Era un tipo meticoloso e ragionatore e dopo le due vittorie
del 1907 e 1908 aveva calcolato di entrare nella leggenda del ciclismo come il
primo corridore a vincere tre volte il Tour. Non ci riuscì. Aveva sfiorato
l’impresa nel 1913 quando, secondo in classifica, si era dovuto ritirare nella
penultima tappa. L’anno dopo, altra caduta determinante. Poi era arrivata la
guerra, alcuni giorni dopo la conclusione di quel Tour. Una questione di pochi
mesi, avevano predetto i soliti esperti, e lui chissà, a 32 anni non era troppo
vecchio per sognare il tris. La guerra invece sarebbe durata quattro anni e
otto milioni di ragazzi sarebbero morti. Fra questi, anche lui, Lucien
Petit-Breton, che era stato chiamato alle armi alla fine di luglio del ’14,
quando la Francia era stata aggredita dall’esercito tedesco. Morì nella maniera
più stupida possibile, per uno che era detto “l’invulnerabile” per la sua
resistenza alle avversità e “uomo di bronzo” perché prevedeva come avrebbe
battuto gli altri. Era in missione nelle Ardenne e a Vanziers fu investito da
un camion militare guidato da un ubriaco. Era il 20 dicembre del 1917, poco
tempo prima era stato ucciso al fronte un suo fratello minore, Anselme, anche
lui corridore.
Petit-Breton, che
ormai aveva 35 anni e a quel punto aveva
abbandonato i sogni di gloria, non fu l’unico grande sportivo a perdere la vita
in quel conflitto. François Faber, lo scaricatore lussemburghese che aveva
dominato il Tour del 1909, un colosso di 91 chili, morì nel maggio 1915
combattendo per la Legione Straniera. E morì anche Octave Lapize,
l’intelligenza fatta uomo, trionfatore di quel Tour 1910 che per la prima volta
vide i corridori sui Pirenei. Era stato lui che salendo a piedi il Tourmalet
con la bava alla bocca aveva urlato agli organizzatori: “Siete degli
assassini!”. Il suo vero assassino lo avrebbe poi trovato nel 1917 in un
mitragliere tedesco durante una battaglia aerea nei cieli di Verdun. La Grande
Guerra si era portata via, assieme alla Belle Epoque, il meglio del ciclismo di
inizio secolo. E di quel ciclismo, per via della doppietta al Tour, Lucien
Petit-Breton era stato il rappresentante più popolare.
In realtà si chiamava Lucien Mazan. Era un bretone di
Plessè, poco distante da Nantes, nella Loira Inferiore, e aveva avuto un’adolescenza
avventurosa. A sette anni, nel 1890, con la famiglia era emigrato in Argentina.
Erano tempi in cui l’Europa invadeva le terre del nuovo mondo con torme di
disperati e fuoriusciti: il padre di Lucien, orologiaio di fama, era stato
costretto ad andarsene per le sue idee libertarie. A Buenos Aires la famiglia
Mazan restò dodici anni. Lucien fece il garzone in un hotel finché un giorno a
una lotteria vinse una bicicletta: per un po’ non poté usarla perché suo padre
pensava che scorrazzando per il quartiere con “quell’attrezzo da circo” avrebbe
disonorato la famiglia. Lui, il giovane Lucien, non se ne diede per inteso, e
anzi entrò nelle fila dello Jockey Club assieme a suo fratello Paul. Correvano
e vincevano. Soprattutto Lucien. Che i tifosi di Baires cominciarono a chiamare
“Breton”, il ragazzo venuto dalla Bretagna. Diventò campione argentino su pista
e su strada, rappresentò i colori di quel paese in competizioni internazionali.
Quando a vent’anni, nel 1902, tornò in Europa, il giovane Breton si trovò immerso
in un’atmosfera elettrizzante. I dirigibili solcavano i cieli, si parlava di
esperimenti con aeroplani, e di spedizioni ai Poli, le automobili
sferragliavano rumorosamente nelle strade invase da torme di biciclette che
erano ormai il simbolo della velocità del nuovo secolo a portata di tutti. Le montavano anche le donne, con grande scandalo dei
benpensanti, facendo della “petit reine” uno strumento di emancipazione. Era la
Belle Epoque, l’epoca delle meraviglie. E Lucien Mazan decise di tuffarcisi.
