Quando nel 1964, a nemmeno 22
anni, trionfò nel Tour dell’Avvenire, Jacques Goddet disse che l’Italia aveva
finalmente trovato il nuovo Messia. Va bene che suo padre si chiamava Mosè, ma
forse era ancora troppo presto per gridare al miracolo. Coppi era morto da 4
anni, Bartali aveva smesso da 10, Magni da 8, Nencini aveva finito di dare
tutto nel 1960, e all’orizzonte non era spuntato nessuno in grado di vestire i
panni del dominatore assoluto, anche se questo bergamasco taciturno faceva ben
sperare. Meglio usare prudenza nelle profezie, per non restare poi troppo
delusi.
Un anno dopo, 1965, Gimondi passò
professionista, ingaggiato dalla Salvarani diretta da Luciano Pezzi. Fece il
Giro e si piazzò terzo dietro al suo capitano Adorni e a Zilioli. Dopo, secondo
programma, il ragazzo avrebbe dovuto riposare ma il destino volle che in vista
del Tour Pezzi si trovasse in difficoltà nel comporre la squadra per la
spedizione in Francia: uno era ammalato, un altro fuori forma… Portiamo con noi
anche Felice, giusto per fare numero ed esperienza, dissero i dirigenti del
team del mobilificio parmense: non gli si chiede niente, nessuno sforzo, solo
di guardarsi in giro e vedere com’è il mondo del professionismo. E Felice
partì, a cuor leggero. Solo che dopo la terza tappa, la Roubaix-Rouen, si
ritrovò maglia gialla. Tanto compiacimento ma nessuna illusione, alla
Salvarani: quella corsa semmai doveva vincerla Adorni, che puntava alla
doppietta Giro-Tour. Gimondi, consigliato di non dannarsi troppo, si lasciò
sfilare la maglia gialla. Poi arrivò la prima tappa pirenaica, la Dax-Bagneres
de Bigorre. Adorni non partì per dolori intestinali accusati già nella tappa
precedente. E Gimondi si scatenò sull’Aubisque e il Tourmalet, ingaggiò un
duello esaltante col favorito dei francesi Poulidor, e alla fine di quel giorno
tornò in cima alla classifica. Passò indenne i Pirenei e le Alpi e a Parigi
arrivò da trionfatore.
I cronisti rispolverarono i toni
epici di un tempo, da anni non appariva all’orizzonte del ciclismo internazionale
un fenomeno di quello spessore. I francesi lo adottarono subito, conquistati da
“le sourire de Gimondì”, un ragazzo tanto gentile quanto potente, disponibile e
talentuoso. Gli italiani lo coccolarono, già pregustando imprese apocalittiche.
E quando nel 1966 il nostro eroe, infangato e coperto dalla polvere di carbone,
si presentò da solo al traguardo della Roubaix, allora tutti furono convinti di
essere in presenza di un nuovo dio. Aveva ragione Goddet: ecco il nuovo messia
del ciclismo. Era perfetto, Gimondi. Bergamasco
di Sedrina, Val Brembana, era un ragazzo scrupoloso e serio, di poche parole.
Come il padre del resto. Il giorno che tornò a casa dopo aver vinto il Tour
dell’ Avvenir, Mosè gli disse: “Bravo”, e lo mandò a lavare uno dei suoi
camion. Il padre aveva una piccola azienda di trasporti, la madre era la
postina di Sedrina: Felice si allenava e aiutava i genitori nei rispettivi lavori,
d’inverno distribuiva lettere e pacchi in paese e lo avrebbe fatto anche negli
ultimi due anni da dilettante. Si allenava con scrupolo, ben guidato dai
dirigenti del Pedale Sedrinese che, avendone intuito le grandi doti, lo
programmarono, lo costruirono con grande intelligenza. Avevano in mano un
capitale da investire. Pativa mal di gambe, da ragazzo, e pareva avere problemi
al cuore. Adeguati interventi medici lo avrebbero messo a posto.
Si mostrò subito ottimo scalatore
e fondista, buon velocista e cronoman, resistente e con grandi doti di
recupero. In più era di una professionalità sconcertante. Teneva un diario in
cui scriveva commenti o impressioni su ogni sua prestazione: lo lesse anche
Pezzi, quando il ragazzo fu assunto alla Salvarani e confessò il proprio
sbalordimento, mai vista in vita sua una tale scrupolosità. Rivelò anche altre
doti, il giovanotto di Sedrina: era leale e sportivo, non si lamentava mai,
campione nella vita come sulla strada. Si capisce allora perché in carriera
Gimondi abbia vestito la maglia di due sole squadre: la Salvarani e, quando
questa cessò l’attività, la Bianchi. Gli volevano bene come a un figlio. E lui
ripagò tutti.
