venerdì 4 ottobre 2013

STORIE IN BICI - L'airone caduto

Mai visto un fenomeno di tali dimensioni, si diceva di Coppi dopo l’accoppiata Giro-Tour del ‘49. E i vignettisti dell’epoca lo raffiguravano con le fattezze di un gigante, un Gulliver in bicicletta attorniato da ciclisti lillipuziani. Un atleta di tale spessore, il Campionissimo dei tempi moderni (così lo aveva etichettato Giuseppe Ambrosini fin dal 1947), pareva dovesse vivere costantemente in stretto contatto con gli dei dell’Olimpo. E invece la malasorte gli si accanì contro con perversa frequenza: alla fine della sua esistenza gli sarebbero state contate 13 fratture. Nel 1942, sei mesi dopo aver perso il padre, era caduto rompendosi la clavicola sinistra. Che si sarebbe poi fratturata di nuovo nel 1957. Nel 1943, prigioniero di guerra in Tunisia, si era preso la malaria che alla fine sarebbe stata causa della sua morte prematura. Nel 1946 si era spaccato una costola, nel 1950 il bacino.
Nei momenti più neri Coppi era solito ripetere: “Sono nato con la sfortuna addosso”. Lo diceva fissando il nulla con quegli occhi malinconici che qualcuno aveva definito “da cervo ferito”. Nel 1949 Curzio Malaparte aveva scritto che “Coppi non è protetto da una santa (n.d.a.: come Santa Teresa per Bartali), non ha nessuno in cielo che si occupi di lui”.
Non è tanto questione di sfortuna o di santi in paradiso, obiettavano i più: la realtà è che Fausto ha uno “scheletro di vetro”. Giuseppe Ambrosini un giorno l’aveva analizzato con occhio clinico. “Presa nel suo assieme – scriveva - la morfologia di Coppi è lungi dall’essere equilibrata, normale, armonica”. La sua caratteristica più notevole quella che gli fa assumere una particolarissima posizione in sella – spiegava - è la lunghezza degli arti, specie di quelli superiori che invece in un longilineo dovrebbero essere meno sviluppati”. Altre anomalie, rispetto al normotipo, erano la lunghezza dello sterno ma soprattutto “il diametro toracico antero-posteriore che porta ad una certa carenatura del torace (il cosiddetto petto di pollo) che fa pensare a fatti rachitici infantili” (…). “Le deficienze morfologiche - continuava – sono poche e tutte nella zona epigastrico-pubicave, più specialmente nella lunghezza di questa, assai scarsa, il che farebbe pensare ad una insufficienza gastro intestinale”. Anomalie fisiche e anche psicologiche, si sottolineava. Crisi di sconforto, attimi di sconcertante abulia, improvvisi cali di rendimento, cotte inspiegabili ne caratterizzarono il percorso di vita. Tipico dei purosangue, dicevano alcuni. Fragilità strutturale, asserivano altri.

