giovedì 3 ottobre 2013

STORIE IN BICI - Il Bondone


L’Arcangelo della Montagna, Charly Gaul, era tornato lassù il 16 ottobre di qualche anno fa. Era in carrozzella, accompagnato dalla figlia e dal medico personale. Stava male. I patimenti del viso erano nascosti dalla folta barba che si era fatto crescere da quando aveva smesso di correre. Sarebbe morto nemmeno due mesi dopo. L’avevano invitato per presenziare alla cerimonia della posa di due targhe – all’inizio e alla fine della salita – a lui dedicate per ricordare un’impresa epica: quella del Bondone 1956. “Salita Charly Gaul”: tre parole a etichettare una irripetibile tappa del Giro, una disumana avventura collettiva, l’ultima pagina del cosiddetto “ciclismo eroico”. Quel 16 ottobre lassù ad accogliere Charly c’era Aldo Moser, il “bocia” di casa. Stettero in silenzio a guardare l’orizzonte e a riavvolgere il filo della memoria. Nel 1956 Gaul aveva 23 anni, Moser 22: ragazzi, in lotta contro la furia degli elementi e contro la propria fragilità di esseri umani. “Che freddo, quel giorno…”, mormorò Charly. Aldo lo guardò con l’affetto che si riserva solo a chi ha condiviso una vicenda da sopravissuto. Quest’anno il Giro, per celebrare il cinquantenario di quella storica giornata, è ritornato sul Bondone.
Era l’8 giugno del 1956: il giorno dei misteri. Nevicò quando ci si attendeva una giornata di sole. Al traguardo furono classificati corridori già saliti sul furgoncino-scopa, atleti distrutti letteralmente trascinati fin lassù dagli alpini e altri incredibilmente freschi. La giuria comunicò che tutto era stato regolare. La stampa dopo aver celebrato l’eroismo degli atleti si dimenticò in fretta della cosa e negli anni e nella storia quella del Bondone restò solamente come “giornata da leggenda”, senza maggiori dettagli. Perché pochissimi – ad eccezione dei protagonisti -  avevano visto davvero ciò che era successo: i giornalisti erano corsi all’arrivo per accaparrarsi i telefoni con cui dettare servizi debordanti di retorica. E la neonata tivù aveva solo una telecamera fissa all’arrivo.

La giornata del Bondone resterà avvolta nel mistero fin quando, fra molti anni, non si avranno le confidenze dei massaggiatori e degli stessi corridori”, scrisse Bruno Slawitz sul Guerin Sportivo. Questa frase mi ha stimolato a cercare la verità: ho raccolto il racconto di 39 corridori sopravissuti a quella tappa in un libro (“L’apocalisse sul Bondone”, Limina 2006), con la presunzione di aver tolto qualche velo al “mistero”.

