giovedì 10 ottobre 2013

STORIE IN BICI - Testa di vetro

C’era un sole dolce, quel giorno maledetto del 1944 in cui si correva la Parigi-Roubaix. Era il 9 aprile e intorno c’era un acre sapore di guerra: la Francia era libera per metà, lo sbarco in Normandia sarebbe avvenuto esattamente due mesi dopo, lo sport si trascinava fra sentimenti contrastanti, di paura e di esaltazione. Dieci corridori erano andati in fuga e Jean Robic, “il piccoletto delle Ardenne”, li inseguiva come una furia. Era al suo secondo anno di professionismo, aveva nemmeno 23 anni e un coraggio da leone: alla fine della guerra gli avrebbero dato la medaglia della Resistenza perché, nascosti nel telaio della bicicletta, aveva recapitato messaggi ai partigiani francesi oltrepassando le linee tedesche con la scusa degli allenamenti. Bartali in Italia aveva fatto qualcosa del genere. Fu nell’attraversamento di Amiens che “Jeannot” scivolò sulle rotaie del tram. Una caduta rovinosa, il capo sbattuto violentemente sul selciato, le auto che scartavano e frenavano per non passargli sulle gambe. Si rialzò un po’ stordito, circondato dalle cure dei curiosi e dei meccanici. Dopo un po’ disse che stava bene, risalì in bicicletta nonostante un feroce mal di testa. Sarebbe accaduto sette anni dopo anche a Serse Coppi, ma “Gilda” ne morì. Robic invece montò sulla sua macchina e guidò fino a Parigi. La mattina dopo, avendo ancora mal di testa, andò in ospedale a farsi dare un’occhiata. L’operarono d’urgenza, aveva due fratture, gli trapanarono il cranio: per i medici, che fosse sopravvissuto aveva dell’incredibile. Fu da quel giorno che Jean Robic ricominciò a correre con un caschetto di cuoio in testa. Lo chiamarono “Tete de cuir”, testa di cuoio. Più tardi l’avrebbero chiamato “Testa di vetro”, perché si sarebbe rotto la testa una seconda volta, nella Ronde de France del 1946, e di lì alla fine della carriera avrebbe contato altre 11 fratture. Si divertiva a elencarle ai giornalisti: frattura alla mano destra nel ‘48, rottura di un’arcata sopracciliare nel ‘50, clavicola sinistra spezzata nel ‘52, quattro vertebre incrinate nel ‘53 nella discesa del Galibier, due fratture al naso non ricordava quando, frattura del femore destro nel 1956. “Non m’importa - diceva - le mie gioie più grandi le devo al ciclismo”.
Era davvero un innamorato della bicicletta. Figlio di un carpentiere di Mobihan trapiantato in Bretagna, piccolo e gracile, secondo le intenzioni del genitore avrebbe dovuto imparare il mestiere di carradore. Invece marinava scuola e lavoro per andare a vedere le corse e correre lui stesso. Aveva 15 anni e le braghe corte quando cominciò a farsi notare nelle gare locali. A 19 anni, nel 1940, se ne andò a Parigi a fare il meccanico nella bottega di biciclette di Sausin, un vecchio corridore in pensione. Sfidò le speranze ciclistiche della capitale con successo, tanto che lo convinsero, nel 1943, a passare professionista. Correva per la “Génial Lucifer” e mai marca di bici fu più adeguata a un ciclista. Era un funambolo, scartava le buche nelle strade sollevando le ruote, saliva sui marciapiedi, zigzagava di qua e di là. A fine carriera si sarebbe anche esibito nei circhi. E non é un caso che fosse diventato un asso del ciclocross tanto da vestire la maglia iridata della specialità o che vincesse le gare dietro motori.
Era uno scalatore e il suo stile di corsa rifletteva il suo temperamento. Fra i suoi vari soprannomi c’è anche quello di “Biquet”, il capretto. Non faceva calcoli, se si sentiva di fare mattane partiva subito dopo il via e quando se ne andava era difficile stargli dietro. Aveva una formidabile capacità fisica e mentale di sopportare il dolore e la fatica. Era un combattente straordinario, a dispetto delle sue dimensioni, dotato di una volontà feroce e a questo dovette la sua popolarità: alla gente piaceva un tipo così, capace di sfidare i grandi, di buttare il cuore oltre la sofferenza. Nel Tour del ‘52 fu il primo francese dietro a Coppi, vinse la tappa di Avignone staccando Bartali di quasi due minuti, all’Alpe d’Huez fu secondo solo al grande Fausto e la gente andò in delirio. Nel Tour del ‘53 conquistò la maglia gialla a Luchon stracciando Bobet e Bartali. 

