzo ben riuscito.
LO SCHERZO CRETINO
In Argentina a inizio 2014 sono stati messi in commercio da Carrefour dei budini fra i cui ingredienti figuravano anche 12 grammi di cocaina. Chi se ne è accorto ha subito pensato ad un errore, altri sono rimasti sbaloriti. La famosa azienda ha ritirato dai negozi i budini incriminati e ha attribuito la scritta allo "scherzo di cattivo gusto" di un impiegato di un'azienda fornitrice. Ovviamente, ha precisato, nei dolci non c'è alcuna traccia di cocaina.
LO SCHERZO CRETINO
In Argentina a inizio 2014 sono stati messi in commercio da Carrefour dei budini fra i cui ingredienti figuravano anche 12 grammi di cocaina. Chi se ne è accorto ha subito pensato ad un errore, altri sono rimasti sbaloriti. La famosa azienda ha ritirato dai negozi i budini incriminati e ha attribuito la scritta allo "scherzo di cattivo gusto" di un impiegato di un'azienda fornitrice. Ovviamente, ha precisato, nei dolci non c'è alcuna traccia di cocaina.
sabato 16 novembre 2013
LUOGHI E CITTA' - Portogallo, la suggestione
Il Portogallo è la parte più occidentale
dell’Europa: dopo, c’è l’Oceano Atlantico che porta ad altri mondi. Un viaggio
in questa terra ti arricchisce. Ci sono stato per otto giorni una quindicina di
anni fa e ancora conservo vividi ricordi. Nell’aria che respiri cogli un
sentimento di libertà, di nostalgia, la saudade
per avventure lontane. Il fado, la
tipica armonia di queste parti, è il suono del Portogallo, intriso di malinconia, ne riassume bene lo spirito. Come la risacca
delle onde che vengono da lontano contro spiagge e scogli. O come il Porto, un
vino liquoroso che va bevuto dopo 10 o 20 o addirittura 40 anni
dall’imbottigliamento e che va centellinato lentamente, ad occhi chiusi. La voce di Amalia Rodriguez, leggendaria interprete del fado, per anni ha riassunto in maniera perfetta questa atmosfera. La
capitale del Portogallo è Lisbona, sulle foce del fiume Tago: la Torre di
Belem (foto sopra) ricorda che da qui alla fine del 1400 partì Vasco da Gama per andare alla
scoperta delle Indie e di altri orizzonti: il Brasile parla portoghese, per
dire.
Lisbona ha nemmeno mezzo milione di abitanti, dal mare sale fin sulle
colline, ci puoi andare con un tram che arranca lentamente attraverso viuzze
strette. E’ una città che ti sorprende ad ogni angolo e che va visitata adagio.
Magari fermandosi ogni tanto in una delle numerose pastelerias dove fanno i
celeberrimi pasteis, piccoli canestri
di pasta sfoglia ripieni di crema cotta al forno. Così amava fare anche
Fernando Pessoa, enigmatico poeta e scrittore portoghese la cui statua lo raffigura
seduto a un tavolino di marmo in mezzo ad altri tavoli veri (foto sotto a destra). Farsi fotografare
seduti accanto a Pessoa è quasi un obbligo.
In giro c’è gente aperta, disponibile ma seria. Una caratteristica che ritrovi nella luce degli azuleios
che ricoprono case o chiese: uno sfondo di
piastrelle di ceramica sulle quali sono state disegnate scene di vita o di
carattere religioso. Ne comprai tre, di queste piastrelle, con incise le iniziali mie, di mia moglie e di mio figlio, le ho appiccicate davanti alla porta di casa.
Ti muovi da Lisbona e scopri cose straordinarie. Come le
scogliere dell’Algarve, costellate di campi da golf. O come Cascais, dove è
d’obbligo sostare per vedere la vecchia residenza dei reali d’Italia qui in
esilio e oggi trasformata in albergo lussuoso (foto a fianco). O come Nazarè, antichissimo e
pittoresco villaggio di pescatori dove sulla spiaggia vedi ancora uomini che
aggiustano le reti o preparano barche con i movimenti lenti di un tempo. Più su,
a 123 km da Lisbona, c’è Fatima (foto sotto), il luogo dove nel 1917 la Madonna apparve a
tre piccoli pastori preannunciando loro le sorti del mondo. E’ un posto magico attorno al
quale si coagula la sofferenza e la speranza del mondo. Anche per chi non
crede, come me, la suggestione è forte: inevitabile lasciarsi coinvolgere da
sentimenti di rispetto, serenità. C'è gente arrivata fin qui da ogni parte a pregare per la propria guarigione o a sperare in un miracolo o semplicemente per avvertire la presenza di Maria. Invidio chi ha questa fede, mi arrabbio con me stesso per non riuscire a credere, odio la ragione, il cervello, che mi costringe ad affrontare la vita con perversa razionalità.
