domenica 6 ottobre 2013

STORIE IN BICI - La locomotiva umana


"In sla curva del gran fium pögiada fra campagna e rastèra / chesta l’è la börgada döa è nat Learco Guera". La borgata che canta Gino Costa in rime baciate è San Nicolò Po. Adesso c’è la nebbia e le case raccolte ai lati della provinciale sfumano alla vista come fantasmi del passato. Intorno ci sono campi, allevamenti bovini, villette signorili, canali in cui d’estate fiorisce il loto. Il grande fiume, il Po, scivola veloce fra i colori tenui dell’autunno: chiudi gli occhi, e ti sembra di sentire il fruscio di ruote sull’asfalto. Con un po’ di immaginazione senti il fruscio delle ruote di Learco Guerra, che è nato qui, in una delle ultime case della borgata. La casa, numero civico 41, è dismessa ma non diroccata, in buono stato per via delle innumerevoli ristrutturazioni. Nessuna targa la contrassegna, la indica solo un cartello a freccia posto sull’altro lato della strada: “Casa natale di…”. A ricordare il grande corridore ci sono anche una strada, prima di arrivare alla provinciale, e un cartello orgoglioso: “S.Nicolò Po – Paese natale di Learco Guerra – campione mondiale di ciclismo”. Sì, perché queste parti, nel mantovano, ognuno ha il suo campione e allora bisogna esibirlo come si conviene. Pochi chilometri più in là c’è Casteldario, dove è nato Nuvolari e a un tiro di schioppo Bonferraro dove vide la luce Antonio Ascari. A Mantova, in centro, c’è il Museo Nuvolari-Guerra, che vale la pena visitare se non altro per rituffarsi nelle atmosfere di un tempo in cui lo sport – orfano di media tecnologici - dava emozioni davvero viscerali. 

 Guerra è scomparso nel 1963, a soli 60 anni, ma i vecchi di San Nicolò ne parlano ancora come se fosse presente, con orgoglio e riconoscenza. Fu un grande uomo, Learco Guerra, e diede lustro a un paese altrimenti dimenticato da Dio. Nacque in questa terra allora poverissima all’alba del 900 e il padre muratore per garantirgli almeno una speranza gli affidò un nome altisonante sentito chissà dove e prestato dalla mitologia greca: Learco. Robusto, vivace, intelligente, crebbe come tutti lavorando e sognando, avendo come miti di riferimento gli eroi dello sport: calciatori e ciclisti. Anche lui imparò il mestiere della cazzuola, e col padre andava a tirar su muri in sella a un tandem. Non avendo soldi per comprare una bicicletta, per un po’ di tempo si mise in testa si diventare giocatore di football ma poi, quando la leggenda di Girardengo “il campionissimo” arrivò dalle sue parti cominciò a fare un pensierino alla bici. Ne ebbe una usata, cominciò a sfidare gli amici, poi a sconfinare nei paesi vicini per garette minori. Aveva sedici anni. Un problema al fegato fece dire a certi medici che era meglio se si fosse dimenticato di questo sport. Ma poi, Learco riprese a pedalare. Era in gamba, batteva tutti: il fisico possente gli garantiva tenuta e fiato. Non avendo intorno altro che terra piatta, sarebbe divenuto un passista formidabile. Non volle mai specializzarsi in salita, anche se pensava di avere i mezzi per non sfigurare nelle ascese. Aveva ragione, naturalmente, e lo dimostrano i due secondi posti al Tour del 1930 e del 1933 e la vittoria nel Giro del ’34.


