sabato 12 ottobre 2013

STORIE IN BICI - Il ribelle di Normandia


Jacques Anquetil l’hanno chiamato in mille modi, a testimonianza di una personalità complessa, a volte indecifrabile, discutibile. “Le Normand”, il normanno: per identificarlo quando, giovanissimo, si affacciò alla ribalta delle corse stupendo tutti per l’innegabile talento. Poi “Petit Jacques”, quando appena 19enne sbalordì per la sua potenza e resistenza. Divenne poi “Monsieur Crono” non appena fu evidente che la gara solitaria contro il tempo era la sua specialità. “Maitre Jacques” definì la sua personalità di uomo tenacemente indipendente, unico padrone di se stesso: a 20 anni lasciò la casa dei genitori e andò a vivere da solo per godersi la libertà dalle regole. Fu anche detto “Party Boy”, perché non disdegnava – anzi! – i piaceri del buon bere e del mangiare raffinato: figlio di un coltivatore di fragole, amava soprattutto gustare questi frutti carnosi e succulenti intingendoli nello champagne. E quando qualcuno gli ricordava che Louison Bobet accompagnava la bistecca con acqua minerale, rispondeva: “Affari suoi, a me questo regime non va bene”. Un giorno, ancora neopro, arrivò sulla Costa Azzurra per allenarsi e la prima cosa che fece fu andare al ristorante e ordinare un’aragosta con maionese.
Cento episodi tracciano il genio e la sregolatezza di Jacques Anquetil, fenomeno del ciclismo francese anni 50 e 60. Uno per tutti. Inizio agosto 1963, ha 29 anni. Domina il Grand Prix de Felletin, uno dei tanti circuiti locali allestiti per fare cassa e spettacolo. Poi sale in auto con la moglie Janine e il suo direttore sportivo Geminiani, si divora 250 km fino al Clermont Ferrand, sede di un’altra corsa che parte alle 8.30 del giorno dopo, la Ronde d’Auvergne. Arrivano all’hotel alle 11 di sera. Cena abbondante e poi per celebrare il successo di Felletin, Gem ordina champagne, una due tre bottiglie. Si aggregano al party altri corridori gaudenti come Van Looy e Sorgeloss i quali però verso l’una vanno a letto. Alle 2 di notte Anquetil dice che ha fame, divora un piatto di uova annaffiandole con una bottiglia di whisky. Alle 3 di notte ha un’idea balzana: telefona a Marcel Bidot che ha appena selezionato i corridori da mandare al mondiale di Renaix. Gli dice che lo vuole incontrare subito, lì a Clermond Ferrand, per discutere della tattica da attuare: è chiaro che non ha la testa a posto ma Bidot correrà ad ascoltarlo. Alle 5 di mattina finalmente va a letto, Alle 7 Gem bussa alla porta della sua stanza per svegliarlo. Con gli occhi pesti Jacques dapprima non vuol saperne di alzarsi ma poi raggiungerà il plotone sulla linea di partenza. Dopo 5 km comincia a vomitare, vuole ritirarsi. Geminiani sa come prenderlo, gli dice di resistere, gli dice che è una giornata meravigliosa e che una bella sgambata non potrà fargli che bene. La corsa è dura, dopo 70 km solo 10 corridori sono rimasti a pedalare, fra essi c’è anche Anquetil. Vince allo sprint, lui che sprinter non è. Gem si aspetta un gesto, una parola di riconoscenza che non arriva: “Non hai niente da dirmi?” chiede a Jacques. E lui: “Sì, portami champagne e ghiaccio”.
 Un tipo così ha vinto 5 Tour de France, due Giri d’Italia, una Vuelta e ha battuto il record dell’ora di Coppi. Nonostante questo, dopo le meraviglie e gli stupori suscitati all’inizio di carriera non è mai riuscito ad entrare completamente nel cuore dei francesi: il suo atteggiamento era troppo aristocratico e calcolatore, il suo comportamento troppo fuori dalle regole. Il corridore non deve fare sesso, non troppo, durante la stagione agonistica: era ed è il credo dominante dello sport. Anquetil si faceva raggiungere al Tour o al Giro dalla sua bellissima Janine e la accoglieva nella propria stanza quando non doveva dividerla col suo amicone Dedè Darrigade. A chi lo guardava di traverso, replicava: “La gente ha un concetto sbagliato dell’amore, non è questo che può stroncare un corridore. In Inghilterra sono stati fatti studi in proposito e i risultati mi danno ragione!”. Faceva l’amore e vinceva. Militare in Algeria, a 21 anni, si invaghì della prima ballerina dell’Opera di Algeri: tornò a casa dopo tre mesi, ingrassato di sette chili e intontito dalle follie amorose: poco dopo avrebbe battuto il record dell’ora.
