sabato 28 settembre 2013

MACCHIA BIANCA - STORIA DELLA NERINA


Sono quel che  si dice un signore anziano. Ho moglie, un figlio e tanti gatti. Vivo sereno in una villetta tutta mia alla periferia di San Lazzaro, Bologna. Ho la campagna a portata di mano. In tre minuti di auto sono sulle colline. Ho tanto da fare, tanti progetti. E ho il senso del tempo che scorre tremendamente in fretta: non so se ce la farò a fare tutto, ho un sacco di malanni addosso che mi spegneranno presto. Pare ieri che piangevo Flic. E’ passato quasi mezzo secolo e io sono cambiato assieme al mondo.
Sono arrivati il fax e la tivù, il computer, internet e le astronavi. Da bambino guardavo affascinato le stelle. Adesso l’uomo è già stato sulla Luna da un pezzo. Una volta il Moro accompagnava al cimitero i morti di tisi o di malaria. Oggi un’auto sbriga la formalità per chi è stato sopraffatto dai mali “del secolo” che sono infiniti: droga, aids, diabete, cancro, infarto. Non ci sono più state guerre da cinquant’anni ma muore più gente oggi in un week end al mare che sotto un bombardamento allora. Le donne non sciacquano più i panni nei canali né i ragazzi vi nuotano: morirebbero di qualche malattia infettiva.
A Minerbio non ci sono più risaie, non c’è più il trenino in mezzo alla strada perché ci si arriva in un quarto d’ora di macchina.
Ci sono ancora le osterie, perchè qualcuno ha avuto l’idea di ricreare l’ambiente di una volta a beneficio di coloro che ne hanno sentito dire dai padri. I giovani dicono: questa sera andiamo all’osteria, ma non sanno cosa era davvero. Bevono di tutto ma non il vino, con questo rinnegando una cultura. L’osteria della Nina adesso si chiama “pub”, quella di Andrea è un locale “alternativo”: a che cosa, non è dato sapere.
La gente di campagna si è trasferita in città lasciando marcire bellissime case. E la gente della città spende follie per tornare in campagna, comprare i ruderi e ristrutturarli. E’ un mondo pazzo, questo: ostaggio della tecnologia, rincorre il passato forsennatamente quanto inutilmente. Le tagliatelle della nonna reclamizzate dal negozio sotto casa sono fatte con le uova di galline allevate in batteria. Il pane che si promette essere “casereccio” è cotto nei forni a microonde. Il formaggio “genuino” è parto di animali abituati ormai a ingozzare erba avvelenata.
Vado poche volte a Minerbio. La casa dei nonni c’è ancora, non so a chi appartenga, ma solo io so riconoscerla. Dove c’era la stalla e la rimessa sono stati fatti appartamenti. Il cortile è di asfalto, il tiglio è stato abbattuto per farci il parcheggio, il grande prato davanti a casa non c’è più, per allargare la strada, il pozzo è stato chiuso e coperto con un tombino.
E quando c’è un funerale, nessuno abbassa più le serrande o si toglie il cappello: è calata la solidarietà, sono aumentati a dismisura l’indifferenza e l’egoismo.

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Mezzo secolo, da allora. Sono cresciuto come tanti, fra momenti di sconforto e di coraggio, attraversando gioie e sofferenze. Soprattutto, prendendo coscienza delle miserie dell’uomo, sempre più “piccolo” man mano che passava il tempo. Ho lottato per vivere, per conquistarmi un posto: con ostinazione e orgoglio. Ce l’ho fatta, dicono. Sì, ho fatto il mestiere che mi piaceva. Ma soprattutto ce l’ho fatta perché sono rimasto quasi come allora: con i miei stupori, i candori di quando ero bambino, mai oscurati dalla rassegnazione e dalla conoscenza.
Amavo la natura, la campagna.  Ancora non posso farne a meno: avverto la necessità fisica di sentirne il sapore. Amavo i miei animali. Ora li adoro tutti, con sentimenti che sfiorano il fanatismo: mi infastidiscono le zanzare, ho paura delle vespe ma non ho ammazzato mai nemmeno una formica.
Ho sei gatti, tutta “gente” di grande personalità e intelligenza: avendomi fatto capire tante cose, provo per loro sincera riconoscenza.

