domenica 6 ottobre 2013

STORIE IN BICI - Il Dittatore


Quella di Alfredo Binda, tre volte campione del mondo e vincitore di cinque Giri, è la storia esemplare di un uomo di successo, capace di districarsi con freddezza e intelligenza fra le tempeste più diverse nelle due vite vissute. La sua figura ha attraversato le passioni degli italiani dagli Anni 20 agli Anni 60: prima nelle vesti di campione-simbolo dell’Italia che vince nell’era fascista, e poi come “Napoleone della bicicletta”, alla guida di una Nazionale agitata dalle rivalità di tipi tosti come Bartali, Coppi e Magni. 

Oggi raccontiamo il Binda corridore che, spedito a 17 anni dal padre a Nizza per imparare il mestiere di stuccatore, in Francia comincia a vincere e a sorprendere. I transalpini fingono di non sapere che quel ragazzo viene da Cittiglio, Varese: quando vince suonano le campane e sui giornali se lo coccolano come “francese”. Il giorno del 1923 che il grande Gigardengo, Belloni e Sivocci se lo trovano sulle rampe della Nizza-Mont Chauve, ne escono sfatti. “Se quello lì viene in Italia ci fa fuori tutti”, mormora il buon Belloni. In Italia Binda verrà per la prima volta a 22 anni,  per il Giro di Lombardia del 1924, attirato dalle 500 lire promesse a chi passa primo sul Ghisallo. Le intasca tanto facilmente che Pavesi lo ingaggia subito per la Legnano. E pochi mesi dopo, nel 1925, il debuttante Binda vincerà il suo primo Giro lasciando Girardengo a 5’, Brunero a 7, Belloni a 26.

E’ stata appena ufficialmente instaurata la “dittatura del fascismo”, Binda non è ancora consapevole di avere instaurato la sua dittatura personale. Quel Giro del ’25 sarà infatti l’inizio di un dominio che durerà per otto anni e che all’inizio costituirà la risposta italiana ai successi francesi di Bottecchia. Per inquadrare le giuste dimensioni delle imprese del varesino bisogna fare un salto in avanti di cinque anni, fino a un mattino del maggio 1930. Non crede ai propri occhi quando, aperta la Gazzetta, l’Alfredo da Cittiglio non trova il proprio nome fra gli iscritti del Giro. Ha vinto alla grande le ultime tre edizioni e adesso non possono non averlo invitato. E invece è proprio così. Glielo conferma al telefono il patron della Legnano. Binda è stato escluso per “manifesta superiorità”: dopo quello del 1925 ha stravinto anche il Giro del 1927  intascando 12 tappe su 15; l’anno dopo, 7 tappe e ancora primo alla fine; e nel 1929, primato in classifica e 8 tappe consecutive nel carniere. Troppo, francamente troppo. Così la Legnano e gli organizzatori della corsa si sono trovati d’accordo: quest’uomo ammazza il ciclismo, meglio che se ne stia a casa, magari a preparare il Tour, che non ha mai corso. In cambio, gli daranno 22.500 lire che è quello che spetta al vincitore. Nella storia del ciclismo questo resta l’unico caso di un corridore pagato per non correre. Ed è un’altra perla che va ad aggiungersi alla collana di record infilata da Alfredo Binda, l’uomo chiamato “il Signore della Montagna” ma che era altrettanto forte allo sprint e sul passo. L’uomo battezzato anche “il Grande Antipatico”, per la freddezza esibita in qualsiasi frangente e la riservatezza nel privato. 
Collocato fra le imprese esaltanti del “Campionissimo” Girardengo e quelle della “Locomotiva umana” Guerra, proprio per queste peculiarità caratteriali non seppe mai coagulare attorno a sé grandi entusiasmi popolari: quando il Gira cominciò a declinare, i suoi fans si trasferirono in massa dalla parte del mantovano affidandogli il ruolo di vendicatore. Binda agli occhi della gente era il perfezionista senz’ anima, lo stilista ineguagliabile, l’elegantone che girava in Lancia Artena o in Lambda, e le sue imprese strepitose avevano il sapore di impietose mazzate all’idolo Girardengo, più vecchio di nove anni. Solo poche volte Binda riuscì a dare una scossa all’immaginario popolare. La prima fu nel Lombardia del 1926, che vinse con mezz’ora sul secondo dopo una fuga solitaria di 158 km: i giornali riferirono che il corridore aveva compiuto l’impresa grazie all’energia tratta da una dozzina di uova fresche che strada facendo aveva ingoiato dopo averne rotto il guscio sul manubrio. Questo episodio impressionò tanto la gente che Binda in seguito si sarebbe divertito a rievocarlo, sempre ingigantendo il numero delle uova: da 12 diventarono 24, poi 28. La seconda “stravaganza” ebbe per teatro la Roma-Napoli del Giro 1927. La vinse dopo una furibonda e interminabile volata e all’Arenaccia, per far vedere che aveva ancora fiato nei polmoni, prese il posto del trombettista della banda che salutava l’arrivo dei corridori esibendosi in una notevole performance. Era bravo anche lì: dall’età di 12 anni suonava la cornetta nella fanfara di Cittiglio. 

