sabato 28 settembre 2013

MACCHIA BIANCA - STORIA DEL MORO


Avevo  sette  anni, allora, e la guerra era finita da poco. Ero piccolo e tutt’ossa. Dentro, mi portavo visioni di stupore e sofferenza: il rombo ovattato delle formazioni di aerei che sorvolavano il paese, il lampo dei cannoni lontani, la luce accecante del bengala caduto nel cortile, il campanile della chiesa fatto saltare dai tedeschi, gli americani che in paese erano arrivati con i carri armati dopo i tedeschi, portando zucchero e cioccolata.
Abitavo in campagna dai nonni, a Minerbio. Davanti a casa c’era un grande prato, che ricordo invaso dai pulcini. Mi sdraiavo sull’erba e li guardavo zampettare qua e là. Li aiutavo con la mano quando inciampavano: si raddrizzavano e scappavano via pigolando, non so se intimiditi o riconoscenti. Mi sorprendevo di quanta fame avessero: pareva che l’unico scopo del loro girovagare fosse la ricerca di qualcosa da beccare, come se anche in loro fosse ancora vivo il ricordo di patimenti passati.
A volte salivo sul grande tiglio di fianco alla casa. Fra i rami mi ero costruito una capanna di foglie. Da lì osservavo il mondo intorno e la vita che animava il grande cortile dietro la casa.
C’era l’orto, la stalla, il porcile, il portico col fienile, la rimessa per gli attrezzi del nonno e un pozzo profondo, con tanti piccoli funghi bianchi attaccati alla parete, dal quale prendevamo l’acqua sempre fresca.
Era il mio mondo, questo. Vi trascorrevo ore e ore a cercare chissacosa, a scoprire, a frugare, a osservare soprattutto lo svolgersi della vita degli animali. Avevamo conigli, galline, due mucche e tre maiali. Erano tutti amici, per me, e ciascuno aveva un nome, tranne le galline che erano troppe.
Ricordo ancora il giorno in cui arrivò il Moro. Era primavera, la siepe di biancospino dietro la stalla era in fiore e il suo profumo si mescolava a quello delle acacie e del caprifoglio che erano tutt’intorno.
Dal mio nascondiglio sull’albero vidi arrivare mio nonno. Il suo nome era Giovanni ma tutti lo chiamavano Zanén. Era piccolo, il naso e le guance accese, le mani grosse e nodose, i capelli bianchi tagliati cortissimi. Aveva un toscano sempre spento fra i denti e un fazzolettone rosso annodato al collo per trattenere il sudore. Di solito camminava piano, come fanno tutti quelli di campagna. Quel giorno trotterellava con passo svelto e intanto ridacchiava. Si trascinava dietro un cavallo. Scostai i rami del tiglio per vedere meglio, man mano che venivano avanti.
Era un cavallo bellissimo, elegante, slanciato. Non uno di quei tozzi cavalli da tiro che si vedono in campagna. Scivolai in fretta giù dall’albero sbucciandomi le cosce contro la corteccia e corsi verso la stalla. Il cuore sembrava volesse uscirmi dal petto, tanto batteva. Non avevo mai visto da vicino un animale così grande. Provavo paura e ammirazione insieme.
- Toccalo, accarezzalo sul muso, non aver paura. E’ buono... mi disse il nonno.
Lo sfiorai piano, scendendo con la mano dalla fronte fino alle narici umide. Era tutto nero, il manto lucidissimo. E aveva una grossa macchia di pelo bianco in mezzo al petto. Gli occhi erano docili, amichevoli, grandi. Quando lo accarezzai di nuovo scrollò la testa. Istintivamente ritrassi la mano, avevo paura che mi mordesse. E invece lui mi appoggiò la grossa testa sulla spalla.
- Ecco, adesso siete amici, disse il nonno.
- Come lo chiamiamo? chiesi, sperando che lasciasse decidere a me.
- Ha già un nome: si chiama Moro. Guarda, c’è scritto qui...
E mi mostrò un foglietto, una specie di carta di identità che allora era obbligatoria per cavalli e muli. Non sapevo leggere. Nemmeno il nonno sapeva leggere, però era bravissimo a fare i conti. C’era scritto - mi disse- che quel cavallo si chiamava Moro, era nato dieci anni prima, era alto un metro e sessantun centimetri, il mantello era baio scuro, come segni particolari aveva un “fiore” bianco sul petto.