venerdì 15 novembre 2013
LUOGHI E CITTA' - Amburgo, stupefacente
Conosco la Germania a menadito e penso che sia
turisticamente sottovalutata: Colonia, Friburgo, Monaco, Norimberga,
Baden-Baden, tutta la valle del Reno, la Foresta Nera sono delizie che nessuno
dovrebbe perdersi. Mi interessai alla Germania quando al liceo cominciai a
studiare il tedesco. Poi nel 1956 a Cattolica conobbi una ragazza di Amburgo,
Heike. Lei 17 anni, io 18. I suoi mi invitarono lassù, allora 17 ore di treno
da Bologna. Loro vennero da me. Lei si sposò, io mi sposai, ma la nostra
amicizia continuò con continue visite dei rispettivi famigliari. Ci vediamo,
telefoniamo e scriviamo da 57 anni!
Amo Amburgo, la definisco la mia seconda casa per esserci stato infinite volte. Città favolosa. Nata nell’810 come presidio al castello di Carlo Magno insidiato dagli slavi, è collocata sull’estuario del fiume Elba. Nel 1943 fu distrutta dai bombardamenti alleati. Rinacque più bella che mai. Oggi è la seconda città della Germania con 1.780.000 abitanti, il secondo porto europeo dopo Rotterdam, il reddito pro capite è il doppio di quello medio continentale.
Amo Amburgo, la definisco la mia seconda casa per esserci stato infinite volte. Città favolosa. Nata nell’810 come presidio al castello di Carlo Magno insidiato dagli slavi, è collocata sull’estuario del fiume Elba. Nel 1943 fu distrutta dai bombardamenti alleati. Rinacque più bella che mai. Oggi è la seconda città della Germania con 1.780.000 abitanti, il secondo porto europeo dopo Rotterdam, il reddito pro capite è il doppio di quello medio continentale.
Percorsa da una fitta rete di canali, bagnata da due laghi
(Aussenalster e Binnenalster), tragitta pedoni e automobili da una riva
all’altra dell’Elba attraverso due tunnel spettacolari. Il suo segno distintivo
è il St Michael, un altissimo campanile visibile a grande distanza. Ma Amburgo è
celebre anche per la zona di Blankenese lungo l'Elba, con le vecchie case di pescatori oggi
trasformate in ville di prestigio; lo stupefacente giardino botanico “Planten
un Blomen” allestito nel 1930 e adagiato su 47 ettari di terreno; lo zoo
Hagenbeck nato nel 1907 senza gabbie, esteso su 25 ettari con 7 km di sentieri;
lo Jungfernstieg, che è la strada dei negozi di lusso; il sontuoso Rathaus e la Reeperbahn, il quartiere dei night.
Qui nel 1961, al Tabù
della Grosse Freiheitstrasse (via della grande libertà) fecero la loro prima uscita da Liverpool i Beatles.
Posso dire che la mia “apertura mentale” nacque qui, in occasione dei miei
primi viaggi ad Amburgo. Per la prima volta venni a contatto con gente di ogni
tipo e di ogni colore, capii cosa significava l’internazionalità,
l’integrazione, il mondo. E conobbi una città stupenda: da non perdere.
giovedì 14 novembre 2013
LUOGHI E CITTA' - La magia di Madeira
Ci sono stato in vacanza con mia moglie nel 2002, per una settimana.