La terza uscita estemporanea del “grande antipatico” fu al Giro del 1933. A quei tempi la sua fama di re della montagna era in qualche modo messa in discussione da alcuni astri emergenti, come il francese Renè Vietto o lo spagnolo Vicente Trueba. Il quale, essendo piccolo e grimpeur irrequieto, era chiamato “la pulce di Torrelavega”. Ebbene, un giorno Trueba ebbe l’idea infelice di scommettere che sui monti del Giro sarebbe riuscito a togliersi dalla ruota “il grande Binda”. E l’Alfredo, che a quel punto aveva già vinto tre campionati del mondo e detestava gli sbruffoni, consumò la sua vendetta sul Tonale: attese che lo spagnolo scattasse, si lasciò staccare, si fermò sul ciglio della strada guardando il panorama come un qualsiasi turista, poi quando giudicò che la “pulce” avesse preso il giusto vantaggio, partì alla riscossa, lo raggiunse e lo lasciò. Binda vinse anche quel Giro, Trueba si piazzò 43° con un distacco di 1h35’50” (ciò che guadagnava in salita lo perdeva in discesa con gli interessi), preceduto anche da Albino Binda che di Alfredo era uno dei 14 fratelli. 
Uno dei più forti corridori mai apparsi sulle strade, questo Binda. Un cuore da 50 colpi al minuto e gambe potentissime: ancora pochi anni prima di morire sarebbe andato a sciare sul Tonale. A queste doti fisiche naturali aggiungeva di suo una ferrea disciplina, essendo cresciuto nel mito del “mens sana in corpore sano” riesumato dal regime. Lui non fumava, non beveva, non si concedeva a intrugli o pasticche. Soprattutto teneva lontane le femmine (si sarebbe sposato solo a cinquant’anni, e con una ragazza di 23). Preparava le sue gesta con scrupolo maniacale. In corsa schivava buche e sassi per non forare e per non rovinare la bici, in gruppo si metteva solo dietro una ruota amica per evitare sorprese. La sua andatura era quanto di più lineare si potesse vedere: la ruota posteriore percorreva esattamente il solco di quella anteriore. E i suoi piani tattici erano perfetti: studiava il percorso su una cartina del Touring che teneva nel taschino superiore della maglia, fissava un punto e lì attaccava quasi sempre staccando gli avversari. 