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Cominciai a frequentare gatti a trentadue anni, quando conobbi Briciola, la gatta di quella che sarebbe diventata mia moglie. Ancora piccola, era ammalata. Affrontava la sua sofferenza con commovente dignità. Dovemmo farla sopprimere e quello fu un giorno atroce. Giurammo - io giurai, per l’ennesima volta - che non avremmo più voluto animali. E invece....
Da sposato, andai a vivere in un condominio, terzo piano: impossibile tenere animali. Resistei eroicamente per sette anni, poi scelsi la campagna. E fu un glorioso e rigeneratore ritorno al passato.
Nella nuova casa di San Lazzaro è stato un continuo andirivieni di gatti: tutti abbandonati, o perché era finito il divertimento dei bambini per i quali erano stati adottati o perché cuccioli non desiderati. Maschi e femmine indimenticabili: Bombolo, Silvestro, Matisse, Briciola II, Principessa, Scarabocchia, Zoppetto, Carboncino, Piccolissima. Capitavano in giardino, chiedevano da mangiare, offrivano sincerità. Alcuni se ne andavano dopo un po’, altri morivano investiti dalle auto quando - sospinti da curiosità o istinto - attraversavano la strada.
Oggi i miei sei gatti si chiamano Bianchina, Rossino, Gattone, Pellegrino, Nerina I, Nerina II. La Nerina (II) è la mia preferita: perché è tutta nera e ha una macchia bianca sul petto. Come il Moro, come Flic. Mi piace credere che ne sia la reincarnazione, anche perché il suo attaccamento alla mia persona ha del morboso.

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La Nerina arrivò un giorno di primavera di diciassette anni fa, portata da una donna che conosceva la nostra mania per gli animali. L’aveva trovata chissà dove, era piccola e vivace, gli occhi cercavano affetto. Avevamo già tre gatti e non ne volevamo altri. La rimpinzammo e poi decidemmo di portarla da un contadino in fondo alla strada, a circa un chilometro: lì sicuramente avrebbe trovato un posto per dormire e un pasto assicurato al giorno.
Non pensammo più a lei. Finchè due giorni dopo ce la ritrovammo in giardino. Stava accovacciata nell’erba e sonnecchiava al sole. Quando mi avvicinai, aprì mezzo occhio e piantò le unghie nella terra. Per avvertirmi della sua decisione di restare. Le accarezzai la testa e lei mi leccò le dita. La presi in braccio e mi si strofinò contro la faccia. Sorrisi della sua ruffianeria, non pensando che in lei forse c’era l’anima di Flic o del Moro.
La tenemmo per un giorno poi pensammo di fare un altro tentativo col contadino. Questa volta la portammo via assieme alla Piccolissima, una gatta capitata nel giardino del vicino e indesiderata.
Passò una settimana. E ricomparve, assieme alla Piccolissima. Immaginai il loro travaglio, la loro decisione di lasciare la nuova casa, il coraggio di mettersi in viaggio sfidando i pericoli della strada, dei cani sempre in giro. Entrambe avevano pochi mesi di vita ma erano già dotate di stupefacente determinazione.
Davanti a una prova di carattere così tenace, decisi di tenere la Nerina. Convinto anche da quel pelo nero e da quella macchia bianca sul petto. La Piccolissima invece fu sistemata in città presso alcuni parenti del nostro vicino.
Fu così che cominciò la mia storia con la terza “macchia bianca” della mia vita.
Non ebbe problemi di convivenza con gli altri tre gatti. Andava d’accordo con i due maschi, che allora erano Bombolo e Matisse, ed evitava Principessa, la prediletta di mia moglie, più vecchia di un anno, scomparsa nell’autunno ‘96 per un tumore. Quanto alle persone, la Nerina aveva scelto me.
Me lo dimostrò inequivocabilmente giorno per giorno. Il mattino mi salutava miagolando; saliva sul tavolo mentre facevo colazione e non smetteva di fissarmi: non voleva mangiare, solo voleva starmi vicino.
Poi mi aspettava. Non si allontanava mai, al massimo faceva il giro della casa, andando ad esplorare tutti gli alberi del giardino: dal fico all’albicocco, dal tiglio al melograno. Per qualche misterioso impulso del cervello, si avviava al garage pochi minuti prima del mio arrivo.
A volte la vedevo correre verso di me lungo il sentiero dietro casa, doveva aver sentito il rumore della macchina. Miagolava e mi precedeva in casa saltellandomi fra le gambe, visibilmente felice. La sera, se mi rinchiudevo nello studio a lavorare o ad ascoltare musica, pretendeva di entrare graffiando la porta: si sedeva sulla scrivania, guardandosi intorno.
A volte si sdraiava fra le mie carte, chiudeva gli occhi e aspettava. Non dormiva, perché come mi alzavo in piedi era pronta a scattare anche lei. Mi ricordava Flic, mi ricordava il Moro, sempre così attenti a ogni mio gesto.