Credo che sia uno dei più bei posti mai visti al mondo. Per la magia che sprigiona,
voglio credere che davvero sia un pezzo di Atlantide - il continente scomparso immaginato da Platone - che spunta dall’Oceano. E’
un’isola vulcanica posta a 700 km dalle coste del Marocco, sotto le Azzorre e
sopra le Canarie. Appartiene al Portogallo. Winston Churchill ne era frequentatore abituale e per rilassarsi disegnava ad acquarello paesaggi fascinosi. E’ accarezzata dalla corrente del
Golfo e questo le regala un clima sempre mite anche se un po' umido e una straordinaria e selvaggia
vegetazione. E’ un inno alla bellezza della natura. E' detta il Regno dei Fiori, perchè ne è costellata in ogni dove. Lungo le strade ci
sono cespugli di orchidee e di "uccelli del paradiso", cioè le strelizie (non "sterlizie" come dice erroneamente la gente: vengono dal nome di Sophia Charlotte von Mecklemburg-Strelitz che divenne regina d'Inghilterra nel 1761 sposando Giorgio III); c'è l'incredibile "regina della notte", una sorta di cactus che fiorisce solo di notte e - dicono - una sola volta all'anno, in giugno. Churchill, dopo averne vista sbocciare una, scrisse: "Se le donne avessero il buon senso di imitare questo fiore, la vita degli uomini sarebbe molto più facile". E poi, dovunque, alberi di banane e di caffè.
L’acqua dell’Atlantico nel tempo ha scavato nelle antiche colate di lava scese fino a riva scenari di una bellezza incomparabile, piccoli laghetti di acqua sempre calda e fumante. All’interno, montagne maestose coperte di un verde intenso. Vedi vecchie casette dei residenti col tetto spiovente quasi fino a terra, piccoli villaggi decorati con gli azuleios, le caratteristiche piastrelle portoghesi, annusi un’aria pura e salutare, ascolti il silenzio. E ci sono distese sconfinate di vitigni arrampicati sulle alture che producono il celeberrimo Madeira, un vino liquoroso e dolce, unico al mondo per le caratteristiche conferitegli dal suolo vulcanico e dal clima. In casa ne ho ancora una bottiglia, mai stappata: forse sarebbe ora che lo facessi, è un vino da invecchiamento.
L’acqua dell’Atlantico nel tempo ha scavato nelle antiche colate di lava scese fino a riva scenari di una bellezza incomparabile, piccoli laghetti di acqua sempre calda e fumante. All’interno, montagne maestose coperte di un verde intenso. Vedi vecchie casette dei residenti col tetto spiovente quasi fino a terra, piccoli villaggi decorati con gli azuleios, le caratteristiche piastrelle portoghesi, annusi un’aria pura e salutare, ascolti il silenzio. E ci sono distese sconfinate di vitigni arrampicati sulle alture che producono il celeberrimo Madeira, un vino liquoroso e dolce, unico al mondo per le caratteristiche conferitegli dal suolo vulcanico e dal clima. In casa ne ho ancora una bottiglia, mai stappata: forse sarebbe ora che lo facessi, è un vino da invecchiamento.
Meraviglioso è il giardino
botanico vicino a Funchal, il capoluogo: una enorme distesa di piante e di
profumi in cui ti ci perdi con gli occhi spalancati per lo stupore. A Funchal (dove fra l'altro è nato Cristiano Ronaldo),
al centro di un giardino c’è una statua della principessa Sissi: era una che viaggiava
molto e se pensava al Paradiso partiva dal suo castello di Neuschwanstein e andava
a Madeira. C'è stata due volte, nel 1862 e nel 1883. Immagino ci mettesse un sacco di tempo. Adesso ci vai in 4 ore d’aereo
da Bologna. Giuro che nessuno mi ha pagato per magnificare Madeira in questo modo: è solo che mi è rimasta nel cuore.
domenica 10 novembre 2013
LUOGHI E CITTA' - La mia Bologna
Bologna è una città da amare. E’ di dimensioni
vivibili e ha nemmeno 380.000 abitanti: in 20-25 minuti di tangenziale vai da sud
a nord, da San Lazzaro a Casalecchio. E’ adagiata sotto le ultime colline
dell’Appennino ed è titolare di molti record mondiali. E’
detta “la dotta”: perché ha la più antica università del mondo (è del 1088). E’
detta “la grassa”: perché come si mangia qui non si mangia da nessuna altra parte, la
ricetta originale dei tortellini (qui nati nel 1664) è conservata alla Camera
di Commercio; il ragù “alla bolognese” è celebre nel mondo. E’ detta “la
turrita”: perché mai in nessun’altra città ci sono state tante torri. Nel
1100 ne furono costruite 100, ne restano 34, le due più famose sono l’Asinelli
(alta 97,20 mt) e la Garisenda (quella che pende più di quella di Pisa). E’ detta “la rossa”: perché le
case più antiche erano fatte di mattoni rossi anche se poi questa
caratterizzazione è stata accostata ai sindaci di sinistra del dopoguerra.