Nelle piste dove si esibiva lo chiamavano L’Argentin per via dei suoi
trascorsi a Baires. A lui invece, fiero delle proprie origini, piaceva quel
soprannome che gli avevano dato in Sudamerica, e così chiese ai giornalisti di
chiamarlo Breton. Ma poiché esisteva un corridore che si chiamava davvero così,
per tutti divenne Petit-Breton, anche se piccolo non era: un metro e 75
per 70 chili.
Aveva 22 anni quando a Neuilly sorprese tutti aggiudicandosi
il Bol d’Or, una massacrante 24 ore dietro “allenatori”, coprendo 852 km alla
media dei 35 all’ora sulla pista di Buffalo, cosiddetta perché lì si accampava
il leggendario Buffalo Bill quando era in tournée a Parigi. E ne aveva 23
quando fissò il nuovo record dell’ora in poco più di 41 chilometri. Un
fenomeno, quasi come l’americano volante Arturo “Zimmy” Zimmerman, un pistard
che non varcava l’Atlantico per meno di 60 mila franchi. A quel punto, anno
1905, i tifosi di Petit Breton lo convinsero a tentare il Tour, che era nato da
appena due anni.
Il Tour a quei tempi era un’avventura approssimativa e
pericolosa. Si partiva di notte alla luce delle torce, col tascapane per i
viveri e i vestiti di ricambio, i mutandoni lunghi anti-freddo, gli occhialoni
per la polvere, la sacca di cuoio con gli attrezzi sul manubrio. Torme di
amatori in bicicletta accompagnavano i corridori nella loro marcia per quel che
potevano, distinguibili solo perché non avevano il numero. Pericoli e imboscate
erano all’ordine del giorno: i tifosi di questo o di quello erano capaci anche
di prendere a bastonate i primi per aiutare i loro beniamini, successe anche a
Gerbi nel 1904. Più avanti i rischi sarebbero stati anche di altra natura:
quando il clan di Desgrange decise che si dovessero scavalcare i Pirenei, non
furono pochi i corridori delle retrovie, a cinque-sei ore dai primi, che si
ritrovarono nelle ombre del tramonto a dover respingere gli orsi con il
gonfleur. Quel Tour del 1905, il primo che includeva il passaggio sulle Alpi,
fu martoriato da un gruppo di sabotatori che cosparsero il percorso della prima
tappa, Parigi-Nancy, di chiodi. Petit-Breton ne fu la vittima più illustre.
Forò ripetutamente, perse ore a cambiare pneumatici e a mettervi pezze, e
quando ebbe finito la scorta raggiunse a piedi la prima stazione ferroviaria,
comprò un biglietto per Parigi e tornò alla base per ripartire poi il giorno
dopo verso Nancy con l’Orient Express (fra una tappa e l’altra c’era un giorno
di riposo) e riprendere la corsa: fu riammesso ma penalizzato di un’ora. Alla
fine si piazzò quinto, aveva corso da isolato con la maglia del Jockey Club
argentino. L’anno dopo, 1906, sarebbe stato quarto: inserito in una squadra
ufficiale, la Peugeot, assieme a campioni affermati come Trousselier e Pottier,
si era messo al servizio dei compagni. Avrebbe vinto René Pottier, che poi
cinque mesi dopo, a 26 anni, si sarebbe appeso per il collo a un gancio per le
bici nel capannone della Peugeot: suicida per amore. Avevano dunque un’anima,
quei cavalieri dell’impossibile che Desgrange aveva lanciato – così scrisse – in
una “crociata meravigliosa per il trionfo dei muscoli e della volontà”.
Siamo al 1907 e Lucien Petit-Breton ormai è pronto per la
gloria. In apertura di stagione è ingaggiato dalla Bianchi (nel Tour 1910 sarà
la Legnano a dargli una maglia) per correre la prima Milano-Sanremo. A Milano è
accolto da gran signore, a Sanremo da trionfatore. Dovrebbe spalleggiare Gerbi,
ma il “diavolo rosso” dopo una fuga solitaria di 200 km a Savona è raggiunto da
Petit-Breton e Garrigou. La volata a tre è un pasticcio: Gerbi fa cadere
Garrigou e Petit-Breton si guadagna il primo posto. Con questo biglietto da
visita il bretone prende il via al Tour 1907, quello che lo consacra grande.