 La Merano-Trento Alta era la 18.a tappa del Giro 56 che vedeva i favoriti ormai fuori gara. Coppi si era ritirato alla 5.a, Magni si era fratturato una clavicola dopo una settimana e alleggeriva il dolore masticando ostentatamente una camera d’aria. Charly Gaul, il nuovo fenomeno del ciclismo, era rotolato al 24. posto in classifica, a 16’ dalla maglia rosa Pasqualino Fornara, capitano della Arbos-Bif. Il campione di Borgomanero era incalzato a 9” dal vicentino Cleto Maule e a 2’07” dal trentino Aldo Moser, entrambi della Torpado. Covava ambizioni anche Nino Defilippis della Bianchi, a 2’43”. La tappa si snodava per 242 km su un percorso isterico: Costalunga, Rolle, Gobbera, Brocon e infine il Bondone, col traguardo a quota 1300 m. Partirono in 87. Si ritirarono in 44 (fra cui 9 dei primi 15 in classifica), arrivarono in 43. Gli ultimi due, Cainero della Carpano-Coppi e De Santi dell’Ignis Varese, tagliarono il traguardo fuori tempo massimo, un’ora e un quarto dopo Gaul, ma la giuria non ebbe l’animo di toglierli dall’ordine di arrivo.
Battaglia fin dal via, mentre il tempo volgeva al peggio con velocità inquietante. Pioggia torrenziale e grandine sul Costalunga, nebbia e neve sul Rolle, ancora grandine e diluvio su Gobbera e Brocon, ghiaccio in Valsugana, tormenta di neve sul Bondone. E temperature tra i -5 e i -10. Più volte Ambrosini (direttore della Gazzetta e della corsa) e Vincenzo Torriani furono tentati di fermare i corridori, ma non lo fecero nemmeno ai piedi del Bondone, quando tutti i superstiti pensavano che il calvario finisse a Trento. I due si rendevano conto, cinicamente, che stavano realizzando una tappa destinata a rimanere nella storia. E vollero che i corridori a tutti i costi arrivassero in cima al Golgota.
Furono nove ore di sofferenza, di drammi, di rabbia inimmaginabili. Uno scenario infernale, urla di avvertimenti, richieste di aiuto, auto in panne o pericolosamente intraversate. In discesa i corridori frenavano con lo scarpino, alcuni arrivarono con le dita dei piedi nude e scorticate. In salita si fermavano nei casolari a chiedere maglioni, coperte, giubbotti e bevande, tè, caffè, grappa, cognac. Faceva tanto freddo che, anche solo per scaldarsi un momento, tutti si fecero la pipì sulle gambe. Guai a fermarsi, sarebbe stato peggio, la maglia o la mantellina ti si ghiacciava addosso. Mangiare, sempre, in continuazione: era il consiglio dei più anziani ai più giovani, assieme all’altro di stare dalla parte della roccia, in discesa, perché non si vedevano gli strapiombi. E i gruppetti dei ritardatari, quelli che andavano col “passo del bue”, si erano associati in una impresa di mutuo soccorso: a turno si mettevano al centro, per ripararsi dal vento. Vento gelido sulla statale della Valsugana, che avrebbe dovuto concedere respiro ai poveretti: si rivelò invece una trappola mortale, era ghiacciata e molti scesero di bicicletta e proseguirono a piedi. 

La radio con Zavoli e Nando Martellini dava conto di ciò che avveniva e la gente si riversò sulle strade ormai senza più controllo per aiutare i corridori, non importa di che squadra fossero: erano ragazzi in sofferenza, sottoposti a una inumana tortura, le mani congelate (Tognaccini e Zuliani hanno tuttora le dita insensibili), i volti impietriti, gambe e braccia scorticate per le cadute. I tifosi si toglievano le scarpe, per non scivolare sulla neve, e spingevano i corridori. Alcuni sorreggevano i più traballanti per centinaia di metri.”In giro – ha ricordato Raimondo Vianello che seguiva la corsa – c’era un gran profumo di alcol: faceva freddo e cognac e vino andavano via come il pane”.
Miguel Poblet a San Martino di Castrozza si fermò in una baita per rifocillarsi e perse la volontà di proseguire. L’olandese Nolten era scivolato nella discesa del Rolle, sembrava non dovesse più fermarsi, non riusciva a districarsi dalla bicicletta, e quando ce la fece si scavò una tana in un covone di fieno in attesa dei soccorsi. Vincenzo Rossello invece, per ripararsi dal freddo, si fermò per un po’ davanti a un albergo chiuso e si barricò dentro un ombrellone da sole. Lino Grassi, romagnolo, si fermò a chiedere aiuto in una baita, bussò e svenne, lo misero a letto e tutti fino a notte a cercare quel corridore dato per scomparso. Come Bahamontes, l’aquila di Toledo, che fu raccolto da contadini e portato al riparo: a sera telefonarono a Trento, c’è qui un corridore che non parla italiano, venite a prenderlo… Fausto Bertoglio si ritirò vicino a Moena: gli organizzatori gli diedero diecimila lire perché si arrangiasse a raggiungere per conto suo l’albergo a Trento. Sante Ranucci entrò in una casa, piangeva e diceva che non ci vedeva più. Lo svizzero Schaer fu fermato e trasportato d’urgenza all’ospedale di Levico: sintomi da congelamento. Guido Boni fu raccolto da Bartali prima di Trento, semisvenuto. Agostino Coletto aveva le mani talmente intirizzite che si mangiò i panini assieme alla carta in cui erano avvolti.
Si arrese Gastone Nencini, il leone del Mugello: cominciò a vacillare, a sbandare da una parte all’altra della strada in stato di semincoscienza, lo acciuffarono prima che crollasse. E Bartali a dirgli: “Gastone, ‘un mi riconosci? ovvia, rispondi…”. Si arrese Nino Defilippis. Scrisse la Gazzetta: “Il panino inchiodato fra i denti, la faccia stravolta, ciondolava in mezzo alla strada come mosca inciucchita dalla luce nella prigione di un paralume”. Lo fermarono, svenne, lo portarono a Trento. La maglia rosa Fornara crollò al primo tornante del Bondone: aveva l’occhio vitreo, zigzagava, farfugliava che voleva proseguire a tutti i costi, lo costrinsero a scendere dalla bicicletta e il dottor Frattini gli praticò alcune iniezioni. “Le donne piangevano a vederci così ridotti”, ha ricordato Pietro Nascimbene. 