Al suo secondo anno da
professionista, 1966, vinse – fra le altre corse - la Parigi-Bruxelles, la Coppa
Agostoni, la Placci, il Giro di Lombardia. Al Giro d’Italia era arrivato solo
5°, a molti minuti da Gianni Motta, il rivale designato dalla stampa che voleva
– come esige la storia – un dualismo fra campioni. Il vero rivale di Gimondi
invece veniva dal Belgio, era un ragazzo di tre anni più giovane, capace di
sprigionare una potenza inaudita e dotato di una feroce determinazione: Eddy
Merckx. La “corsa delle foglie morte” vinta da Gimondi nel 1966 evidenziò la
statura di quello che poi sarebbe stato chiamato “cannibale” per la sua
insaziabile fame di vittorie che andava oltre ogni idea di sportività. In quel
Lombardia, dopo aver vinto la resistenza di Motta, Gimondi e Adorni attaccarono
alla disperata trascinandosi all’arrivo un quartetto altamente qualificato:
Poulidor, Anquetil, Dancelli e Merckx. Tirò la volata Adorni, che strinse alla
corda Merckx con azioni al limite del regolamento; ai 250 metri partì Dancelli
ma Felice lo passò resistendo poi al rabbioso ritorno di Merckx che intanto era
riuscito a sfuggire alla trappola di Adorni. Primo Gimondi, secondo Merckx, che
in apertura di stagione aveva già vinto la Sanremo.
Ecco, Merckx: l’incubo di tutti,
in particolare di Gimondi. Nel 1967 il belga si impose ancora nella Sanremo,
vinse la Freccia Vallona e diventò campione del Mondo a Heerlen. Dal canto suo
il bergamasco si aggiudicò per la prima volta il Giro d’Italia. Da campione.
Compì un’impresa straordinaria nella 19.a tappa, la Udine-Tre Cime di Lavaredo,
primeggiando e vincendo la resistenza di Merckx, Motta, Adorni: fu annullata,
quella tappa, corsa nel freddo, sotto la pioggia e la neve, caratterizzata
dalle spinte degli spettatori. Nella successiva Cortina d’Ampezzo-Trento vinta
da Adorni si portò a soli 34” dalla maglia rosa Anquetil e nella penultima
frazione, la Trento-Tirano inflisse 5’ di distacco al francese e ben 13’ a
Merckx, debuttante al Giro.
Merckx o Gimondi? Il mondo del
ciclismo si divise in due.
Ancora oggi qualcuno si chiede
che cosa avrebbe vinto Gimondi se non ci fosse stato Merckx. Molto saggiamente,
una volta appesa la bici al chiodo, il campione di Sedrina avrebbe detto: “I se e i ma non mi sono mai piaciuti molto.
Preferisco guardare in faccia la realtà. D’altra parte ciascuno deve fare i
conti con il proprio tempo e con gli uomini che si trova attorno. A Guerra
toccò Binda, Bartali dovette vedersela con Coppi, a me è capitato Eddy. Forse
osservando le vicende un po’ dall’alto con il distacco di chi ormai è fuori
dalla mischia, è stata anche una fortuna. Nei primissimi anni della mia
carriera io facevo razzia, o quasi. Sembrava che niente mi fosse impossibile.
Quando arrivò lui la musica cambiò. Lì per lì fu uno shock. Poi appresi sulla
mia pelle quello che già mi avevano detto in molti: nella vita non si può avere
tutto; è una ruota che gira: oggi tocca a me, domani a te. Così mi sforzai di
studiare tattiche nuove e di cogliere i momenti giusti per battere il mio più
grande avversario”.
E’ un dato di fatto che
all’inizio Merckx impaurì per davvero Gimondi. Nel 1968, a nemmeno 26 anni,
Felice era uno dei pochissimi corridori ad aver vinto le tre grandi corse a
tappe, Tour, Giro e Vuelta. Era nella storia. Eppure, confessò, si era ormai
rassegnato al fatto che il belga (quell’anno vincitore della Roubaix e del
Giro) potesse batterlo in tutto. Fu il giorno in cui, al Giro di Catalogna di
quello stesso 1968 Merckx lo sconfisse anche a cronometro. “Ebbi davvero la sensazione di essere finito
come corridore” dirà Felice. E invece imparò a convivere col “cannibale” e
rimase sulla breccia altri dieci anni. Fu per questo che un giornalista inglese
con felice intuizione lo battezzò “la fenice”. La fenice era un uccello
mitologico, unico del suo genere, il piumaggio coloratissimo: un giorno si
uccise in un rogo, poi risorse e portò le proprie ceneri al dio Sole. Divenne
simbolo della resurrezione. Applicata a Gimondi è una immagine calzante. Stava per suicidarsi nel
tentativo di tener testa a Merckx. Poi cominciò a riflettere. Inutile fare il
braccio di ferro con uno scalmanato come il belga. Meglio studiarne i punti
deboli e quindi la strategia più adeguata, incassare quando non era aria e
invece affondare il colpo sui percorsi a sè più congeniali. Sulle lunghe
distanze forse teneva più Gimondi di Merckx, negli sforzi brevi era più forte
il belga che era capace di chiudere un “buco” in 2-3 chilometri mentre a
Gimondi magari ne servivano 5. Imparò a migliorare lo sprint sviluppando con regolarità
una potenza che lo portava a partire a tutta anche a un chilometro dal
traguardo. Addirittura curò la bicicletta in modo maniacale, conscio che anche
il più piccolo particolare avrebbe potuto dargli un minimo vantaggio: divenne celebre
il “manubrio Gimondi”, che Felice volle addolcito nelle curvature e nelle
impugnature laterali.