Fu subito chiamato “la locomotiva umana”. Questo neologismo lo inventò Valdo Cottarelli, giornalista. Gli venne spontaneo immaginarlo come un treno: quando partiva, nelle volate o negli inseguimenti, esibiva una progressione fenomenale cui era pressoché impossibile resistere. Faceva così anche quando si allenava: partiva da casa, passava a prendere gli audaci che intendevano imitarlo e si metteva in testa a tirare; non dava mai cambi, non si girava indietro a vedere chi via via si arrendeva, era capace anche di farsi 200 chilometri filati. Era di una tenacia feroce, aveva una volontà di ferro, era un combattente nato. Henri Desgrange gli avrebbe dedicato entusiastici editoriali, stupito dalla capacità di resistenza e dalla voglia di lottare mostrati da questo velocista italiano sul Tourtmalet e sugli altri mostri della sua corsa.
Guerra l’aveva scoperto Girardengo, quando “il Campionissimo” stava chiudendo la sua parabola, verso la fine degli Anni Venti. Lo fece assumere dal cavalier Maino e lo affidò alle cure di Cavanna, che gli insegnò a respirare e a tonificare i muscoli con bagni di aceto e sale. Fatale che questo mantovano godesse poi delle simpatie dei tifosi del Gira, umiliati negli ultimi tempi dallo strapotere di Binda, varesotto di Cittiglio. Binda, muratore anche lui come Guerra, anche lui della classe 1902 ma più vecchio di 64 giorni, aveva potuto cominciare a correre molto prima di Guerra. Aveva una classe immensa ed era imbattibile in salita. Quando nel 1929 il mantovano si affacciò alla ribalta Binda aveva già vinto un campionato del mondo e quattro Giri d’Italia oltre alle maggiori classiche. L’avvento di Guerra, come fenomeno emergente del ciclismo italico, fu accolto da tutti con grande sollievo. Binda ammazzava le corse, il ciclismo rischiava di affogare nella noia: questo Guerra poteva essere il vendicatore di Girardengo e il contraltare dello spietato e freddo cittigliese, detto anche “il dittatore” o “il grande antipatico”. Qualcuno ha scritto che Guerra ha rappresentato l’ancora di salvezza del nostro ciclismo. Di sicuro diede del filo da torcere al superbo avversario, attivando fra il 1930 e il 1934 una rivalità che divise in due l’Italia e fece impazzire i tifosi: “il campione dell’aristocrazia”, il Binda impeccabile e superbo, contro “il campione del popolo”, il Guerra estroverso, facile alla risata, mai domo.
I tifosi di Learco seguivano il loro pupillo cantando una strofa che divenne popolarissima: “Lo disse Socrate, lo confermò Virgilio / che un solo Mantovano val cento di Cittiglio”. Arrivarono a cantarla persino i napoletani quando Guerra vinse per tre edizioni di fila il Giro della Campania (dal 1932 al 1935, nel 1933 non si disputò): un po’ perché questo campione pareva essersi affezionato alla corsa della loro terra e molto perché aveva preso l’abitudine prima del via di dare numeri del lotto vincenti. 

Campione del popolo Guerra lo fu davvero avendo più di altri inciso l’immaginario popolare: per cinque anni in fila – dal 1931 al 1934 – vestì la maglia tricolore di Campione d’Italia, che allora si conquistava con una serie di prove; fu il primo a indossare la maglia rosa del Giro d’Italia, quando fu istituita nel 1931 e la indossò proprio al termine della tappa Milano-Mantova, davanti alla sua gente. Altri entusiasmi aveva suscitato nel 1930, al Tour de France. Desgrange aveva progettato sconvolgenti novità per quell’edizione: squadre nazionali con la maglia della propria bandiera e per la prima volta la carovana pubblicitaria. Erano otto gli italiani spediti a Parigi: Piemontesi, Belloni, Pancera, Frascarelli, Gremo, Giuntelli, Guerra e Binda. Le attese del clan italiano erano grandi: da quando Bottecchia aveva stupito il mondo, nessuno era più riuscito a fare imprese degne di rilievo. Per tutti, destinato al successo era Binda. Gli avevano proibito di partecipare al Giro d’Italia per manifesta superiorità (e in cambio gli avevano pagato le stesse 22.500 lire del vincitore), gli avevano ordinato di vincere per incrementare all’estero il mito della “sana gioventù fascista” ma lui proprio non ne aveva voglia: pensava al Mondiale, che negli ultimi due anni gli era stato strappato da Ronsse. Correva e ogni giorno pensava al ritiro. E intanto Guerra si dava daffare: alla seconda tappa aveva indossato la maglia gialla, l’avrebbe tenuta fino all’ottava. Pur di farlo restare al Tour, Desgrange aveva garantito a Binda un ingaggio spropositato, ogni tappa gli era pagata come una riunione in pista. Binda vinse a Pau e a Luchon e poi se ne andò, non prima di aver aiutato Guerra a superare Alpi e Pirenei senza troppi danni. Guerra vinse tre tappe, alla fine fu secondo a 14’13” da Leducq, prese a schiaffi Charles Pelissier colpevole di aver ostacolato Binda in una volata e alla fine ringraziò pubblicamente il cittigliese per la collaborazione. L’avrebbe ripagato qualche mese dopo al Mondiale di Liegi, proprio nella città di Ronsse: arrivarono in quattro, Stoeppel, Ronsse, Guerra e Binda; Guerra lavorò per Binda, lo riportò sotto quando cadde per via di un cane che attraversò la strada, gli tirò la volata che lui avrebbe potuto vincere facilmente.