In 18 anni di carriera non ha vinto molto, 30 corse, ma quando annunciò di voler appendere la bici al chiodo ci fu il rimpianto di tutti. Tranne che di quelli con cui aveva questionato, ed erano tanti. Per questo al Tour solo una volta fu inserito nella Nazionale francese. Altrimenti, sempre in una squadra regionale. Al via del Tour 1947 giurò che l’avrebbe fatta pagare a Vietto che nella Monaco-Parigi dell’anno precedente aveva favorito il suo allievo Apotre (detto Apo, era di origine greca) Lazarides anziché lui. Nel Tour del 1948 irrise Bartali che era staccato di una ventina di minuti in classifica, mettendosi a scorazzare con una moto davanti all’hotel del toscano. Nel 1953 se la prese con Coppi, reo di aver aiutato Ockers e Fausto gli rispose con una lettera aperta sui giornali. Odiava Bobet e Geminiani, polemizzava con i giornali e i direttore sportivi. Oltre che Testa di vetro cominciarono a chiamarlo anche “Testa di legno”. Era matto, Jean Robic. E nel 1947 fece impazzire tutta la Francia. Perché vinse quella corsa all’ultimo giorno e senza aver mai indossato la maglia gialla quando ormai pareva che gli italiani avrebbero concluso in trionfo. Vale la pena raccontare nel dettaglio questa storia, perché fu una storia da brividi.
Si correva dopo otto anni di interruzione e molte cose erano cambiate. Il giornale organizzatore L’Auto era scomparso e al suo posto c’era L’Equipe. Era morto Henry Desgrange e il patron era Jacques Goddet. La squadra francese comprendeva il giovane Bobet e i vecchi draghi Vietto, Fachleitner, Teisseire. Robic non era stato preso in considerazione ed era stato relegato nella formazione dell’Ovest. “Lo so che mi considerano un rigolo, un fanfarone - minacciò - ma vedremo come andrà a finire...”. Si era sposato quattro giorni prima del via con la figlia di un ristoratore di Montparnasse e nessuno gli dava credito anche per questo. Per i giornali, i grandi favoriti erano “le roi” Vietto e Fachleitner; Combat puntava sul debuttante Bobet e Paris Presse su Ronconi. La squadra italiana non riscuoteva molta considerazione: assenti Coppi e Bartali, gli uomini di punta erano il passista-scalatore Ronconi e Cottur; i tricolori - guidati dal giornalista Guido Giardini - erano stati rinforzati con la presenza degli italo-francesi Brambilla e Tacca. Era un Tour duro ma propenso a venire incontro ai più arditi: un minuto di abbuono a chi passava per primo sui colli di prima e seconda categoria. Robic, oltre che sulla propria rabbia, contava anche su questo. Era uno scalatore: saliva ondeggiando con le spalle e con la testa, cambiando traiettoria, sembrava sempre sul punto di morire ma poi mordeva la strada come pochi.

