Era lombardo di Induno
Olona, lo chiamavano “Luisin” ma era grande e grosso. E resistente a ogni
fatica, al caldo e al freddo. Sicché per lui andare in bicicletta era più un
divertimento che uno sforzo. Lavorando come muratore in un cantiere di Milano,
anziché prendere il treno preferiva pedalare ogni giorno per cento chilometri.
Aveva 17 anni quando compiva questa impresa quotidiana, era il 1900, e Luisin
Ganna fantasticava sugli eroi delle corse di cui sentiva parlare in giro e che
erano sempre più numerosi. Non era passato molto tempo da quando Il Pungolo aveva scoperto con qualche
meraviglia che “colle strade piuttosto cattive si possa col velocipede
percorrere un chilometro in tre minuti, cosa che a stento si può raggiungere
con un buon cavallo”. Adesso quella del velocipede era diventata una vera
mania. In circolazione ce n’erano 107 mila e sarebbero diventati di più col passare
degli anni, tanto che nel 1908 sarebbe stata istituita una tassa annuale di 10
lire per biciclette a una persona e di 15 per quelle a più di una persona, e
varato una specie di codice stradale: ”I
velocipedisti devono scendere dal velocipede e condurlo a mano nelle strade
strette”, in presenza di cavalli che potevano imbizzarrirsi, di cantieri o
di gruppi di persone a piedi. El Luisin cominciò a
correre da clandestino perché i suoi giudicavano una perdita di tempo quella
attività. Si convinsero del contrario il giorno del 1905 in cui il ragazzo gli
portò a casa 18 lire: al Giro di Lombardia, il primo, si era piazzato dietro
Gerbi e Rossignoli e mentre nel cortile di un’osteria si stava levando dalla
pelle il fango della corsa, qualcuno gli aveva messo in mano quel tesoro. Gerbi
aveva vent’anni ed era già un mito delle folle. Lo chiamavano “il diavolo
rosso” per via del colore della maglia che peraltro si addiceva alle sue
diaboliche trovate. Aveva vinto quel Lombardia con una fuga solitaria di 200 km
nella nebbia e si era fregiato del titolo di “miglior corridore italiano del
momento”. Ganna, 22 anni, era una scoperta: era arrivato 40’ dopo ma aveva
stupito tutti per la tenacia posta nell’inseguimento. Così la Bianchi lo
ingaggiò con uno stipendio di 200 lire al mese.
Allora i giornali lo
chiamavano ancora “il buon Ganna”: era tanto grosso quanto taciturno. Non
chiacchierava o provocava come Gerbi, era un tipo concreto. Divenne uno dei
“Tre moschiettieri” quando nel 1907 assieme a Pavesi e Galetti affrontò la
grande avventura del Tour, convinto da Petit Breton. Arrivò alla fine solo
Pavesi, sesto in classifica, ma punto nell’orgoglio Ganna ci riprovò l’anno
dopo e si piazzò quinto: un segno di maturità atletica. Dovendo trascinare un
bel peso, era lento a mettersi in moto ma poi sul passo e nel finale delle
corse era capace di azioni travolgenti così come in volata, dove partiva da
lontano. In salita sfiancava gli avversari. Era contemporaneo dei Cuniolo e dei
Rossignoli, Gerbi e Pavesi, Galetti e Van Houwaert, Garrigou e Truosselier: una
bella schiera di fenomeni in cui Luisin stava entrando a pieno diritto. Tanto
più quando nel 1908, sulla pista in legno del velodromo di Porta Ticinese fissò
il record italiano dell’ora in oltre 40 chilometri. Fu l’impresa che convinse
Gatti, uscito dalla Bianchi, a fondare una nuova squadra, l’Atala, per
consentire a Ganna di esprimersi al meglio. E per incoraggiarlo, assieme alla
nuova maglia grigio-blu gli assegnò un fisso mensile di 250 lire.
Il corridore lombardo
lo ripagò subito vincendo alla grande la Milano-Sanremo del 1909 a tempo di
record, 30.420 km/h. Era scappato sul Turchino, a 100 km dal traguardo, e aveva
lasciato il francese Georget a 3’: era il primo italiano a vincere la corsa di
primavera. A quel punto, Ganna
era il nuovo idolo degli appassionati di velocipedismo. Anche perché Gerbi era
rimasto fermo per squalifica per quasi un anno. Era successo che il Diavolo
Rosso aveva vinto il Lombardia del 1907 esagerando in...astuzia. Andato in
fuga, non era più stato raggiunto grazie alla complicità di un casellante suo
amico che aveva abbassato le sbarre di
un passaggio a livello davanti agli inseguitori. Una certa quantità di chiodi
disseminati sulla strada da altri amici aveva poi rallentato la rincorsa.