Non è un grande grimpeur, Petit-Breton. E ha paura delle
discese. E’ un regolarista potente e veloce che ha fatto del correre una
religione. La sua strategia è misurata
sugli avversari. Sicchè, a seconda dell’occasione, da calmo diventa
scatenato, il passista resistente si trasforma in implacabile velocista. E’ uno
studioso del suo mestiere. Tanto che sarà il primo a scrivere un manuale di
ciclismo, “Comment devenir champion”, secondo una moda che seguiranno
poi Suzanne Lenglen nel tennis e George Carpentier nel pugilato. Durante il
vittorioso Tour del 1908 si trasformerà anche in giornalista, scrivendo fra un
vittoria e l'altra commenti e cronache per “La Vie au grand Air”.
Gli anni in cui Petit-Breton trionfa al Tour, il 1907 e il
1908, sono quelli della svolta del ciclismo, che diventa strumento promozionale
per la grande industria al pari dell’automobilismo: sulle strade assieme ai
corridori ci sono anche pneumatici e auto, biciclette e motori. Non è un caso
se quei due Tour coincidono con la conclusione a Parigi di due pazzeschi raid,
la Pechino-Parigi e la New York-Parigi, che dimostrano come “una buona macchina
su percorsi accidentati può sostituire la trazione animale”. Quando nel 1907
per la prima volta i costruttori di bici seguono il Tour con una vettura, una Lorraine-Dietrich,
verrà data grande pubblicità al fatto che un’automobile sia stata capace di
valicare le terribili strade delle Alpi ai quindici all’ora senza fondere il
motore. Petit-Breton corre con la maglia della Peugeot, che accanto alla
produzione di biciclette aveva da tempo iniziato quella delle auto. Vincendo,
dimostra che accanto all’automobile patrimonio di pochi, si può arrivare
lontano anche con una buona bicicletta, superando ogni difficoltà e quasi
eguagliando la velocità di un treno.
Nevica sul Ballon d’Alsace in pieno luglio del 1907. E pochi
giorni dopo c’è un caldo terrificante sul Col de Porte nel massiccio della
Grande Chartreuse che Desgrange ha introdotto nel Tour per la prima volta. Tre
spettatori muoiono d’insolazione. Su quelle terribili rampe si scannano
François Faber e Garrigou, una battaglia che ai cronisti dell’epoca ricorda i
duelli di Rolando. Petit-Breton li lascia fare, vince la Bordeaux-Nantes e la
Tolosa Bayonne staccando di 23 minuti Passerieu e Garrigou. Vince quel Tour
perché Georget ha cambiato bicicletta in una zona non autorizzata e viene
retrocesso. La media è di 28 all’ora.
Dominerà però quello successivo, nel 1908, quello che
diventerà famoso perché i corridori vengono definiti con un’espressione
leggendaria: I giganti della strada. Oggi sono detti così i tir, allora
i giganti erano questi piccoli uomini posti a lottare contro la natura. Suo
avversario è il belga Cyrille Van Hauwaert che ha dominato la Sanremo e la
Parigi Roubaix. Petit-Breton dal canto suo si presenta con la vittoria al Giro
del Belgio e la Parigi-Bruxelles. Battaglia di titani, combattuta in un freddo
siberiano sul Ballon d’Alsace e nella bestiale canicola della Grande
Chartreuse. Passerieu, su questa seconda asperità, è l’unico che non mette
piede a terra. Il nostro bretone invece dosa le forze, scende, prende fiato, risale,
contiene i ritardi. Vince cinque tappe, quell’anno e alla fine la somma dei
punti gli dà meritatamente ragione. L’anno prossimo non ci sarò, annuncia. Sta
per sposarsi, la moglie gli ha chiesto di stare un po’ con lei. Nel 1909
prenderà il via al primo Giro d’Italia ma la sua avventura finirà alla prima
tappa: verso Peschiera, alle otto di mattina sta addentando una coscia di pollo
quando cade e si lussa un braccio. Ritenterà l’avventura del Giro nel 1911,
vincerà una tappa, resterà in testa fino alla 10. ma poi cadrà e dovrà
ritirarsi. Anche al Tour colleziona ritiri in serie, dal 1910 fino al 1914,
tutti per caduta: “la sorciere au dents verts”, la strega dai
denti verdi come viene chiamata la malasorte, lo ha già preso di mira. E lo
sconfiggerà beffardamente tre anni dopo, una maledetta sera del 1917, per mano
di un camionista ubriaco.
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