sabato 5 ottobre 2013

STORIE IN BICI - La Fenice e il Cannibale


Quando nel 1964, a nemmeno 22 anni, trionfò nel Tour dell’Avvenire, Jacques Goddet disse che l’Italia aveva finalmente trovato il nuovo Messia. Va bene che suo padre si chiamava Mosè, ma forse era ancora troppo presto per gridare al miracolo. Coppi era morto da 4 anni, Bartali aveva smesso da 10, Magni da 8, Nencini aveva finito di dare tutto nel 1960, e all’orizzonte non era spuntato nessuno in grado di vestire i panni del dominatore assoluto, anche se questo bergamasco taciturno faceva ben sperare. Meglio usare prudenza nelle profezie, per non restare poi troppo delusi.
Un anno dopo, 1965, Gimondi passò professionista, ingaggiato dalla Salvarani diretta da Luciano Pezzi. Fece il Giro e si piazzò terzo dietro al suo capitano Adorni e a Zilioli. Dopo, secondo programma, il ragazzo avrebbe dovuto riposare ma il destino volle che in vista del Tour Pezzi si trovasse in difficoltà nel comporre la squadra per la spedizione in Francia: uno era ammalato, un altro fuori forma… Portiamo con noi anche Felice, giusto per fare numero ed esperienza, dissero i dirigenti del team del mobilificio parmense: non gli si chiede niente, nessuno sforzo, solo di guardarsi in giro e vedere com’è il mondo del professionismo. E Felice partì, a cuor leggero. Solo che dopo la terza tappa, la Roubaix-Rouen, si ritrovò maglia gialla. Tanto compiacimento ma nessuna illusione, alla Salvarani: quella corsa semmai doveva vincerla Adorni, che puntava alla doppietta Giro-Tour. Gimondi, consigliato di non dannarsi troppo, si lasciò sfilare la maglia gialla. Poi arrivò la prima tappa pirenaica, la Dax-Bagneres de Bigorre. Adorni non partì per dolori intestinali accusati già nella tappa precedente. E Gimondi si scatenò sull’Aubisque e il Tourmalet, ingaggiò un duello esaltante col favorito dei francesi Poulidor, e alla fine di quel giorno tornò in cima alla classifica. Passò indenne i Pirenei e le Alpi e a Parigi arrivò da trionfatore.


I cronisti rispolverarono i toni epici di un tempo, da anni non appariva all’orizzonte del ciclismo internazionale un fenomeno di quello spessore. I francesi lo adottarono subito, conquistati da “le sourire de Gimondì”, un ragazzo tanto gentile quanto potente, disponibile e talentuoso. Gli italiani lo coccolarono, già pregustando imprese apocalittiche. E quando nel 1966 il nostro eroe, infangato e coperto dalla polvere di carbone, si presentò da solo al traguardo della Roubaix, allora tutti furono convinti di essere in presenza di un nuovo dio. Aveva ragione Goddet: ecco il nuovo messia del ciclismo. Era perfetto, Gimondi. Bergamasco di Sedrina, Val Brembana, era un ragazzo scrupoloso e serio, di poche parole. Come il padre del resto. Il giorno che tornò a casa dopo aver vinto il Tour dell’ Avvenir, Mosè gli disse: “Bravo”, e lo mandò a lavare uno dei suoi camion. Il padre aveva una piccola azienda di trasporti, la madre era la postina di Sedrina: Felice si allenava e aiutava i genitori nei rispettivi lavori, d’inverno distribuiva lettere e pacchi in paese e lo avrebbe fatto anche negli ultimi due anni da dilettante. Si allenava con scrupolo, ben guidato dai dirigenti del Pedale Sedrinese che, avendone intuito le grandi doti, lo programmarono, lo costruirono con grande intelligenza. Avevano in mano un capitale da investire. Pativa mal di gambe, da ragazzo, e pareva avere problemi al cuore. Adeguati interventi medici lo avrebbero messo a posto. 