Il nonno l’aveva acquistato dal Comando militare. Era appena finita la guerra e i militari stavano vendendo tutto ciò che non era più utile.
*****
Mentre il nonno sistemava il Moro nella stalla cominciai a fantasticare. Anche lui forse aveva fatto la guerra, chissà quale era stato il suo incarico, chissà che pericoli aveva corso. Lo esaminai ben bene per cercare una ferita, un segno del suo eroismo. Non trovai niente, né lui mi rispose quando gli chiesi - proprio così - del suo passato. Forse preferiva non ricordare le brutture della guerra. Rispettai il suo silenzio e da quel giorno non gli feci più domande del genere.
Da quel giorno trascurai anche quasi completamente i pulcini, i conigli, le mucche, i maiali. Mi interessai solo del Moro. Trascorrevo moltissimo tempo nella stalla con lui.
Mi sedevo sulla greppia di cemento per poterlo guardare bene negli occhi. Raccoglievo fasci di fieno profumato e glieli allungavo. Lui mangiava di gusto, stando bene attento a non toccarmi la mano con i grandi denti gialli. Sicuramente capiva quello che gli raccontavo, mi guardava in faccia con attenzione, di tanto in tanto annuiva con forza. Mi permetteva anche di andargli in groppa: con le gambe nude gli accarezzavo i fianchi rotondi solcati da grandi vene, gli strofinavo il ciuffo di capelli che aveva fra le orecchie e lui per dire che era d’accordo muoveva la coda.
Un giorno il nonno mi disse che i cavalli erano golosi di barbabietole e quella per me fu una rivelazione importantissima.
Il paese era tagliato in verticale dalla ferrovia. Ogni giorno passavano almeno tre treni-merci pieni di barbabietole: le caricavano in campagna e le portavano in città per farci lo zucchero. Mi misi ad aspettare il trenino e quando passava tiravo dei grossi sassi contro il carico di barbabietole ammucchiate a piramide nei vagoni scoperti.
In poco tempo diventai bravissimo: ad ogni passaggio del treno riuscivo a colpire e a far cadere almeno cinque o sei barbabietole. Mi infilavo il bottino nella camicetta e correvo alla stalla. Il Moro al sentirmi arrivare trafelato si voltava pigramente, poi annusava le barbabietole e nitriva. Forse rideva di contentezza e di complicità per quella mia trovata. Mangiava con gusto, rompendo con grande fracasso quel tubero e ingoiandolo in tre bocconi. Non facevo in tempo a pulirne uno dalla terra rappresa fra le rughe della buccia che già lui cercava l’altro.
Una volta stette male. Non so se fosse perché aveva mangiato troppe barbabietole. Si sdraiò sulla paglia, lui che stava sempre in piedi anche quando dormiva, e cominciò a respirare forte e a lamentarsi. Corsi dal nonno, disperato. Il nonno camminando pian piano andò a vederlo, poi tornò in casa a prendere qualcosa e tornò nella stalla. Stette dentro più di un’ora e io lì fuori, al sole, che pregavo.
Quando uscì, il nonno era sereno. Disse solo:
- Un blocco dell’intestino, adesso sta bene. Portagli una coperta e guarda se ha bisogno di qualche cosa...
Volai nella stalla. Il Moro era in piedi e mi guardava con gli occhi lucidi. Gli sistemai sulla schiena una coperta di lana poi andai al pozzo a prendere un bel secchio d’acqua fresca. Bevve golosamente e nitrì sollevando appena le labbra. Forse per dire che d’ora in poi avremmo dovuto rubare meno barbabietole.
*****
Non crediate che il Moro se ne stesse lì nella stalla tutto il giorno a fare niente. Il nonno l’aveva comperato per un motivo ben preciso: doveva tirare il carro ai funerali.
Mio nonno nella rimessa aveva tre carri per i funerali. Uno nero, molto semplice, senza tanti fronzoli. Un altro tutto nero ma con bellissimi fregi e incisioni, per i più ricchi. Poi uno bianco, per i bambini, più piccolo, con tante incisioni, uguali per ricchi e poveri. Quando in paese moriva qualcuno, chiamavano il nonno per il “trasporto” dalla chiesa al cimitero, o dalla casa al cimitero se era uno senza religione. E il Moro doveva tirare il carro.
A me pareva che fosse nato per quel mestiere. Non si emozionava, perché lui in guerra chissà quanti morti aveva già visto. Poi era tutto nero e quindi era intonato al colore del funerale. E poi era docile e paziente e non scalpitava per il fatto di dover camminare pianissimo.