Sicché Gerbi era arrivato al traguardo da trionfatore con sette minuti sul
francese Garrigou. Naturalmente era stato tolto dall’ordine d’arrivo. Quando
rimontò in sella, a metà del 1908, si ritrovò spodestato da Ganna nelle
simpatie della gente. ”Adesso facciamo i
conti”, gli disse il giorno che nella Corsa Nazionale si ritrovarono soli
in fuga. Tentò di scrollarsi dalla ruota il lombardo zigzagando pericolosamente
e urlando: “Mettiti di fianco e vediamo
chi ha più forza, é venuta l’ora di pareggiare i conti”. Tanto fece che
Ganna cadde e Gerbi andò a vincere davanti a Galetti, il che contribuì ad
alimentare la popolarità del colosso lombardo. Nel tempo, sarebbe stata la sua
indomita volontà di combattere a mantenere in vita gli entusiasmi attorno a sé.
Nella Sanremo del 1910
si trovò a battagliare, unico italiano, contro lo strapotere degli stranieri:
Van Houwaert, Faber, Lapize, Christophe, che poi avrebbe vinto. Il Moschettiere
ingaggiò un duello epico con quest’ultimo lungo le serpentine di Campoligure e
Rossiglione, uno di qua e uno di là della strada, “guardandosi in cagnesco”, scrissero le cronache. Pioveva e nevicava
quel giorno, alla fine sarebbero arrivati a Sanremo soltanto in sette. Fu una
battaglia terribile e affascinante nella sua crudeltà. Ganna, raccontò Vittorio
Varale, “venne su percorrendo a piedi gli
ultimi cento metri, sbocconcellando una fetta di torta di riso; lo seguiva
adagio un’automobile che schizzava fango da tutte le parti”. La gente andò
in delirio per quell’omone, che pure era arrivato 25 minuti dopo Christophe, un
altro che pareva votato al martirio. Il francese sarebbe passato alla storia
tre anni dopo quando, in fuga con una ventina di minuti di vantaggio nella
Bayonne-Luchon del Tour, cadde e ruppe la forcella: si mise la bici in spalla,
camminò per 14 chilometri finché non trovò in un villaggio la bottega di un maniscalco;
lì riparò il guasto e ripartì tre ore dopo.
Ganna invece era
entrato nella leggenda nel 1909, vincendo Giro d’Italia. Era la prima volta che
in Italia si correva una corsa a tappe e l’attesa fra la gente era spasmodica.
I corridori erano visti come temerari avventurieri in marcia verso l’ignoto,
non meno eroi di Bleriot che quell’anno per la prima volta aveva affrontato col
suo biplano la traversata della Manica o di quei pazzi che l’anno prima in automobile si erano sfidati in un folle
raid da New York a Parigi. Gli eroi del velocipede dovevano darsi battaglia su
2.408 chilometri di strade sterrate e piene di buche, facendo tappa a Bologna,
Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino e Milano; dovevano attraversare
campagne, boschi, montagne e affrontare le incognite di discese terribili. La
Gazzetta dello Sport, giornale organizzatore della corsa, alla vigilia del via
pubblicò un comunicato significativo: “Corridori!!
L’ora é prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le
nazioni vi ammirano e vi attendono”. Il drammatico pistolotto si concludeva
così: “Più che il premio, vi sia di
incitamento l’amore puro per lo sport”.
Per quanto amanti
dello sport, i 127 corridori al via piuttosto avevano l’occhio ai premi.