Si mostrò subito ottimo scalatore e fondista, buon velocista e cronoman, resistente e con grandi doti di recupero. In più era di una professionalità sconcertante. Teneva un diario in cui scriveva commenti o impressioni su ogni sua prestazione: lo lesse anche Pezzi, quando il ragazzo fu assunto alla Salvarani e confessò il proprio sbalordimento, mai vista in vita sua una tale scrupolosità. Rivelò anche altre doti, il giovanotto di Sedrina: era leale e sportivo, non si lamentava mai, campione nella vita come sulla strada. Si capisce allora perché in carriera Gimondi abbia vestito la maglia di due sole squadre: la Salvarani e, quando questa cessò l’attività, la Bianchi. Gli volevano bene come a un figlio. E lui ripagò tutti.
Al suo secondo anno da professionista, 1966, vinse – fra le altre corse - la Parigi-Bruxelles, la Coppa Agostoni, la Placci, il Giro di Lombardia. Al Giro d’Italia era arrivato solo 5°, a molti minuti da Gianni Motta, il rivale designato dalla stampa che voleva – come esige la storia – un dualismo fra campioni. Il vero rivale di Gimondi invece veniva dal Belgio, era un ragazzo di tre anni più giovane, capace di sprigionare una potenza inaudita e dotato di una feroce determinazione: Eddy Merckx. La “corsa delle foglie morte” vinta da Gimondi nel 1966 evidenziò la statura di quello che poi sarebbe stato chiamato “cannibale” per la sua insaziabile fame di vittorie che andava oltre ogni idea di sportività. In quel Lombardia, dopo aver vinto la resistenza di Motta, Gimondi e Adorni attaccarono alla disperata trascinandosi all’arrivo un quartetto altamente qualificato: Poulidor, Anquetil, Dancelli e Merckx. Tirò la volata Adorni, che strinse alla corda Merckx con azioni al limite del regolamento; ai 250 metri partì Dancelli ma Felice lo passò resistendo poi al rabbioso ritorno di Merckx che intanto era riuscito a sfuggire alla trappola di Adorni. Primo Gimondi, secondo Merckx, che in apertura di stagione aveva già vinto la Sanremo.


Ecco, Merckx: l’incubo di tutti, in particolare di Gimondi. Nel 1967 il belga si impose ancora nella Sanremo, vinse la Freccia Vallona e diventò campione del Mondo a Heerlen. Dal canto suo il bergamasco si aggiudicò per la prima volta il Giro d’Italia. Da campione. Compì un’impresa straordinaria nella 19.a tappa, la Udine-Tre Cime di Lavaredo, primeggiando e vincendo la resistenza di Merckx, Motta, Adorni: fu annullata, quella tappa, corsa nel freddo, sotto la pioggia e la neve, caratterizzata dalle spinte degli spettatori. Nella successiva Cortina d’Ampezzo-Trento vinta da Adorni si portò a soli 34” dalla maglia rosa Anquetil e nella penultima frazione, la Trento-Tirano inflisse 5’ di distacco al francese e ben 13’ a Merckx, debuttante al Giro.
Merckx o Gimondi? Il mondo del ciclismo si divise in due.
Ancora oggi qualcuno si chiede che cosa avrebbe vinto Gimondi se non ci fosse stato Merckx. Molto saggiamente, una volta appesa la bici al chiodo, il campione di Sedrina avrebbe detto: “I se e i ma non mi sono mai piaciuti molto. Preferisco guardare in faccia la realtà. D’altra parte ciascuno deve fare i conti con il proprio tempo e con gli uomini che si trova attorno. A Guerra toccò Binda, Bartali dovette vedersela con Coppi, a me è capitato Eddy. Forse osservando le vicende un po’ dall’alto con il distacco di chi ormai è fuori dalla mischia, è stata anche una fortuna. Nei primissimi anni della mia carriera io facevo razzia, o quasi. Sembrava che niente mi fosse impossibile. Quando arrivò lui la musica cambiò. Lì per lì fu uno shock. Poi appresi sulla mia pelle quello che già mi avevano detto in molti: nella vita non si può avere tutto; è una ruota che gira: oggi tocca a me, domani a te. Così mi sforzai di studiare tattiche nuove e di cogliere i momenti giusti per battere il mio più grande avversario”.
E’ un dato di fatto che all’inizio Merckx impaurì per davvero Gimondi. Nel 1968, a nemmeno 26 anni, Felice era uno dei pochissimi corridori ad aver vinto le tre grandi corse a tappe, Tour, Giro e Vuelta. Era nella storia. Eppure, confessò, si era ormai rassegnato al fatto che il belga (quell’anno vincitore della Roubaix e del Giro) potesse batterlo in tutto. Fu il giorno in cui, al Giro di Catalogna di quello stesso 1968 Merckx lo sconfisse anche a cronometro. “Ebbi davvero la sensazione di essere finito come corridore” dirà Felice. E invece imparò a convivere col “cannibale” e rimase sulla breccia altri dieci anni. Fu per questo che un giornalista inglese con felice intuizione lo battezzò “la fenice”. La fenice era un uccello mitologico, unico del suo genere, il piumaggio coloratissimo: un giorno si uccise in un rogo, poi risorse e portò le proprie ceneri al dio Sole. Divenne simbolo della resurrezione. Applicata a Gimondi è una immagine calzante. Stava per suicidarsi nel tentativo di tener testa a Merckx. Poi cominciò a riflettere. Inutile fare il braccio di ferro con uno scalmanato come il belga. Meglio studiarne i punti deboli e quindi la strategia più adeguata, incassare quando non era aria e invece affondare il colpo sui percorsi a sè più congeniali. Sulle lunghe distanze forse teneva più Gimondi di Merckx, negli sforzi brevi era più forte il belga che era capace di chiudere un “buco” in 2-3 chilometri mentre a Gimondi magari ne servivano 5. Imparò a migliorare lo sprint sviluppando con regolarità una potenza che lo portava a partire a tutta anche a un chilometro dal traguardo. Addirittura curò la bicicletta in modo maniacale, conscio che anche il più piccolo particolare avrebbe potuto dargli un minimo vantaggio: divenne celebre il “manubrio Gimondi”, che Felice volle addolcito nelle curvature e nelle impugnature laterali.
Aveva quasi odiato Merckx, poi lo sportivamente aveva “accettato” e anche rispettato. Quando al Giro del 1969 Merckx, leader della classifica, fu tolto di gara per doping, il giorno dopo Gimondi rifiutò di indossare la maglia rosa e non fu felicissimo della vittoria finale. Come al Lombardia del 73. “Le statistiche me lo attribuiscono – disse – ma io non sento mia quella vittoria, ottenuta a tavolino dopo la squalifica di Eddy per scorrettezze”. Dal canto suo il belga era conscio della forza dell’italiano e a modo suo lo rispettava. Al Mondiale 1971, a Mendrisio, Eddy attaccò a cinque giri dalla fine, solo Gimondi seppe tenergli ruota. Fu una fuga a due entusiasmante che si concluse sul traguardo con Eddy davanti a Felice. Ai cronisti il belga disse: “Questa è una grande vittoria, perché sono riuscito a battere un vero campione”.
Da rivali che erano, col tempo divennero addirittura amici. Una sola volta litigarono di brutto: fu nel Tour 1969, al termine della Briancon-Digne. Eddy era maglia gialla, Gimondi gli era a 7’. Il belga attaccò, gli resistette solo Felice che poi collaborò nella fuga a due, arrivarono al traguardo. In questi casi si usa che il più forte lascia a chi lo ha aiutato il merito della vittoria. Merckx no, era già “cannibale”: fece lo sprint e fece secco un sorpresissimo Gimondi. Il quale, sceso di bicicletta, lo aggredì a male parole. Si vendicò, anche. Il giorno dopo, nella Digne-Aubagne, andò in fuga, lo seguirono Gandarias, Van Schil e Merckx. L’arrivo era su una pista in terra battuta, bisognava entrare per primi per covare speranze di vittoria. Gimondì entrò in testa e proseguì nello sforzo con potenza avvelenata dalla rabbia: vinse, e Mercks fu solo terzo. “Fui davvero contento, quel giorno”, sogghignò anni dopo.

