sabato 5 ottobre 2013

STORIE IN BICI - Il re del fango

Era lombardo di Induno Olona, lo chiamavano “Luisin” ma era grande e grosso. E resistente a ogni fatica, al caldo e al freddo. Sicché per lui andare in bicicletta era più un divertimento che uno sforzo. Lavorando come muratore in un cantiere di Milano, anziché prendere il treno preferiva pedalare ogni giorno per cento chilometri. Aveva 17 anni quando compiva questa impresa quotidiana, era il 1900, e Luisin Ganna fantasticava sugli eroi delle corse di cui sentiva parlare in giro e che erano sempre più numerosi. Non era passato molto tempo da quando Il Pungolo aveva scoperto con qualche meraviglia che “colle strade piuttosto cattive si possa col velocipede percorrere un chilometro in tre minuti, cosa che a stento si può raggiungere con un buon cavallo”. Adesso quella del velocipede era diventata una vera mania. In circolazione ce n’erano 107 mila e sarebbero diventati di più col passare degli anni, tanto che nel 1908 sarebbe stata istituita una tassa annuale di 10 lire per biciclette a una persona e di 15 per quelle a più di una persona, e varato una specie di codice stradale: ”I velocipedisti devono scendere dal velocipede e condurlo a mano nelle strade strette”, in presenza di cavalli che potevano imbizzarrirsi, di cantieri o di gruppi di persone a piedi. El Luisin cominciò a correre da clandestino perché i suoi giudicavano una perdita di tempo quella attività. Si convinsero del contrario il giorno del 1905 in cui il ragazzo gli portò a casa 18 lire: al Giro di Lombardia, il primo, si era piazzato dietro Gerbi e Rossignoli e mentre nel cortile di un’osteria si stava levando dalla pelle il fango della corsa, qualcuno gli aveva messo in mano quel tesoro. Gerbi aveva vent’anni ed era già un mito delle folle. Lo chiamavano “il diavolo rosso” per via del colore della maglia che peraltro si addiceva alle sue diaboliche trovate. Aveva vinto quel Lombardia con una fuga solitaria di 200 km nella nebbia e si era fregiato del titolo di “miglior corridore italiano del momento”. Ganna, 22 anni, era una scoperta: era arrivato 40’ dopo ma aveva stupito tutti per la tenacia posta nell’inseguimento. Così la Bianchi lo ingaggiò con uno stipendio di 200 lire al mese. 

Allora i giornali lo chiamavano ancora “il buon Ganna”: era tanto grosso quanto taciturno. Non chiacchierava o provocava come Gerbi, era un tipo concreto. Divenne uno dei “Tre moschiettieri” quando nel 1907 assieme a Pavesi e Galetti affrontò la grande avventura del Tour, convinto da Petit Breton. Arrivò alla fine solo Pavesi, sesto in classifica, ma punto nell’orgoglio Ganna ci riprovò l’anno dopo e si piazzò quinto: un segno di maturità atletica. Dovendo trascinare un bel peso, era lento a mettersi in moto ma poi sul passo e nel finale delle corse era capace di azioni travolgenti così come in volata, dove partiva da lontano. In salita sfiancava gli avversari. Era contemporaneo dei Cuniolo e dei Rossignoli, Gerbi e Pavesi, Galetti e Van Houwaert, Garrigou e Truosselier: una bella schiera di fenomeni in cui Luisin stava entrando a pieno diritto. Tanto più quando nel 1908, sulla pista in legno del velodromo di Porta Ticinese fissò il record italiano dell’ora in oltre 40 chilometri. Fu l’impresa che convinse Gatti, uscito dalla Bianchi, a fondare una nuova squadra, l’Atala, per consentire a Ganna di esprimersi al meglio. E per incoraggiarlo, assieme alla nuova maglia grigio-blu gli assegnò un fisso mensile di 250 lire. 