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Mi sono  soffermato spesso a pensare alle differenze fra il Moro, Flic e la Nerina. Il Moro era l’amico fedele che ti aspetta sempre e comunque che sa ascoltarti, che ti induce alla riflessione. Flic era il compagno di avventure, solidale, fedele, allegro. La Nerina mi ha rivelato la grandiosità di certi valori: la dignità e la riconoscenza, la pazienza e la tenacia; la libertà e l’indipendenza.
Quando aspettava per ore che arrivassi o che smettessi di lavorare, stava assolutamente immobile, discreta e silenziosa. Quando decideva di uscire, mi girava intorno a lungo, avviandosi alla porta, tornando indietro, invitandomi chiaramente ad alzarmi. Non rinunciava mai al suo progetto. Quando non voleva giocare - come pretendevo - tirava fuori le unghie: era straordinaria la sua capacità di non graffiare pur esibendo quell’arma, era il suo solo modo per avvertire di lasciarla in pace.
Quando stava poco bene, si rintanava nel cantuccio più nascosto, nulla chiedendo se non di essere ignorata. Quando stava molto male, subiva senza lamenti le manipolazioni del veterinario, quasi capisse che erano fastidi necessari.

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Per lungo tempo le impedii di avere figli. Poi decisi che era disumano privarla di questa esperienza naturale. Non feci nulla per impedirle di innamorarsi, di essere “strana”, di andare in cerca di gatti. Mise su la pancia. Quando venne il tempo, scelse il posto per partorire. In cantina. Fece tutto da sola, fece cinque gattini, quattro neri e uno grigio.
Fu straordinario vederglieli crescere. Meglio di un cristiano. Li teneva puliti, sollecitava i più deboli, tratteneva i più vivaci. Quando cominciarono a saltellare, a uscire dalla cesta, aveva occhi per tutto e per tutti. Pronta a respingere con sbuffi minacciosi altri gatti che si avvicinavano per curiosità, attentissima a riprendere chi si allontanava troppo, ad aiutare chi tentava di arrampicarsi su un albero, a togliere dei pasticci chi si infilava fra la legna del camino. A me permetteva di accarezzarli, di tenerli in mano, ad altri no.
Non potevamo tenere altri cinque gatti e uno ad uno li sistemammo presso amici, quando ebbero poco più di due mesi. Fu in quei giorni che imparai a rispettare come essere umano la Nerina.
Pareva impazzita: cercava disperatamente il figlio mancante, lo chiamava a voce con miagolii strazianti. Quando scomparve anche l’ultimo, cadde in uno stato di profonda tristezza, forse di rassegnazione. Per molti giorni si rifiutò di mangiare: aveva capito che per qualche ragione “misteriosa” le erano stati sottratti i figli, che non li avrebbe più rivisti.
Mi sorpresi a chiedere che cosa mai potesse pensare, quali  sentimenti le si agitassero nel cuore e nel cervello, se mai i gatti fossero capaci di piangere. Sarà un caso, ma mi pare che da quei giorni avesse perso un po’ della sua voglia di giocare, della sua vivacità.
Era arrabbiatissima quando andavo in ferie. Mai più di otto giorni consecutivi, proprio per non farla soffrire troppo. Sì, perché la Nerina soffriva quando lasciavamo la casa vuota.
Non restava sola, naturalmente. Una donna era pagata apposta per portale da mangiare due volte al giorno. Ma non aveva più la mia voce, non la mia compagnia. Forse la prima volta pensò di essere rimasta sola. Quando tornai, invece di farmi le feste come mi aspettavo, mi ignorò per alcune ore. Mi teneva a distanza, era chiaramente “offesa”. Poi si lasciava andare e ricominciava con i comportamenti di sempre.