Ma la più grossa soddisfazione nei confronti di Merckx se la prese al Mondiale 1973, sul circuito del Montjuich, a Barcellona. Giornata torrida, caldo soffocante, fastidioso vento sahariano. 17 giri da percorrere, con in mezzo quella salita al 7%. Fu lì che a sei giri dalla fine Merckx attaccò: gli resistettero il compagno di squadra Maertens, gli spagnoli Ocana e Perurena, l’olandese Zoetemelk e gli italiani Battaglin e Gimondi. Al penultimo giro, altro scrollone di Merckx che guadagnò 50, 100 metri. Ma fu lo stesso Maertens a ricucire lo strappo trascinandosi anche Gimondi e Ocana., il che fece inviperire il Cannibale. Merckx e Maertens in quell’arrivo in volata erano i favoriti di tutti. Ocana, quell’anno vincitore del Tour, puntava a un successo clamoroso anche nella propria terra. Gimondi aspettava gli eventi, concentratissimo a cogliere un’occasione propizia. 
Ultimo chilometro, in leggera salita. Merckx e Maertens parlano fra di loro, chiaro che stanno mettendosi d’accordo sul tipo di volata da fare. Probabilmente è il giovane Maertens che deve fare strada al Cannibale, e dunque Gimondi si incolla alla ruota di Eddy e non la cede neppure quando il belga più giovane ai 250 metri parte come una furia, neppure quando Merckx non riesce subito a capire che il suo compare tira a vincere, altro che tirargli la volata! Quando Merckx si pianta nello sforzo di recuperare quella macchina di vantaggio che il suo compagno ha acquisito, Gimondi si accorge di andare più forte di Merckx, di avere nelle gambe una potenza spaventosa. Lo supera e nello slancio agguanta Maertens che si è voltato per vedere dov’è il compagno. Taglia il traguardo per primo davanti a Maertens, Merckx è passato persino da Ocana. Trionfo dell’azzurro, apoteosi, felicità da delirio per gli italiani presenti, per quelli davanti alla tivù, per la gente bergamasca. Gioia sconfinata per Felice. Quella sconfitta gli andò di traverso, al Cannibale. E per Gimondi questa fu la soddisfazione più grande della sua carriera.
Prima di lasciare la bici, Gimondi si tolse altre soddisfazioni. Si era riproposto di vincere ancora una corsa a tappe, una grande classica in linea e una corsa a cronometro. Ci riuscì nel 1976: vinse il suo terzo Giro, la seconda Parigi-Bruxelles e il GP di Larciano. Due anni dopo, con 36 primavere sulle spalle, disse basta. Quell’anno, qualche mese prima di lui, smise anche Merckx.

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