 Si rifece l’anno dopo, al Mondiale del 1931 e senza bisogno di aiuti altrui. Per la prima e l’unica volta la maglia di campione del mondo veniva attribuita in una gara a cronometro. La distanza era mostruosa, 172 km, si correva sulle strade pianeggianti di Copenaghen. Per l’Italia in gara erano Guerra, Binda e il giovanissimo mantovano Battesini. Una giornata di sole, strade piatte e ben asfaltate: l’ideale per la Locomotiva Umana. Guerra partiva alle 7 e 22, Binda alle 7 e 32. Al primo controllo, Guerra era già primo: 54 km alla media di 41,532. Le difficoltà vennero dopo, quando il percorso puntò verso nord: vento teso e freddo in faccia, molti ne restarono vittime, persino Guerra rischiò la crisi ma una banana propostagli da Girardengo gli ridiede forza. Vinse alla media dei 35 all’ora lasciando a 5’ il francese Le Drogo, Battresini fu quarto, Binda sesto a 7’ e allo stremo delle forze. C’è un episodio poco conosciuto legato a questa corsa. La Torpedo aveva proposto a Guerra di montare sulla sua bicicletta un innovativo freno contropedale, in cambio di una consistente contropartita in denaro. Guerra accettò, naturalmente, salvo poi scoprire che il marchingegno appesantiva troppa la sua macchina. Così, di notte, aiutato da Battesini, andò a togliere il freno futuribile dalla sua bici: naturalmente poi avrebbe detto che la sua vittoria era anche dovuta alla Torpedo… Quel Mondiale fu la consacrazione di Guerra nel firmamento dei campioni. Aveva già 29 anni ma le sue imprese erano appena iniziate. In quello stesso 1931 vinse 4 tappe del Giro, l’anno successivo ne vinse 6, nel 1933 si aggiudicò altre tre tappe del Giro e 5 del Tour: arrivò secondo anche quella volta, nella corsa francese, a soli quattro minuti da Speicher, e lasciandosi alle spalle gente come Vicente Trueba detto “la pulce dei Pirenei”  e Antonine Magne.
 Un grande, tale da far dire a Binda: “E’ un rivale forte, temibile, onesto e corretto”. Un grande che però pareva non essere in grado di vincere una corsa a tappe. Per tutti era l’uomo delle corse di un giorno. Sfatò questa diceria nel 1934 aggiudicandosi il Giro d’Italia: vinse 10 delle 17 tappe, trionfò per soli 51” su Camusso che una giorno al controllo di rifornimento di Pescara si sentì apostrofare da un commissario di polizia in questo modo: “Ma voi chi credete di essere, Guerra?”. Ecco: Guerra era all’apice della popolarità. Un mito, in un’era popolata da giganti dello sport: Nuvolari e Varzi vincevano negli autodromi del vecchio e del nuovo continente, la Juventus e l’Ambrosiana duellavano negli stadi, Carnera diventava campione del mondo, Beccali dominava il mezzofondo Olimpico. E Guerra era alla pari con questi campioni. 
Vinse il Giro proprio nel giorno in cui l’Italia del calcio diventava campione del Mondo: sulle prime pagine dei giornali i due eventi ebbero pari dignità. La grande impresa di Guerra era stata quella di riuscire finalmente a sopperire le deficienze in salita con le sue doti di stratega. Scrisse Colombo sulla Gazzetta: “Atleta del popolo, prediletto dalla folla, acclamato, benvoluto, incitato come forse non fu mai nessun altro, Guerra ha anche saputo essere un tattico di prim’ordine”.
Colse l’ultima vittoria nel 1937, in una tappa del Giro, corse fino al 1940, a 42 anni vinse il titolo italiano dietro motori. Intanto era già spuntata la stella di un altro supercampione: Gino Bartali. Dopo, costruì biciclette col proprio nome e lanciò talenti come Koblet, Gaul, Adorni. Fu colpito dal morbo di Parkinson e morì giovane, il 7 febbraio del 1963.

Nessun commento:

Posta un commento