E’ la città con più portici al mondo: nel solo centro
storico ce ne sono per 38 km; il portico più famoso è quello che conduce fin su al Colle della Guardia (352 m di altitudine)
alla basilica di San Luca, con 666 arcate (foto qui a sinistra); quello più spettacolare è di Casa
Isolani, fatto nel 1250 con travi di rovere alte 9 mt (in legno ce ne sono altri
8) e in cui sono ancora conficcate tre frecce lanciate da non si sa quali
arcieri (foto in basso a destra). Ha il centro storico di origine medioevale più vasto d’Europa. Nella Basilica
di San Petronio c’è la più grande meridiana del mondo, costruita a metà del
1500. Ha dato alla storia 5 Papi. Ha un sottosuolo straordinario fatto di percorsi semisconosciuti
e di canali che in alcuni tratti sono ancora alla luce: un tempo collegavano la
città al Po e a Venezia.
Bologna ha anche gente straordinaria: per la
bonarietà, la cultura, la generosità e l'umiltà; quando al cinema o in tv ti
propongono un tipo simpatico gli danno la cadenza bolognese con la “esse”
pronunciata. Forse per questo, per naturale ritrosia, Bologna non ha mai avuto
la fama turistica di cui gode ad esempio Firenze. O forse anche perché è situata
strategicamente in uno snodo fondamentale per le comunicazioni fra sud e nord:
treni, auto e anche aerei passano di qui, se vuoi andare da qualche parte. E la
gente si ferma solo per mangiare un piatto di tortellini o di lasagne, non
sapendo che cosa si perde.
Quella che ricordo è la Bologna della mia gioventù,
perché adesso – pur conservando le sue prerogative – è tutt’altra cosa, anche se un sondaggio di fine novembre 2013 la colloca al terzo posto fra le città italiane per qualità della vita. Come
dovunque ci sono incivili che credendosi artisti imbrattano muri, altri che di
notte schiamazzano, urinano e bevono nelle vie del centro, e ci sono fantasmi che non ti
fanno sentire tranquilli. Per dire: davanti alla Basilica di San Petronio, in
pieno centro, da anni staziona una pattuglia di Carabinieri: per prevenire eventuali
attentati a causa di un affresco di Maometto all’inferno del 1400 stampato sul
soffitto di una cripta. Una volta la Fiera di Bologna era un evento, adesso non più. L'ha abbandonata persino il Motor Show, che nel 2013 ha dato forfait, tornerà a fine 2014 spartendosi il bisiness con Modena). Una volta si cantava, in dialetto: “Oh Bulaggna oh Bulaggna / la città mia più
bella sei tu”. Adesso questa canzoncina non la conosce nessuno. Ecco il testo completo:
C’e’ chi dice che e’ bella Milano
c’e’ chi ammira l’antica Venezia
c’e’ chi esalta Trieste e Torino
chi Perugia, Rapallo e La Spezia.
C’e’ chi dice d’andare a Firenze
se là vuoi veder la beltà.
Io rispondo: ch’al vegna a Bulåggna
ch’le’ dal månd la pio bela zite’.
Oh Bulåggna Oh Bulåggna
la citta’ mia piu’ bella sei tu.
Oh Bulåggna Oh Bulåggna
le due torri, San Luca e non piu’
San Petronio coi bianchi gradini
La magnifica e bela piazola
di Re Enzo il palazzo Isolani
e al Minghetti magnifica scola
il Nettuno, D’Azeglio, il Pratello
al palaz in duv i’ era al Pudste’.
A Bologna c’e’ tutto di bello
L’e’ dal månd la pio’ bela zite’
sabato 9 novembre 2013
COSE MIE / PERSONE E FATTI
UNA
CARRIERA DI CORSA
Ho suddiviso la mia vita professionale
essenzialmente in tre canali: un quotidiano, “Stadio”; un settimanale, “Guerin
Sportivo”; libri, 20. Il quotidiano è stata un’esperienza adrenalinica, esaltante:
perché per mia fortuna l’ho vissuta più come facitore del giornale che come scribacchino.