Un funerale in paese capitava sette-otto volte l’anno, forse di più, perché a quei tempi la gente moriva spesso e non campava tanto a lungo come adesso. Per me era un avvenimento straordinario, ogni volta. Non era come adesso che il carro funebre è un’automobile nera e la vedi passare in fretta nelle strade seguita da altre macchine con dentro i parenti che chiacchierano più che piangere. Allora era una cerimonia in grande stile, e nell’aria intorno si capiva che uno del paese non c’era più.
Il nonno aveva un vestito apposta per il funerale. Tutto nero, la camicia bianca con la farfalla, elegante; in testa metteva un cappello a bombetta, e per questo lo chiamavano anche “al bumbén”. Impiegava mezz’ora a vestirsi e a farsi la barba e a preparare il carro. Io invece vestivo il Moro. Anche lui era elegantissimo. Gli mettevo sulla groppa un drappo nero con l’orlo dorato, sulla testa il cappuccio nero orlato di bianco dal quale spuntavano gli occhi e le orecchie. Poi i finimenti buoni, che ingrassavo e lucidavo il giorno prima.
Aiutavo il nonno ad attaccare il Moro al carro e quando loro due partivano dal cortile, io correvo sul tiglio. Da lì avrei visto il funerale, perché per andare al cimitero passava davanti a casa nostra.
C’era sempre la banda davanti al Moro e al carro. Il tamburo e il trombone scandivano una marcia lenta e triste. Dietro, il prete e il chierichetto con la croce, poi il corteo dei parenti tutti vestiti di nero. Gli uomini tenevano il cappello in mano, le donne portavano in testa lunghi fazzoletti, chi non l’aveva si copriva la testa col fazzoletto da naso. Quando sentivo i rintocchi della campana - un suono lento e profondo - voleva dire che il corteo partiva. Le botteghe abbassavano le saracinesche in segno di lutto, le persone davanti alle osterie smettevano di giocare, di bere, di parlare e un grande silenzio scendeva su tutto il paese. Si sentiva solo bisbigliare: Puvratt, l’aveva la tisi... Oppure: Adess, chissà chi bèda ai ragazù...
In quel momento il Moro diventava protagonista del funerale. Il nonno, che sedeva a cassetta con la sua faccia rossa e il toscano spento fra i denti, non  faceva niente. Giusto un piccolo colpetto sulla schiena con i finimenti per dirgli che era ora di andare e una piccolissima tirata di redini quando dovevano fermarsi. Non c’era nemmeno bisogno di tirare a destra quando si doveva imboccare la strada del cimitero: il Moro dopo un paio di funerali aveva imparato tutto e guidava il corteo senza bisogno di istruzioni.
Lo guardavo arrivare e mi riempivo di orgoglio. Era imponente, così bardato a lutto. Camminava adagio per non affaticare troppo la gente del corteo. Non nitriva per non disturbare il dolore che era nell’aria. Non muoveva né la coda né la testa. Capiva. Trasportava una persona all’altro mondo ma col suo portamento discreto eppure fiero pareva volesse dire: la vita è questa, si nasce, si muore, ci si addolora, si ride; bisogna passare i giorni fin che ce n’è, con dignità e serenità.

*****
Fui fiero di me stesso il giorno che per la prima volta tenni le redini del Moro. Lo avevamo attaccato al calesse e col nonno eravamo andati fuori del paese a prendere delle pesche da un contadino. Sulla strada del ritorno il nonno volle accendersi il toscano. E allora mi disse:
- Tò, tieni le redini che io devo avere le mani libere...
Fui preso da una emozione fortissima. E da paura. E se avessi tirato tanto da farlo imbizzarrire?  E se avessi tirato a destra, non saremmo finiti nel fosso? E come si fa a guidare un cavallo quando la strada curva? Doveva essere tanta e tanto evidente la mia ansia che il nonno si mise a ridacchiare e a tossire mentre con le mani proteggeva il fiammifero dal vento.
Il Moro fu bravissimo. Forse capì che le redini avevano cambiato di mano, perché voltò la testa un paio di volte. Ma fece finta di niente. Accennò a un passo di corsa, quel furfante, ma solo per un momento: tirai leggermente le redini verso di me e lui si rimise al passo. L’operazione dell’accensione del toscano durò sicuramente più del necessario e nel frattempo io acquistai sicurezza. Mi sentii in perfetto accordo col Moro, lo guidai a zigzag e lui mi accontentò andando dove volevo io, anche se era un andare da matti: in quel momento il Moro e io eravamo due bambini che giocavano lungo la strada, come quelli che si divertono a imitare il volo di un uccello o di un aereo e vanno di qua e di là.