Il corridore lombardo lo ripagò subito vincendo alla grande la Milano-Sanremo del 1909 a tempo di record, 30.420 km/h. Era scappato sul Turchino, a 100 km dal traguardo, e aveva lasciato il francese Georget a 3’: era il primo italiano a vincere la corsa di primavera. A quel punto, Ganna era il nuovo idolo degli appassionati di velocipedismo. Anche perché Gerbi era rimasto fermo per squalifica per quasi un anno. Era successo che il Diavolo Rosso aveva vinto il Lombardia del 1907 esagerando in...astuzia. Andato in fuga, non era più stato raggiunto grazie alla complicità di un casellante suo amico  che aveva abbassato le sbarre di un passaggio a livello davanti agli inseguitori. Una certa quantità di chiodi disseminati sulla strada da altri amici aveva poi rallentato la rincorsa. Sicché Gerbi era arrivato al traguardo da trionfatore con sette minuti sul francese Garrigou. Naturalmente era stato tolto dall’ordine d’arrivo. Quando rimontò in sella, a metà del 1908, si ritrovò spodestato da Ganna nelle simpatie della gente. ”Adesso facciamo i conti”, gli disse il giorno che nella Corsa Nazionale si ritrovarono soli in fuga. Tentò di scrollarsi dalla ruota il lombardo zigzagando pericolosamente e urlando: “Mettiti di fianco e vediamo chi ha più forza, é venuta l’ora di pareggiare i conti”. Tanto fece che Ganna cadde e Gerbi andò a vincere davanti a Galetti, il che contribuì ad alimentare la popolarità del colosso lombardo. Nel tempo, sarebbe stata la sua indomita volontà di combattere a mantenere in vita gli entusiasmi attorno a sé.

Nella Sanremo del 1910 si trovò a battagliare, unico italiano, contro lo strapotere degli stranieri: Van Houwaert, Faber, Lapize, Christophe, che poi avrebbe vinto. Il Moschettiere ingaggiò un duello epico con quest’ultimo lungo le serpentine di Campoligure e Rossiglione, uno di qua e uno di là della strada, “guardandosi in cagnesco”, scrissero le cronache. Pioveva e nevicava quel giorno, alla fine sarebbero arrivati a Sanremo soltanto in sette. Fu una battaglia terribile e affascinante nella sua crudeltà. Ganna, raccontò Vittorio Varale, “venne su percorrendo a piedi gli ultimi cento metri, sbocconcellando una fetta di torta di riso; lo seguiva adagio un’automobile che schizzava fango da tutte le parti”. La gente andò in delirio per quell’omone, che pure era arrivato 25 minuti dopo Christophe, un altro che pareva votato al martirio. Il francese sarebbe passato alla storia tre anni dopo quando, in fuga con una ventina di minuti di vantaggio nella Bayonne-Luchon del Tour, cadde e ruppe la forcella: si mise la bici in spalla, camminò per 14 chilometri finché non trovò in un villaggio la bottega di un maniscalco; lì riparò il guasto e ripartì tre ore dopo. 

Ganna invece era entrato nella leggenda nel 1909, vincendo Giro d’Italia. Era la prima volta che in Italia si correva una corsa a tappe e l’attesa fra la gente era spasmodica. I corridori erano visti come temerari avventurieri in marcia verso l’ignoto, non meno eroi di Bleriot che quell’anno per la prima volta aveva affrontato col suo biplano la traversata della Manica o di quei pazzi che l’anno prima  in automobile si erano sfidati in un folle raid da New York a Parigi. Gli eroi del velocipede dovevano darsi battaglia su 2.408 chilometri di strade sterrate e piene di buche, facendo tappa a Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino e Milano; dovevano attraversare campagne, boschi, montagne e affrontare le incognite di discese terribili. La Gazzetta dello Sport, giornale organizzatore della corsa, alla vigilia del via pubblicò un comunicato significativo: “Corridori!! L’ora é prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e vi attendono”. Il drammatico pistolotto si concludeva così: “Più che il premio, vi sia di incitamento l’amore puro per lo sport”.
Per quanto amanti dello sport, i 127 corridori al via piuttosto avevano l’occhio ai premi. Chiunque portava a termine ognuna delle 8 tappe intascava 100 lire. Se vinceva, erano 300. Niente male, se si considera che Armando Cougnet, direttore del Giro, amministratore e caporedattore della Gazzetta aveva uno sipendio di 150 lire al mese. In complesso, il montepremi era di 65-70 mila lire: 18.900 della Gazzetta, 3.000 del Corriere della Sera, 1.000 di Vincenzo Lancia, altre 1.000 dell’Unione Velocipedistica; poi c’erano altre migliaia di lire elargite dalla Wolber, dalla Pirelli, dalle varie Case. Insomma, c’era di che sistemarsi. Le squadre ufficiali erano cinque: Bianchi (di Gerbi), Atala (di Ganna), Stucchi (di Petit Breton e Trousselier), Rudge Whitworth (di Galetti) e la Labor. Poi, la marea degli isolati in cerca d’avventura e di fortuna, gente anche di più di quarant’anni come il bolognese Nanni, 4 figli e moglie a carico. Si doveva correre ogni tre giorni, perché la Gazzetta era trisettimanale: gli intervalli servivano a curare gli acciacchi e riparare le bici. Nei giorni di corsa, le notizie arrivavano a Milano attraverso dispacci telegrafici  che l’organizzazione appendeva nelle vetrine della Lancia-Lyon Peugeot in Piazza Castello. I pochi che avevano il telefono, potevano aggiornarsi chiamando il 3368. Nelle città sede di tappa, manifesti appiccicati ai muri e ai negozi informavano dove sarebbero arrivati i corridori e che strade avrebbero percorso. Un colpo di cannone o la cornetta di un cantoniere avvertiva quando gli eroi erano in prossimità del traguardo. I corridori potevano mangiare soltanto ai rifornimenti ufficiali e durante le tappe dovevano firmare almeno due fogli di controllo, giusto perché qualcuno non andasse disperso o non prendesse scorciatoie. Tale Brambilla fu squalificato il secondo giorno perché fra Ancona e Grottammare aveva preso un treno. Non si teneva conto dei distacchi, contava il piazzamento al traguardo.
Fu un’avventura sportiva che cucì l’Italia da Milano a Napoli col filo dell’entusiasmo. Erano in ventimila al traguardo di Firenze, a Torino si dovette anticipare l’arrivo di qualche chilometro perché ad aspettare gli eroi erano in 50mila. Si partiva di notte o poco prima dell’alba e ciononostante la gente era fuori nelle strade, le botteghe erano aperte e illuminate dalle lampade al magnesio. Il corriere Pattini & Magnani si incaricava di raccogliere i vestiti dei corridori la sera prima di ogni tappa e di portarli nella sede d’arrivo successiva. Erano le 2.53 del 13 maggio quando la sferragliante comitiva partì da Milano. I velocipedi erano senza cambio, un solo rapporto per pianura, montagna e discesa. Al seguito, 3 vetture: la Züst dell’organizzazione, una Bianchi con i tecnici delle Case ufficiali e una Itala con tre giornalisti. 