La mattina, dopo aver sfogliato la “mazzetta” della stampa, impostavi il lavoro
basandoti sugli avvenimenti del giorno, pronto però a scombussolare tutto se
succedeva qualcosa di straordinario, tipo cacciata di un allenatore. Il
pomeriggio pensavi già all'edizione del giorno dopo, ideavi interviste o inchieste
o servizi speciali. La sera, in occasione di importanti incontri di boxe o
partite notturne di calcio, ti preparavi alla “ribattuta”, che vuol dire
buttare via servizi già impaginati per sostituirli con la cronaca fresca degli eventi. Un
lavoro creativo che mi impegnava dalla mattina alle 10.30 alle 11 di sera,
praticamente sette giorni su sette. Si lavorava anche il
26 dicembre e il primo dell’anno: qualcuno arrivava ancora in smoking .
Il periodico è stato fisicamente meno faticoso
ma molto affascinante, trattandosi del Guerin Sportivo. Un
giornale speciale, carico di storia, la cui
confezione era spalmata lungo la settimana e suddivisa in “sedicesimi” (16
pagine alla volta), la domenica invece si faceva un “trentaduesimo” dedicato ai
campionati. Solo da pensionato mi sono reso conto che in un anno –
nell’arco di tutta la carriera - sarò stato con la mia famiglia 3-4 domeniche,
quelle delle feste comandate.
Al Guerino – testata centenaria - ho avuto il
tempo di studiarmene ogni numero, ogni supplemento, dal 1912 al 2012: la storia
di questo giornale è così intrigante e suggestiva per le implicazioni storiche, sociali, letterarie che alla fine – autunno 2012 –
ne ho fatto un libro. Il mio ultimo libro. Adesso non avrei più la forza, la
testa, la voglia di fare altro.
I MIEI PORTIERI
Quel ruolo mi ha sempre affascinato: è l’estremo
difensore, se sbaglia lui è gol. Invece di calciare, vola. E’ coraggioso: si
butta nelle mischie quasi con incoscienza. Per questo, quando giocavo a calcio,
mi venne istintivo mettermi fra i pali. Il primo a impressionarmi fu Ottavio
Bugatti, un lombardo che allora (anni 50) giocava nella Spal. Gli scrissi
chiedendogli una foto e nella busta misi il francobollo per la risposta. Mi
mandò una fotografia autografata (per la miseria, non la trovo più!!!) e mi rispedì il francobollo. Poi conobbi Giorgio Ghezzi, romagnolo, detto “il
kamikaze” perché fu il primo a “uscire” dalla porta e a scaraventarsi fra i
piedi degli attaccanti avversari. Lo rividi nel 1970, quando andai nel suo
“Peccato Veniale”, un night di Cesenatico, per vedere assieme a lui e ai suoi
ospiti Italia-Germania Ovest del Mondiale e farne un servizio per il giornale. Dici Ghezzi e ricordi Lorenzo
Buffon (foto sopra), friulano, suo antagonista nella vita e nello sport: era uno che volava,
era spettacolare, con qualcosa di grande nell’anima. Faceva il portiere ma
dipingeva già, da autodidatta. Due anni fa mi ha regalato un bellissimo quadro che
ho appeso nel mio studio: All’amico Paolo,
dice la dedica.
Un sentimento particolare nutro per Claudio Taffarel, portiere brasiliano, con radici a Oderzo, nel Veneto. Nel 1990 - a 24 anni - fu acquistato dal Parma, primo portiere straniero in una nostra squadra, per motivi commerciali: era testimonial Parmalat nel suo paese. Portiere poco spettacolare, dotato di grande freddezza e senso della posizione, efficacissimo specie sui rigori. Nel 1994 sarebbe diventato campione del mondo col Brasile. L'ho conosciuto bene nel 1993 perchè con lui ho scritto il manuale "Come diventare portiere". Ho frequentato la sua casa a Parma (con lui, la moglie Andrea e due cani, John e Marilyn) per parecchi mesi, scoprendo un uomo vero pieno di sentimento e di purezza. Era un cattolico fervente: volle che il libro fosse stampato su carta riciclata e che i proventi delle vendite fossero destinati ai bambini di Padre Giorgio Paiusco (Belem, Parà) e di Don Onesto Costa (Primavera del Este, Mato Grosso).