 Così fu per esempio in occasione del primo mondiale, nel 1927. Si correva ad Adenau sul circuito automobilistico del Nürburgring, il percorso faceva una deviazione per inserire una salita con pendenze al 18 per cento. Lì decise che avrebbe stroncato tutti. E questo avvenne. La nazionale tricolore era composta da Girardengo (ormai 34enne), Piemontesi, Belloni e Binda. Rimasero loro quattro al comando a pochi giri dalla fine, poi all’ultima tornata l’Alfredo partì su quella rampa micidiale. Arrivò solo, con 7’15” sul Gira, l’unico oltre a Binda a non aver messo piede a terra sull’ultima salita, quasi 11’ su Piemontesi, undici e mezzo su Belloni e fu un trionfo del ciclismo italiano che inorgoglì il regime. Lo fecero Cavaliere della Corona, gli suonarono la Marcia Reale e Giovinezza per questo e per gli altri due Mondiali vinti a Liegi nel 1930 e a Roma nel 1932: imprese che consolidarono Binda come simbolo dell’Italia anni Trenta, petto in fuori e testa alta. Ciò che rappresentava però anche enormi responsabilità.
Binda era il più un degno esponente di un’era in cui lo sport svolgeva un ruolo fondamentale per l’immagine del regime. Nessuno dei campioni, per quanto grande e famoso fosse, poteva sgarrare. Era il tempo in cui i giornali ricevevano dal Minculpup l’ordine di “non pubblicare foto di Carnera a terra” quando il gigante di Sequals fu battuto da Joe Louis. Quando nel 1932 Binda prenderà parte al GP delle Nazioni a Parigi ritirandosi dopo 76 km, verrà squalificato per un mese dalla federazione italiana per “scarso impegno”, per aver macchiato il nome della patria. E già quattro anni prima, nel campionato del mondo, lui e Girardengo erano stati squalificati per 6 mesi (poi condonati) per lo stesso motivo: avevano passato il tempo a controllarsi lasciando via libera al belga Ronsse, esattamente come avrebbero fatto vent’anni dopo Coppi e Bartali a Valkenburg. “Un monito a tutti gli sportivi che si battono e si batteranno in terra straniera”, fu definita quella squalifica.
A parte i Mondiali di Adenau e di Liegi e le annuali riunioni in pista a New York e Chicago, in terra straniera Binda correva poco. Una sola volta Binda provò il Tour, là mandato dal regime per propagandare  le virtù atletiche della razza italica. Non lo finì né vi tornò mai più. Più avanti avrebbe confidato: “Me ne sono innamorato tardi, e mi dispiace…”. Un Tour straordinario, quello del 1930. Per la prima volta ci sono le squadre nazionali, la radiocronaca diretta e la carovana pubblicitaria. Binda parte per vincere anche se Guerra ha le stesse ambizioni. La “locomotiva umana” alla seconda tappa è già maglia gialla e il varesino deve fare i conti con il gioco di squadra. Per di più alla settima tappa, la Bordeaux-Hendaye dopo una sessantina di chilometri è coinvolto in una caduta da cui esce con una caviglia gonfia, la pedaliera rovinata e un’ora di ritardo in classifica. Vorrebbe ritirarsi ma l’orgoglio è grande. La rivincita arriva subito: vince in volata la Hendaye-Pau: e il giorno successivo, nella Pau-Luchon con l’Aubisque e il Tourmalet, surclassa tutti arrivando da solo dopo aver tentato di salvare Guerra dagli assalti dei francesi e di Trueba, la famosa pulce. Quel giorno Guerra cederà la maglia gialla a Leducq, che poi vincerà il Tour davanti al mantovano. Per Binda ogni residua speranza svanirà quando nella successiva Luchon-Perpignano avrà un guaio alla sella: messo piede a terra, perso un quarto d’ora per la riparazione, non risalirà più in bici.
Dopo quella disavventura, Binda non frequenterà più le corse straniere se non raramente e solo perché attirato da ingaggi stratosferici. Vinse l’ultima corsa nel 1933 poi tirò avanti senza sussulti fino alla primavera del 1936 quando alla Sanremo cadde e si ruppe un femore. Aveva 34 anni, era appena sorto ufficialmente l’Impero italiano. E la stella di un altro grande: Gino Bartali. 








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