*****
Quella meravigliosa amicizia fra me e il Moro durò per due anni. Due anni felici. Finché un giorno...
Era un bella sera d’autunno. L’aria era impregnata del profumo dei cespugli. Le luci nelle case erano già accese. Dall’osteria si levavano i canti degli ubriachi e le grida di quelli che giocavano a briscola. Ero sdraiato sul prato davanti a casa e guardavo il cielo. Provavo a contare le stelle e mi pareva che non finissero mai. I cani abbaiavano, lontano. E lontano, all’orizzonte, degli strani lampi illuminavano il cielo sereno. Erano grandi bagliori che scoprivano fantastiche montagne di nuvole nere. Si alzò una brezza che poi divenne vento. E il vento piegava le acacie e i cespugli di biancospino.
Cominciò a piovere, dopo un po’, e la nonna mi chiamò in casa. Poi la pioggia si trasformò in diluvio. E dalle nuvole scure che adesso erano sul paese si scatenarono tuoni e fulmini che sembrava la fine del mondo. Avevo paura, non pensai al Moro, non mi chiesi se anche lui aveva paura, da solo là nella stalla, e questo non me lo sono mai perdonato.
Ci fu un tuono terribile, e poi il rumore assordante di un portone spalancato, sbattuto dal vento. Corremmo ai vetri della finestra e vedemmo il Moro.
Si era slegato, era uscito dalla stalla. Era terrorizzato. Si impennò in mezzo al cortile e un lampo illuminò il suo mantello nero lucido di pioggia. Sul petto, la sua macchia bianca sembrava un fiore appassito. Si impennava e nitriva disperato, il Moro. Anche lui aveva paura di quel temporale. Non sapeva cosa fare, dove andare, aveva perso la ragione.
Uscì di corsa dal cortile e si mise a galoppare all’impazzata lungo la strada. Il nonno uscì a precipizio, era la prima volta che lo vedevo correre; chiamò altri uomini per aiutarlo a fermare il Moro. Lo rincorsero per tutto il paese, nei vicoli, fra le case strette. E lui scappava, impazzito per i tuoni e i lampi.
In casa, io aspettavo e piangevo. Pensavo che forse quei tuoni e quei lampi gli avevano ricordato la guerra, quella guerra che aveva voluto dimenticare e che adesso forse gli era tornata in mente. Lo riportarono a casa dopo tre ore. Era bagnato fradicio, gli occhi ancora impauriti e fermi in una strana fissità. Pareva calmo. Il nonno lo ricondusse nella stalla, io lo strofinai con un panno caldo sul muso, sulla schiena, sulle gambe e la pancia, lo rincuorai parlandogli sottovoce nell’orecchio. Mi guardava come non mi aveva mai guardato. Era triste, pareva che volesse chiedere scusa di quel momento di follia. Lo lasciammo quando sembrò che volesse dormire.
Il mattino dopo lo trovai sdraiato sulla paglia. Respirava a fatica muovendo forte la pancia e la schiena. Lo accarezzai, mosse la testa e mi guardò. Gli occhi erano umidi di lacrime. Emise un nitrito debole. Fu l’ultima volta che lo vidi. Il nonno mi fece uscire, era venuto il dottore dei cavalli. Non riuscì a salvarlo. A sera mi dissero che il Moro se ne era andato: il suo cuore non aveva resistito a quella paura e l’acqua di cui si era inzuppato gli aveva procurato una polmonite fulminante.
Era morto con dignità. Ma prima aveva voluto salutarmi, con quel nitrito debole.
Non ci fu carro funebre per il Moro, né corteo, né serrande abbassate, rintocchi di campane o silenzio nelle strade.
Soltanto nel mio cuore calò un silenzio sconfinato, immenso: era il dolore per la scomparsa di quell’amico tutto nero con una macchia bianca sul petto.
Cercarono di consolarmi dicendomi che il Moro adesso era felice e galoppava nei prati del cielo, che sono là oltre le nuvole più alte, fatti apposta da Dio per i cavalli. Non si sarebbe mai dimenticato di me – dicevano - e un giorno, se fossi stato buono, avrei anche potuto rivederlo...

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