Un sentimento particolare nutro per Claudio Taffarel, portiere brasiliano, con radici a Oderzo, nel Veneto. Nel 1990 - a 24 anni - fu acquistato dal Parma, primo portiere straniero in una nostra squadra, per motivi commerciali: era testimonial Parmalat nel suo paese. Portiere poco spettacolare, dotato di grande freddezza e senso della posizione, efficacissimo specie sui rigori. Nel 1994 sarebbe diventato campione del mondo col Brasile. L'ho conosciuto bene nel 1993 perchè con lui ho scritto il manuale "Come diventare portiere". Ho frequentato la sua casa a Parma (con lui, la moglie Andrea e due cani, John e Marilyn) per parecchi mesi, scoprendo un uomo vero pieno di sentimento e di purezza. Era un cattolico fervente: volle che il libro fosse stampato su carta riciclata e che i proventi delle vendite fossero destinati ai bambini di Padre Giorgio Paiusco (Belem, Parà) e di Don Onesto Costa (Primavera del Este, Mato Grosso).
Nella mia vita professionale ho incontrato e
conosciuto moltissime persone, da atleti di sport diversi a presidenti del
Coni, da presidenti di società sportive a editori e giornalisti. Mi piace
ricordarne due perché in qualche modo mi sono rimasti dentro. Renato Bulfon:
friulano schivo e di poche parole, proprietario a Mortegliano di un negozio di bici che ha
trasformato in una specie di museo, collezionista di memorabilia ma soprattutto
di testimonianze giornalistiche. Ha tutto e di più su quanto i giornali nel tempo hanno
scritto di sport e campioni; un tipo preziosissimo per uno come me, sempre in
cerca di documentazioni per i miei libri. Mi è rimasto dentro per la sua
ritrosia a esibirsi, a comparire, per la passione autentica espressa nel
confronti dello sport.
Un altro è Giancarlo Brocci, senese di Gaiole in Chianti, estroverso quanto geniale, laureato in medicina ma operativo per un solo giorno in tutta la sua vita: il resto lo ha passato a a fare politica e soprattutto a recuperare il ciclismo più puro, la passione più vera per la fatica in bicicletta, quella delle “strade bianche”; lui stesso è cicloturista di lungo corso, si è fatto anche una Parigi-Brest-Parigi per amatori. Ha inventato l’Eroica (scampagnata da 15.000 partecipanti di tutto il mondo, con bici e abbigliamento d'epoca) e il Giro Bio (per dilettanti allo stato puro). Mi è rimasto dentro per la sincerità e la purezza dei suoi ideali. Recentemente ha aperto un blog: giancarlobrocci.it. Andate a leggerlo e non fate caso al titolo "Un perdente di successo". Lui è un vincente.
SERGIO NERI, UN GENIO
Romagnolo di Rimini, spinto da un innato spirito dell'avventura e appassionato alle storie dell'uomo, un giorno se ne andò a Roma. Lavorò per un paio di quotidiani, girò il mondo al seguito degli eventi più diversi: da inviato fece servizi sugli astronauti, sui primi voli lunari, sulla democrazia dei giovani svedesi, sulle tribù selvagge africane. Trovò la sua strada avvicinandosi al ciclismo, che era avventura agonistica ma soprattutto umana. Nel 1976, a 42 anni, fondò "Bicisport", il primo giornale ad avere come titolo un acronimo: BS (nella foto a destra uno dei primi numeri). Lavorava anche al Corriere dello Sport, ne sarebbe diventato direttore, ma intanto dilatava il suo interesse per le storie del ciclismo: di lì a poco sarebbero nati anche CT (Cicloturismo) e Mtb (Mountain bike) e avrebbe condensato i suoi tre mensili nella Compagnia Editoriale, che poi si sarebbe arricchita di altre iniziative come supplementi, "speciali", almanacchi, Club.
Oggi BS è il periodico di ciclismo più venduto al mondo. Conobbi Neri quando per un breve periodo fu direttore di Stadio-Corriere dello Sport. Mi colpirono la sua sensibilità, l'onestà, la fantasia, l'entusiasmo, la genialità nel produrre idee. E ovviamente la sua passione autentica e pura per gli uomini del ciclismo. Ancora adesso che non è più giovanissimo, frulla come un matto dietro alle sue iniziative, instancabile ed entusiasta come lo era da giovane. Per lungo tempo ho collaborato a BS, per Neri ho scritto tre libri: Un certo Coppi, Bartali & Togliatti, L'Italia di Coppi e Bartali che dopo oltre trent'anni sono ancora venduti. E lui puntualmente mi fa mandare i miei "diritti", fossero anche 5-10 euro, a differenza di altri editori che si spacciano per gente seria ma che non onorano i contratti. Neri lo avrò sempre nel cuore.