Fu un Tour bellissimo, quello, ricco di colpi di scena. L’inizio sembrò confermare i pronostici della vigilia. Già alla seconda tappa, a Bruxelles, Vietto era in giallo. Avrebbe poi resistito a un furibondo attacco di Ronconi, nella quinta, nel momento in cui si era fermato per un “bisogno”. Una simile ingenuità sarebbe stata fatale nel Giro ‘57 a Charly Gaul ma a “le roi” costò solo il pericoloso avvicinamento dell’italiano in classifica: 1’22”. Robic, che aveva dato un saggio delle proprie intenzioni arrivando a Strasburgo solitario con un minuto su Kubler, in classifica era distanziato già di un quarto d’ora. Ma aspettava con fiducia il giorno giusto per la stangata.
Il giorno giusto fu il settimo, con la Lione-Grenoble. “Biquet” attaccò come un forsennato sul Cucheron e fece una strage: Brambilla e Fachleitner arrivarono a oltre 4’, Ronconi a 6’, Vietto a 8’24”. Il sorprendente corridore romagnolo vestì la maglia gialla ma la dovette cedere di nuovo a Vietto due giorni dopo, nella Briançon-Digne con l’Izoard, il Vars e l’Allos. Quel  giorno Robic, caduto nella discesa del Vars, arrivò a 6’30” e in classifica ripiombò indietro. Testa di vetro non se ne preoccupava molto: aspettava la crisi di Vietto, che puntualmente venne all’indomani, verso Nizza. La maglia gialla scalando i colli a lui famigliari del Braus e della Turbie perse sei minuti: a sua scusante, il fisico debilitato dalla penicillina assunta per curare l’incisione di un foruncolo. Intanto la spocchia e la presunzione di Robic avevano fatto sì che il minuscolo bretone venisse isolato nella sua squadra. Ogni giorno andava dicendo che “je me sens irresistible” sicché alla fine i suoi compagni lo lasciarono solo: se sei così forte, argomentarono, non hai certo bisogno di noi.
In effetti, per le sue stramberie Robic non aveva bisogno di nessuno. Lo dimostrò sui Pirenei, tappa numero 15, Luchon-Pau di 195 km. Scappò dopo 5 km e lo rividero solo al traguardo. Fu una cavalcata esaltante lungo le salite e le discese del Peyresourde, dell’Aspin, del Tourmalet, dell’Aubisque. Era il suo giorno di grazia, saliva con un fazzoletto in testa sotto il casco di cuoio, sembrava un legionario proiettato nell’avventura della vita. Arrivò a Pau con 10’43” su Vietto, Ronconi, Brambilla, Fachleitner e Goldschmit. E 5 minuti di abbuono li aveva guadagnati scavalcando per primo i colli. Ciononostante la classifica vedeva Vietto con 1’54” su Brambilla, 3’55” su Ronconi e 8’08’ su Robic. La battaglia, dicevano i cronisti, era fra i primi tre, le salite erano finite e quel matto di Biquet non aveva più terreno per fare esplodere le sue mine. Niente di più sbagliato. Perché la 19.a tappa, Vennes-St.Brieuc, una incredibile cronometro di 139 km, rivoluzionò la classifica. Vinse Impanis, ma Robic fu secondo a 4’54”. Ronconi arrivò a 6’32 e Vietto a 15’. Il cannese si era accordato con un amico perché gli segnalasse i tempi lungo il percorso. E a un certo momento “le roi” vide l’amico a terra vicino alla sua moto, il cranio fracassato: si era schiantato contro un paracarro. Questo l’aveva distrutto. Brambilla era la nuova maglia gialla con appena 53” su Ronconi, 2’58” su Robic. Vietto era a 5’06, poi c’era Fachleitner. 

L’ultima tappa, Caen-Parigi di 257 km, secondo logica avrebbe dovuto  vedere il sensazionale arrivo dei due italiani sotto l’Arco di Trionfo. Ma i francesi non ci stavano, questione d’orgoglio. Così quando sulla salitella di Bonsecours, all’uscita di Rouen, Brik Schotte e Teisseire sferrarono un attacco, Fachleitner che era quinto in classifica a oltre 8’ fu il primo a  muoversi. Brambilla e Ronconi persero quei venti metri che poi sarebbero diventati 100 e poi 500, fatali insomma. Robic invece fu svelto a mettersi a ruota di Fachleitner. Mentre Schette volava verso Parigi aumentando il proprio vantaggio, Brambilla e Ronconi piombavano in una crisi irreversibile. E Robic a un certo punto si ritrovò maglia gialla. Ma non ancora sul podio. Fu allora che avvicinò Fachleitner e gli disse: “Non mi scappi, ormai non puoi più vincere il Tour. Stai tranquillo e ti dò centomila franchi”. Fach, abbandonato l’impossibile sogno, accettò. A Parigi, Robic e compagnia arrivarono 7’ dopo Schotte ma Brambilla e Ronconi di minuti ne contarono 13. Fu così che quel piccolo orgoglioso bretone vinse il suo Tour senza aver indossato un giorno la maglia gialla. Fachleitner fu secondo a 3’58”, poi Brambilla, Ronconi e il povero Vietto.
Quel successo gli regalò gloria, popolarità e denaro (comprò alla madre un negozio di merceria). Disputò l’ultimo Tour nel 1959, si ritirò a due giorni dalla fine perché arrivato fuori tempo massimo. Corse fino ai 40 anni, portando in gruppo e fra la gente la grinta, la follia, il coraggio e l’irrazionalità. Quando smise, disse che si sentiva morire. Morì nel 1980, a 59 anni. Naturalmente non nel suo letto, ma in un incidente stradale mentre tornava da una corsa di gentlemen.






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