Il corridore non deve doparsi, era ed è la raccomandazione di sempre. Lui prendeva anfetamine, meravigliandosi dello stupore altrui. Diceva: “Una pasticca non trasforma un ronzino in un puledro. Chi nasce puledro resta tale per tutta la vita”. Sosteneva apertamente, con aria di sfida, che l’anfetamina presa in dosi minime non fa male: prima di morire di cancro a soli 53 anni, fu perversamente orgoglioso di poter dire che i medici avevano escluso che ciò che aveva preso non aveva influito sull’evoluzione suo male. Fu un tenace contestatore dell’antidoping. Quando nel 1966 vinse la Liegi-Bastogne-Liegi arrivando con 4’53” sugli altri non volle sottoporsi al controllo di rito. “Dopo 12 anni di carriera – spiegò -  so quello che devo fare e non voglio che una vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi”. Era Anquetil e le rigidissime leggi belghe derogarono dalla abituale severità: gli lasciarono quella vittoria e gli comminarono solo un’ammenda di mille franchi. Non gli andò altrettanto bene quando nel 1967 tentò di impossessarsi di nuovo del record dell’ora che gli era stato strappato da Baldini e poi da Riviere. Lo battè ma il primato non venne omologato. E lui a France Dimanche ribadì il proprio convincimento: “Bisogna essere degli imbecilli per immaginare che un professionista che corre per 235 giorni l’anno e per anni di seguito possa rimanere ad un certo livello senza fare uso di stimolanti”.
 Nato nel 1934 in Normandia, a Mont Saint Aignan, vicino a Rouen, Anquetil è stato professionista dal 1953 al 1969 guadagnandosi la definizione di più grande cronoman di tutti i tempi. Si difendeva in salita dove accusava problemi di respirazione, non aveva grandi doti di sprinter, non amava gli scatti, era un fondista d’eccezione. Animato da un irrinunciabile spirito di indipendenza, esprimeva il meglio di se stesso nella corsa solitaria, contro il tempo. Correre da solo – diceva – significa non avere le distrazioni o le paure che ci sono in gruppo. Perfetta posizione in sella, pedalata regolarissima e potente: correva mantenendo sempre il centro della strada perché – sosteneva – ogni minima deviazione costringe i muscoli a un lavoro inutile, odiava ogni minimo spreco di energia. Nel 1961 vinse il GP delle Nazioni a tempo di record, pedalando secondo una tabella preparatagli dal suo direttore sportivo Wiegant: si fece 100 km ai 44 di media, perse 5 kg e battè il proprio record di oltre un minuto lasciando Desmet e Aldo Moser a più di 10’; alla fine si arrabbiò di brutto col Wiegant perché, per spronarlo, gli aveva dato dei tempi inesatti: “Ho polverizzato il record mentre sarebbe bastato abbassarlo di venti secondi!”.
Ciò che vinse, lo vinse quasi esclusivamente grazie alle sue doti di uomo-cronometro. Come tale si rivelò al mondo. A 19 anni fu convinto da Francis Pelissier e Gaston Benac a partecipare al GP delle Nazioni, 140 km contro il tempo: vinse con 6 minuti di distacco. Trionfò in 9 edizioni di quella corsa e 7 volte si aggiudicò il GP di Lugano, 3 volte il GP Castrocaro, 5 il GP di Ginevra, 3 volte il Trofeo Baracchi (in coppia con Altig, Stablinski e Gimondi). Era un calcolatore nato, non a caso a scuola aveva sempre preferitola matematica alle altre materie. Preparava le gare che voleva vincere con scrupolo maniacale, convinto che ogni minimo particolare – dalle misure della bicicletta alle tecniche di allenamento, diverse per ogni competizione – avessero influenza decisiva sul risultato.
Non ha mai vinto un titolo di campione del mondo (nel 1966 fu secondo a Rudy Altig) e poche sono le grandi classiche che lo hanno visto trionfatore: solo la Gand-Wewelgem, la Liegi-Bastogne-Liegi e la Bordeaux-Parigi. Quest’ultimo successo, colto nel 1965, diede la misura di ciò che Anquetil era in grado di fare grazie alla sua classe e alla sua incredibile potenza fisica. La Bordeaux-Parigi, una maratona di 567 km, si svolgeva il giorno dopo la conclusione del Giro del Delfinato. Anquetil vinse quel Giro. Alle 17 tagliava a braccia alzate il traguardo dell’ultima tappa. Alle 17.20 era sotto la doccia. Alle 17.55 in auto raggiungeva l’aeroporto di Nimes dove lo attendeva un Mystere 20 messo a disposizione del governo francese. Alle 19.30 atterrava a Bordeaux. Alle 20 era in albergo: cena, riposo. Alle 2 di notte partenza della corsa mostruosa. Alle 4 Anquetil vorrebbe abbandonare ma il solito Geminiani lo convince a continuare, l’alba lo avrebbe illuminato, diceva. Fu così. Per tutto il giorno rincorse Mahè che aveva 6’ di vantaggio. Al tramonto lo raggiunse, lo staccò. Al Parco dei Principi entrò assieme a Simpson e lo battè in volata. Fu l’apoteosi per quella feroce dimostrazione di volontà e di potenza.