 Sul Bondone successe di tutto. Ambrosini e Torriani a quel punto temevano che sarebbero arrivati soltanto in sette o otto, avevano bisogno di corridori sotto il traguardo altrimenti sarebbe stato uno scandalo. E col megafono urlavano alla gente di spingere “questi poveri corridori”. I motociclisti li sollecitavano ad attaccarsi, ma come si faceva? sarebbero caduti sicuramente. Già diversi chilometri prima Nello Fabbri era stato invitato a ritirarsi, “vieni su che poi ti mettiamo nell’ordine d’arrivo…”. Ordine d’arrivo? Chissà qual è stato davvero! Molti atleti erano irriconoscibili. Arrigo Padovan aveva un giaccone da camionista e un cappello da alpino in testa e per parecchio tempo fu scambiato per un altro. Aldo Moser si ritrovò classificato dopo il compagno di squadra Maule che molti avevano visto ritirarsi e non l’ha ancora digerita. Aldo Zuliani arrivò che sputava sangue: si scoprì poi che si era morso il labbro ma non se ne era accorto.
 


Vinse Gaul, che i cronisti pronunciavano “Gol” alla francese, non sapendo che il suo era il nome celtico dell’antica Gallia e che si pronunciava così com’era scritto. In maglietta dalle maniche corte e calzoncini, berretto alla belga, un foulard al collo, l’occhio spento. Un fantasma. Ebbe la forza di sollevare una mano a mezz’aria per dire a se stesso che era finita. Lo ressero oltre la linea del traguardo, Guerra tentò di fargli bere del caffè bollente ma lui non riusciva ad aprire i denti. Svenne e il meccanico della Faema, Ostuni, lo prese in braccio, lo portò in un albergo e lo depose su un letto. Gli tagliò la maglietta con le forbici, perché gli si era congelata sulla pelle. In quell’albergo in cima al Bondone c’era una grande vasca piena d’acqua calda, vi si infilavano tutti appena arrivati. Gaggero racconta che Cainero vi si immerse e poi svenne: stava per affogare, lo salvò prendendolo per i capelli. E De Santi, l’ultimo arrivato, aveva tanta fame che intingeva biscotti nell’acqua ormai fangosa della vasca e si mangiò il sapone: lo testimonia Carrea.
Ciclismo eroico. Sì, ciclismo “eroico”.

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