Un altro è Giancarlo Brocci, senese di Gaiole in Chianti, estroverso quanto geniale, laureato in medicina ma operativo per un solo giorno in tutta la sua vita: il resto lo ha passato a a fare politica e soprattutto a recuperare il ciclismo più puro, la passione più vera per la fatica in bicicletta, quella delle “strade bianche”; lui stesso è cicloturista di lungo corso, si è fatto anche una Parigi-Brest-Parigi per amatori. Ha inventato l’Eroica (scampagnata da 15.000 partecipanti di tutto il mondo, con bici e abbigliamento d'epoca) e il Giro Bio (per dilettanti allo stato puro). Mi è rimasto dentro per la sincerità e la purezza dei suoi ideali. Recentemente ha aperto un blog: giancarlobrocci.it. Andate a leggerlo e non fate caso al titolo "Un perdente di successo". Lui è un vincente.
SERGIO NERI, UN GENIO
Romagnolo di Rimini, spinto da un innato spirito dell'avventura e appassionato alle storie dell'uomo, un giorno se ne andò a Roma. Lavorò per un paio di quotidiani, girò il mondo al seguito degli eventi più diversi: da inviato fece servizi sugli astronauti, sui primi voli lunari, sulla democrazia dei giovani svedesi, sulle tribù selvagge africane. Trovò la sua strada avvicinandosi al ciclismo, che era avventura agonistica ma soprattutto umana. Nel 1976, a 42 anni, fondò "Bicisport", il primo giornale ad avere come titolo un acronimo: BS (nella foto a destra uno dei primi numeri). Lavorava anche al Corriere dello Sport, ne sarebbe diventato direttore, ma intanto dilatava il suo interesse per le storie del ciclismo: di lì a poco sarebbero nati anche CT (Cicloturismo) e Mtb (Mountain bike) e avrebbe condensato i suoi tre mensili nella Compagnia Editoriale, che poi si sarebbe arricchita di altre iniziative come supplementi, "speciali", almanacchi, Club.
Oggi BS è il periodico di ciclismo più venduto al mondo. Conobbi Neri quando per un breve periodo fu direttore di Stadio-Corriere dello Sport. Mi colpirono la sua sensibilità, l'onestà, la fantasia, l'entusiasmo, la genialità nel produrre idee. E ovviamente la sua passione autentica e pura per gli uomini del ciclismo. Ancora adesso che non è più giovanissimo, frulla come un matto dietro alle sue iniziative, instancabile ed entusiasta come lo era da giovane. Per lungo tempo ho collaborato a BS, per Neri ho scritto tre libri: Un certo Coppi, Bartali & Togliatti, L'Italia di Coppi e Bartali che dopo oltre trent'anni sono ancora venduti. E lui puntualmente mi fa mandare i miei "diritti", fossero anche 5-10 euro, a differenza di altri editori che si spacciano per gente seria ma che non onorano i contratti. Neri lo avrò sempre nel cuore.
Fin da piccolo avevo deciso di fare il giornalista
e lo scrittore, suggestionato dalle numerosissime letture di ogni genere che
mia madre mi aveva sollecitato (mi portava in una vecchia libreria e comprava libri usati). Poco dopo aver cominciato a firmare per un
giornale, La Notte, 1961, andavo confidando agli amici con presunzione e incoscienza che
nel 1986 avrei vinto il Nobel per la letteratura! Chissà perché il 1986, però
ricordo che l’anno scelto per la gloria era quello. Ovviamente non ho vinto il
Nobel, sono rimasto uno scribacchino, un parolaio anche se ho scritto parecchio.
Ho sempre invidiato gli scrittori che mi hanno trasmesso qualcosa: ma come
facevano a entrarti così nell’anima!? Perché riuscivano a coinvolgerti nei loro
romanzi? Qual era il segreto? Mai saputo, mai individuato.
Il mio eroe – l’ho
già scritto da qualche altra parte – era John Steinbeck, un californiano nato
nel 1902 e morto nel 1968. Lui sì che vinse il Nobel: nel 1962. Mi piacevano le
sue storie crude, di denuncia, scritte con semplicità suggestiva. Era
considerato uomo di sinistra perché trattava temi sociali, il lavoro, lo
sfruttamento della povera gente. Ricordo che divoravo Pian della Tortilla, Uomini e
Topi, Furore, La Valle dell’Eden. Ancora adesso ne
rileggo qualche pagina, ogni tanto, e sempre mi meraviglio della sua efficacia narrativa: mai un aggettivo di troppo, mai una parola inutile, solo concretezza affascinante. Un grande. Perchè a differenza di altri, tutto ciò che ha scritto è capolavoro. Sempre attuale. Leggetelo.