Feroce volontà che aveva già manifestato in occasione della conquista del record dell’ora. Era sempre stato un grande ammiratore di Coppi, fin da giovanissimo aveva pensato di emularlo: non potendo controbatterlo in salita, pensava di poter riuscire a sfidarlo a cronometro. Coppi aveva conquistato il record dell’ora nel 1942 al Vigorelli, a 23 anni, coprendo 45,848 km. Anquetil si sentì presto in grado di affrontare la sfida, in ciò sollecitato anche dal suo entourage, da Coppi stesso e da Cavanna dal quale Fausto lo aveva portato. Provò una prima volta nel 1955, anche lui 22enne. Non ce la fece. Non si abbattè per questo, anzi quell’esperienza negativa lo convinse di avere in corpo le energie necessarie per riuscire nell’impresa. Ci riprovò un anno dopo, 1956. A un quarto d’ora dalla fine, smise di pedalare per il mal di reni: posizione sbagliata, l’asse della bici era troppo corto. In 24 ore la bici fu modificata, le stesse misure di quella di Coppi, del resto Jacques era strutturato come il Campionissimo. Alle 19.30 del 30 giugno prese il via, animato da sacro furore e dalla volontà di battere il suo idolo. Ce la fece: dopo mezz’ora aveva idealmente 22 metri di vantaggio su Coppi, finì avendo percorso allo scoccare dell’ora 46,159 km: Coppi era distanziato di 311 metri! La folla del Vigorelli, accorsa perché attirata dalla curiosità di vedere all’opera quel ragazzo francese che presuntuosamente quanto tenacemente  mirava all’eredità di Coppi, alla fine lo applaudì con entusiasmo: aveva capito che Anquetil era davvero un fenomeno. Non potè godersi a lungo quel record: prima Baldini e poi Riviere glielo batterono; ci riprovò nel 1967, fece uno strabiliante 47,493 che però non fu omologato perché non volle sottoporsi al controllo antidoping.
La capacità di soffrire, la determinazione nel perseguire gli obiettivi prefissi furono alla base anche dei suoi successi nelle corse a tappe, naturalmente unite alla sua predisposizione alle prove contro il tempo. Si aggiudicò 5 Parigi-Nizza, 3 Giri del Delfinato, oltre a Giri e Tour. Fu il primo a conquistare la tripletta Giro-Tour-Vuelta. Cinque volte trionfò nella corsa a tappe di casa sue e due in quella italiana, passò 42 giorni in maglia rosa e 52 in maglia gialla. Ma senza le crono non sarebbe riuscito a tanto. Conquistò il primo Tour nel 1957, a 23 anni, con 15’ su Janssens: vi aveva partecipato dopo aver visto che comprendeva tre tappe contro il tempo. Poi fece un poker fra il 1961 e il 1964 imponendosi rispettivamente a Carlesi (12’14”), Plankaert (4’59), Bahamontes (3’50”) e Poulidor (55”). Al Giro d’Italia, dopo  un secondo posto dietro a Gaul nel 1959, vinse nel 1960 battendo Nencini per soli 28” e nel 1964 Zilioli per 1’22”. Dunque non da dominatore ma come attento calcolatore. Non calcolò bene le forze degli avversari quando nel 1961 perse il Giro per poco più di tre minuti ad opera di un Arnaldo Pambianco in stato di grazia, capace di innervosirlo e di fiaccarlo con i suoi scatti a ripetizione sulle Alpi, specie nella Trento-Bormio. A chi gli faceva rilevare che questi successi ottenuti senza entusiasmare erano dovuti essenzialmente alle vittorie nelle tappe contro il tempo, replicava stizzito: “E allora? C’è gente che ha vinto il Tour e il Giro solo grazie alle montagne!”. Nulla da eccepire, se non che una vittoria ottenuta con fatica plateale, sfiancandosi lungo i tornanti di una montagna, nel cuore della gente provoca palpiti infinitamente più accelerati di un successo conquistato scientificamente a cronometro.
Smise nel 1969, a 35 anni, dopo aver lasciato la sua Janine ed essersi sposato una seconda volta. Si mise a fare il coltivatore. Morì di cancro nel 1987.


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