Chiunque portava a termine ognuna delle 8 tappe intascava 100 lire. Se vinceva,
erano 300. Niente male, se si considera che Armando Cougnet, direttore del
Giro, amministratore e caporedattore della Gazzetta aveva uno sipendio di 150
lire al mese. In complesso, il montepremi era di 65-70 mila lire: 18.900 della
Gazzetta, 3.000 del Corriere della Sera, 1.000 di Vincenzo Lancia, altre 1.000
dell’Unione Velocipedistica; poi c’erano altre migliaia di lire elargite dalla
Wolber, dalla Pirelli, dalle varie Case. Insomma, c’era di che sistemarsi. Le
squadre ufficiali erano cinque: Bianchi (di Gerbi), Atala (di Ganna), Stucchi
(di Petit Breton e Trousselier), Rudge Whitworth (di Galetti) e la Labor. Poi,
la marea degli isolati in cerca d’avventura e di fortuna, gente anche di più di
quarant’anni come il bolognese Nanni, 4 figli e moglie a carico. Si doveva
correre ogni tre giorni, perché la Gazzetta era trisettimanale: gli intervalli
servivano a curare gli acciacchi e riparare le bici. Nei giorni di corsa, le notizie
arrivavano a Milano attraverso dispacci telegrafici che l’organizzazione appendeva nelle vetrine
della Lancia-Lyon Peugeot in Piazza Castello. I pochi che avevano il telefono,
potevano aggiornarsi chiamando il 3368. Nelle città sede di tappa, manifesti
appiccicati ai muri e ai negozi informavano dove sarebbero arrivati i corridori
e che strade avrebbero percorso. Un colpo di cannone o la cornetta di un
cantoniere avvertiva quando gli eroi erano in prossimità del traguardo. I
corridori potevano mangiare soltanto ai rifornimenti ufficiali e durante le
tappe dovevano firmare almeno due fogli di controllo, giusto perché qualcuno
non andasse disperso o non prendesse scorciatoie. Tale Brambilla fu
squalificato il secondo giorno perché fra Ancona e Grottammare aveva preso un
treno. Non si teneva conto dei distacchi, contava il piazzamento al traguardo.
Fu un’avventura
sportiva che cucì l’Italia da Milano a Napoli col filo dell’entusiasmo. Erano
in ventimila al traguardo di Firenze, a Torino si dovette anticipare l’arrivo
di qualche chilometro perché ad aspettare gli eroi erano in 50mila. Si partiva
di notte o poco prima dell’alba e ciononostante la gente era fuori nelle
strade, le botteghe erano aperte e illuminate dalle lampade al magnesio. Il
corriere Pattini & Magnani si incaricava di raccogliere i vestiti dei
corridori la sera prima di ogni tappa e di portarli nella sede d’arrivo
successiva. Erano le 2.53 del 13 maggio quando la sferragliante comitiva partì
da Milano. I velocipedi erano senza cambio, un solo rapporto per pianura,
montagna e discesa. Al seguito, 3 vetture: la Züst dell’organizzazione, una
Bianchi con i tecnici delle Case ufficiali e una Itala con tre giornalisti.
Quel Giro visse
sull’appassionante duello fra Ganna e Galetti e di mille colpi di scena. Gerbi
cadde 1.500 metri dopo il via per evitare un bambino: ruppe la sua Bianchi, si
fece portare in macchina alla sede della Bianchi, la riparò e ripartì tre ore e
mezza dopo. Si sarebbe ritirato alla 6.a tappa, verso Genova, sfiancato dalla
fatica e dalla jella. Petit Breton, il grande favorito, il vincitore del Tour
1907 e 1908, si ruppe una spalla cadendo a Peschiera mentre verso le otto di
mattina correva addentando una coscia di pollo. Pavesi, compagno di Ganna, si
sentì male nella seconda tappa e fu riaccompagnato a Bologna in macchina da
Giovanni Reicevich, il gigante triestino che sarebbe diventato in quell’anno
campione del mondo di lotta libera stroncando il francese Pons. Fu drammatica
la Chieti-Napoli, con la traversata dell’Appennino: si ritirarono in 25,
stramazzati dalla fatica e dalla fame, poveri fantasmi lividi di polvere e
sudore. Ganna dominò a Firenze, Roma, Torino e per tutti divenne un Re: il re
del fango. Ma Galetti era sempre lì, a due o tre punti. Nella Torino-Milano,
ultima tappa, quando Ganna forò Galetti sferrò l’attacco decisivo. Fu fermato a
un passaggio a livello da un casellante inflessibile: non faceva passare
nessuno e così Luisin poté riagguantare l’avversario. Arrivarono all’Arena,
Galetti si lanciò in una volata disperata ma fu ostacolato da una guardia a
cavallo. Vinse Beni, davanti a Galetti e a Ganna e Luisin iscrisse il proprio
nome in cima all’albo d’oro del Giro. “Dimmi la tua prima sensazione”, gli
chiese un cronista trafelato pronto a trascrivere sul taccuino la frase storica
del vincitore. E Luisin, stralunato, rispose: “Me fa mal el cü”.
Galetti si sarebbe
rifatto vincendo nel 1911 e 1912. Ganna, come del resto Gerbi, avrebbe messo a
frutto i soldi guadagnati aprendo una fabbrica di biciclette: correva ancora,
nel 1913, quando, dalla sua stanza-laboratorio di Varese i suoi sette operai
cominciarono a produrre tre “Ganna” al giorno. Fu allora che cominciarono a
chiamarlo “el sciur Luis”. Sarebbe scomparso nel 1957.
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