IL LATINO DI DALL'ARA
Renato Dall’Ara, un industriale reggiano di
modestissime origini trapiantato a Bologna, fu presidente della società
rossoblù per 30 anni, dal 1934 al 1964. Di lui in redazione a “Stadio” si
raccontavano episodi gustosi (o forse erano leggende) che dovevano testimoniare i suoi tentativi di
elevarsi da un livello culturale molto basso. Un giorno, a inizio campionato,
parlò alla squadra. E disse: “Per la parte economica, sine qua non, siamo qua
noi. Per la parte tecnica fiat lux, il mister, faccia lui”.
GLI SCHERZI DI COMASCHI
Giorgio Comaschi, giornalista bolognese di sport,
spettacolo e costume, conduttore televisivo, e attore, cominciò la sua carriera
a “Stadio”. E subito esibì la sua vena umoristica in redazione. Ricordo che
quando squillava un telefono si precipitava a rispondere. A chi gli chiedeva se
c’era il direttore o il tal giornalista, rispondeva con grande naturalezza:
“No, mi spiace, ma è in giro a imbiancare il corridoio”. Oppure: “Adesso è
occupato, sta spolverando le scrivanie”, "No, è fuori col camion".
QUEL TIRO DEL PIVA
Un
sorriso che non dimentico mai è quello rivoltomi da Gino Pivatelli,
grande centravanti del Bologna e della Nazionale. Avevo 16 anni, giocavo
nei ragazzi rossoblu assieme a Bulgarelli, ai figli di Schiavio e di
Sansone, qualche volta assieme anche a Pascutti che era un po' più
grande. Facevo il portiere. A quei tempi, a metà degli Anni 50, la prima
squadra il giovedì si allenava allo stadio in una partita vera contro i
ragazzi. Per noi, robe da farti tremare le gambe, occasione di emozioni
inenarrabili. Il mio gran giorno fu quello in cui parai una sventola
angolata del leggendario Pivatelli: tirò dal limite dell'area
indirizzando il pallone di cuoio nel "sette" alla mia destra. Ricordo
che ero concentratissimo, teso. Istintivamente mi misi in volo e con la
punta delle dita riuscii a deviare quel pallone sopra la traversa.
Ricordo anche che Bulgarelli mi battè le mani. Il Piva non smise di
correre, venne verso di me che ero atterrato dopo il volo: mi diede una
manata sulla testa e mi fece un sorriso grande come una casa, sincero.
Mi disse: "Sei stato bravo!".
LO SCOOP SU GIACOMINO
Nel mio percorso professionale ho fatto tre “scoop”
(tutti per il quotidiano “Stadio”), cioè ho dato notizie che nessun altro
aveva. Uno quando intervistai Nadia Comaneci, a Bologna quasi in incognito
(leggi il relativo Amarcord). Un
altro quando a Pechino ottenni un colloquio privato con He Zhenliang, divenuto
poi vicepresidente del Cio, che mi annunciava il futuro esplosivo dello sport
cinese. Un altro ancora (il primo in ordine temporale, è del 1973 o 74) quando
diedi un clamoroso “buco” a tutta la stampa nazionale. Giulio C.Turrini, caposervizio calcio del giornale, mi disse di andare a
intervistare Pesaola, allenatore del Bologna e mi anticipò con uno sguardo complice una stupefacente
notizia: Bulgarelli – numero 8 da sempre - avrebbe giocato da “libero”. Glielo
aveva detto in confidenza lo stesso Pesaola e Turrini aveva voluto regalarmi lo
scoop. Feci l’intervista al “Petisso” (così veniva chiamato il mister), e lui
mi spiegò il perché di quella decisione presa su sollecitazione di Giacomino
stesso. Il giorno dopo, sogghignando più che sorridendo, affrontai il livore
dei colleghi delle altre testate. Ancora adesso sorrido pensando al gesto di
stima e di affetto che il grande Turrini aveva voluto regalare a me,
giovanissimo redattore.
Iscriviti a:
Post (Atom)