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La Nerina esiste ancora. Solo che è vecchia. Siamo entrambi invecchiati e come tali ci comportiamo: siamo più che mai rispettosi l’uno dell’indipendenza dell’altro.
Non gioca più, non rincorre più gomitoli o palle; dorme molto, non va in giro, non fa più gli agguati ai merli nè si avventura sugli alberi. E’ ancora capace di arrabbiarsi solo di sera, d’inverno, quando la metto fuori nella sua cesta imbottita. Vorrebbe restare in casa, e tira fuori le unghie giusto per dire che non è d’accordo. Per il resto, si accontenta di stare accovacciata vicino a me.
A me piace sentirla vicino. Ogni giorno che passa, aumentano e acquistano sempre più importanza i saluti rituali del mattino: vuole assolutamente essere presa in braccio, coccolata, le piace che le si parli.  E a me piace farlo. Ogni giorno che passa, è un giorno d’amore che ci regaliamo l’un l’altro.
Penso con dolore che un giorno, inesorabilmente sempre più vicino, verrà a mancarmi anche lei. E penso che dopo di lei, per me forse non ci sarà più tempo per un’altra “macchia bianca”.
Qualcuno ha detto che un gatto nero con la macchia bianca sul petto è un angelo.
Mi piace sempre di più credere che la mia Nerina sia un angelo che mi ha accompagnato fin qui  per tutta la vita: prima sotto le sembianze del Moro,  poi di Flic e poi di una gatta.

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APPENDICE 1
Questa “favola” é stata scritta nel 1998, al compimento del mio 60° anno. Oggi – anno 2006 - la Nerina non c’é più: é morta serenamente di vecchiaia a 19 anni.
Dopo di lei ci fu il Mascherino, un gatto trovatello nero e bianco (sempre quelli, i colori…): aveva la coda mozza, ricordo di chissà quale tragedia, l’abbiamo castrato ma nonostante tutto era sempre allegro, fiducioso nell’uomo e affettuoso. Amava il caldo e di notte voleva dormire con me: si sistemava col musino vicino alla mia testa, mi piaceva sentire il suo calore, il suo respiro. La mattina quando mi svegliavo, si stiracchiava a lungo e correva a reclamare il primo pasto. Dopo, era pronto per giocare. Per lui ho comprato chili di caramelle: gliele buttavo e lui le rincorreva, le lanciava, le nascondeva sotto i mobili e poi impazziva cercando di recuperarle.
Un giorno non ebbe più voglia di giocare. Stava sdraiato, era apatico. Lo portai dalla veterinaria, lo lasciai lì nella gabbietta, l’avrei ripreso la sera, dopo le analisi del sangue. Dopo alcune ore ricevetti una chiamata. Era la dottoressa, diceva che il mio Mascherino aveva l’aids, non c’era più niente da fare, volevo che fosse soppresso?
Piansi come un bambino, a 66 anni: quel gatto era stato un figlio, un fratello, l’amico che mi aveva fatto riacquistare la voglia di sorridere dopo un periodo nero. Fu un dolore atroce, non volli nemmeno vederlo, diedi disposizione perché fosse cremato. Pianse anche mia moglie. E ci dicemmo che questa era stata l’ultima sofferenza derivata dal nostro amore per gli animali.
Ma due mesi dopo arrivò la Bianchina. E un anno dopo, Carolina…. Avevano esperienze di vita disperanti, con me sono tornate a sorridere, a giocare, ad amare.

APPENDICE 2
Siamo alla fine del 2013. Adesso ho 4 gatti. C'è ancora la Bianchina, ormai vecchia ma sempre molto vitale e affettuosa. Poi sono arrivate Codagrigia e Codanera. Tutte e tre bianche pezzate di nero! L'ultimo è Tigrotto, nato il 14 aprile 2013 da Codanera. E' un discolo che rallegra le giornate mie e della mia nipotina.

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