Felix Levitan, per vent’anni leggendario direttore del Tour de France, un giorno se ne sarebbe uscito con una riflessione paradossale ma realistica: “Fortuna che Coppi ha avuto tanti incidenti: ce lo hanno conservato per qualche anno in più”. Infatti Coppi non se la cavava quasi mai con pochi giorni o poche settimane di convalescenza, le sue disgrazie lo portavano a lunghi periodi di inattività e dunque di riposo. Il periodo più lungo, quattro mesi, fu dopo l’incidente del 1950: triplice frattura del bacino, e Coppi fermo dal 2 giugno al 24 settembre. E’ la famosa caduta sulle Scale di Primolano, nella nona tappa del Giro, la Vicenza-Bolzano di 271 km. Le Scale di Primolano sono dette così perché costituite da una sequenza di tratti rettilinei in leggera salita cuciti da stretti tornanti: dal paese di Primolano portano su alla cima dominata dalle fortificazioni che l’esercito italiano aveva costruito a fine 800 per controllare la gola sottostante che rappresentava il passaggio obbligato dalla Valsugana, allora territorio austriaco, al territorio veneto. Il dramma si sviluppò al secondo gradino delle Scale.
Maglia rosa era lo svizzero Hugo Koblet, che poi – primo straniero – avrebbe vinto quel Giro. Ma il duello atteso sul Rolle e sul Pordoi era ancora e sempre Coppi-Bartali. I due avevano cominciato la stagione in maniera pirotecnica. Bartali (36 anni) aveva trionfato nella Sanremo e Coppi aveva replicato col Giro di Calabria. Fausto aveva poi vinto la Roubaix e la Freccia Vallona e Gino aveva risposto col Giro di Toscana. Il Giro d’Italia sarebbe dovuto essere il teatro dell’ennesima resa dei conti. E invece ci fu il dramma di Fausto, dopo poco più di 60 km dal via, alle 9.30 di mattina.
Il gruppo compatto ad andatura turistica controlla da lontano un fuggitivo incosciente e solitario, De Santi. Coppi attorniato dai suoi fedelissimi si trova affiancato ad Armando Peverelli, che nell’Atala, è gregario di Ortelli e Pezzi. Peverelli è un onesto lavoratore del pedale che un anno prima, al Tour, ha patito una terribile disgrazia: è caduto, ha sbattuto la faccia contro una roccia, ha perso un occhio, il sinistro. Da quella parte non ci vede più. E non vede Coppi quando questi lo affianca. Peverelli per evitare una vettura ha uno scarto, il suo manubrio tocca quello del campione della Bianchi; c’è uno sbandamento, le ruote si incrociano, Coppi rovina pesantemente a terra con una imprecazione. Una caduta banale, si pensa. Gli altri lo schivano e proseguono. Si fermano solo i suoi gregari, Keteleer e Conte, Crippa e Milano, Carrea e il fratello Serse. Si ferma la macchina del direttore di corsa, Ambrosini, e subito dopo la vettura del medico del Giro, il dottor Campi. L’ammiraglia della Bianchi, la “Checca”, è andata avanti come tutte le altre del seguito: aspettano i corridori in cima alle Scale.
Coppi è a terra, frastornato, sul viso ha una smorfia di dolore. Ambrosini cerca di rialzarlo prendendolo sotto le ascelle ma Fausto urla di lasciarlo a terra. Avvisata da un motociclista intanto è arrivata l’ammiraglia della Bianchi, il direttore sportivo Tragella si precipita a constatare le condizioni di Fausto. E’ semisdraiato, immobile, si lamenta sottovoce, lo sguardo smarrito, quello sguardo da cervo ferito. Non c’è sangue, non ci sono escoriazioni di sorta, si pensa che lo stato confusionale derivi dallo shock. Era già caduto qualche chilometro prima, senza conseguenze e anche stavolta si rialzerà: è solo spaventato, si pensa.
Il medico gli pratica una iniezione antidolorifica poi Tragella e Conte tentano di rimetterlo in piedi. Quando appoggia il piede destro a terra non può reprimere la sua disperazione. Piange: “Non ce la faccio… non ce la faccio, devo avere qualcosa di rotto”. Lo rimettono sull’erba, aspettano che arrivi l’ambulanza della Croce Bianca, lo porteranno all’ospedale Santa Chiara di Trento. Le radiografie evidenzieranno tre incrinature nelle ossa del bacino, si prevede una lunga degenza. La moglie Bruna, subito accorsa, una volta di più lo sgriderà, gli chiederà di smettere di correre: ha 31 anni, ha raggiunto il massimo della gloria e della ricchezza, perché continuare a farsi del male? Intanto Bartali dopo 9 ore di corsa ha vinto la tappa in volata davanti a Koblet e Kubler e ha fatto mandare i fiori ricevuti al suo rivale Coppi. La Bianchi, che in un primo momento avrebbe voluto ritirarsi, aveva ripreso il cammino verso Bolzano: i sei biancocelesti verranno classificati all’ultimo posto a 1h24’17” dal vincitore.
Coppi resterà ricoverato a Trento nella camera numero 20 dal 2 al 30 giugno. In questo periodo riceverà molte visite, tutte tese a rinfrancarlo. Poche ore dopo il suo ricovero andrà a trovarlo anche una persona particolare, Giulia Occhini, accompagnata dal marito il dottor Locatelli. E’ sua estimatrice, si sono conosciuti poco tempo prima, lei è suggestionata da quell’atleta in cui si fondono la grandezza del campione e la fragilità dell’uomo; lui, dalla personalità di questa donna determinata ed esuberante. Lei gli scriverà ogni giorno, lui ogni giorno risponderà, fermoposta Varese. Sarà l’inizio di una nuova fase drammatica della vita di Coppi, che di lì a poco cadrà di nuovo e risorgerà al massimo della gloria come un’araba fenice: un anno dopo Primolano, durante il Giro del Piemonte, muore il fratello Serse, due anni dopo Coppi rivincerà Giro e Tour e poi diventerà campione del mondo mentre esploderà pubblicamente lo “scandalo” della Dama Bianca provocando nel campione dolorose ferite morali.
Un gigante fragile, insomma. Il mito di Coppi è ancora oggi vivo più che mai, perché emblematico della vita di ciascuno di noi: un mix di gioie e sofferenze. O della vita che ciascuno di noi vorrebbe: la rinascita dopo ogni caduta.

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