Aveva quasi odiato Merckx, poi lo
sportivamente aveva “accettato” e anche rispettato. Quando al Giro del 1969
Merckx, leader della classifica, fu tolto di gara per doping, il giorno dopo
Gimondi rifiutò di indossare la maglia rosa e non fu felicissimo della vittoria
finale. Come al Lombardia del 73. “Le statistiche me lo attribuiscono – disse –
ma io non sento mia quella vittoria, ottenuta a tavolino dopo la squalifica di
Eddy per scorrettezze”. Dal canto suo il belga era
conscio della forza dell’italiano e a modo suo lo rispettava. Al Mondiale 1971,
a Mendrisio, Eddy attaccò a cinque giri dalla fine, solo Gimondi seppe tenergli
ruota. Fu una fuga a due entusiasmante che si concluse sul traguardo con Eddy
davanti a Felice. Ai cronisti il belga disse: “Questa è una grande vittoria, perché sono riuscito a battere un vero
campione”.
Da rivali che erano, col tempo
divennero addirittura amici. Una sola volta litigarono di brutto: fu nel Tour
1969, al termine della Briancon-Digne. Eddy era maglia gialla, Gimondi gli era
a 7’. Il belga attaccò, gli resistette solo Felice che poi collaborò nella fuga
a due, arrivarono al traguardo. In questi casi si usa che il più forte lascia a
chi lo ha aiutato il merito della vittoria. Merckx no, era già “cannibale”:
fece lo sprint e fece secco un sorpresissimo Gimondi. Il quale, sceso di
bicicletta, lo aggredì a male parole. Si vendicò, anche. Il giorno dopo, nella
Digne-Aubagne, andò in fuga, lo seguirono Gandarias, Van Schil e Merckx.
L’arrivo era su una pista in terra battuta, bisognava entrare per primi per
covare speranze di vittoria. Gimondì entrò in testa e proseguì nello sforzo con
potenza avvelenata dalla rabbia: vinse, e Mercks fu solo terzo. “Fui davvero contento, quel giorno”,
sogghignò anni dopo.
Ma la più grossa soddisfazione
nei confronti di Merckx se la prese al Mondiale 1973, sul circuito del
Montjuich, a Barcellona. Giornata torrida, caldo soffocante, fastidioso vento
sahariano. 17 giri da percorrere, con in mezzo quella salita al 7%. Fu lì che a
sei giri dalla fine Merckx attaccò: gli resistettero il compagno di squadra
Maertens, gli spagnoli Ocana e Perurena, l’olandese Zoetemelk e gli italiani
Battaglin e Gimondi. Al penultimo giro, altro scrollone di Merckx che guadagnò
50, 100 metri. Ma fu lo stesso Maertens a ricucire lo strappo trascinandosi
anche Gimondi e Ocana., il che fece inviperire il Cannibale. Merckx e Maertens
in quell’arrivo in volata erano i favoriti di tutti. Ocana, quell’anno
vincitore del Tour, puntava a un successo clamoroso anche nella propria terra.
Gimondi aspettava gli eventi, concentratissimo a cogliere un’occasione
propizia.
Ultimo chilometro, in leggera
salita. Merckx e Maertens parlano fra di loro, chiaro che stanno mettendosi
d’accordo sul tipo di volata da fare. Probabilmente è il giovane Maertens che
deve fare strada al Cannibale, e dunque Gimondi si incolla alla ruota di Eddy e
non la cede neppure quando il belga più giovane ai 250 metri parte come una
furia, neppure quando Merckx non riesce subito a capire che il suo compare tira
a vincere, altro che tirargli la volata! Quando Merckx si pianta nello sforzo
di recuperare quella macchina di vantaggio che il suo compagno ha acquisito,
Gimondi si accorge di andare più forte di Merckx, di avere nelle gambe una
potenza spaventosa. Lo supera e nello slancio agguanta Maertens che si è
voltato per vedere dov’è il compagno. Taglia il traguardo per primo davanti a
Maertens, Merckx è passato persino da Ocana. Trionfo dell’azzurro, apoteosi,
felicità da delirio per gli italiani presenti, per quelli davanti alla tivù,
per la gente bergamasca. Gioia sconfinata per Felice. Quella sconfitta gli andò
di traverso, al Cannibale. E per Gimondi questa fu la soddisfazione più grande
della sua carriera.
Prima di lasciare la bici,
Gimondi si tolse altre soddisfazioni. Si era riproposto di vincere ancora una
corsa a tappe, una grande classica in linea e una corsa a cronometro. Ci riuscì
nel 1976: vinse il suo terzo Giro, la seconda Parigi-Bruxelles e il GP di
Larciano. Due anni dopo, con 36 primavere sulle spalle, disse basta.
Quell’anno, qualche mese prima di lui, smise anche Merckx.
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