Quel Giro visse sull’appassionante duello fra Ganna e Galetti e di mille colpi di scena. Gerbi cadde 1.500 metri dopo il via per evitare un bambino: ruppe la sua Bianchi, si fece portare in macchina alla sede della Bianchi, la riparò e ripartì tre ore e mezza dopo. Si sarebbe ritirato alla 6.a tappa, verso Genova, sfiancato dalla fatica e dalla jella. Petit Breton, il grande favorito, il vincitore del Tour 1907 e 1908, si ruppe una spalla cadendo a Peschiera mentre verso le otto di mattina correva addentando una coscia di pollo. Pavesi, compagno di Ganna, si sentì male nella seconda tappa e fu riaccompagnato a Bologna in macchina da Giovanni Reicevich, il gigante triestino che sarebbe diventato in quell’anno campione del mondo di lotta libera stroncando il francese Pons. Fu drammatica la Chieti-Napoli, con la traversata dell’Appennino: si ritirarono in 25, stramazzati dalla fatica e dalla fame, poveri fantasmi lividi di polvere e sudore. Ganna dominò a Firenze, Roma, Torino e per tutti divenne un Re: il re del fango. Ma Galetti era sempre lì, a due o tre punti. Nella Torino-Milano, ultima tappa, quando Ganna forò Galetti sferrò l’attacco decisivo. Fu fermato a un passaggio a livello da un casellante inflessibile: non faceva passare nessuno e così Luisin poté riagguantare l’avversario. Arrivarono all’Arena, Galetti si lanciò in una volata disperata ma fu ostacolato da una guardia a cavallo. Vinse Beni, davanti a Galetti e a Ganna e Luisin iscrisse il proprio nome in cima all’albo d’oro del Giro. “Dimmi la tua prima sensazione”, gli chiese un cronista trafelato pronto a trascrivere sul taccuino la frase storica del vincitore. E Luisin, stralunato, rispose: “Me fa mal el cü”. 
Galetti si sarebbe rifatto vincendo nel 1911 e 1912. Ganna, come del resto Gerbi, avrebbe messo a frutto i soldi guadagnati aprendo una fabbrica di biciclette: correva ancora, nel 1913, quando, dalla sua stanza-laboratorio di Varese i suoi sette operai cominciarono a produrre tre “Ganna” al giorno. Fu allora che cominciarono a chiamarlo “el sciur Luis”. Sarebbe scomparso nel 1957.





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