Il ciclismo
cosiddetto”eroico” ha una sua precisa collocazione temporale: é nato con le
corse dell’ultimo decennio dell’800 ed é terminato nei primi anni del secondo
dopoguerra. L’ultimo esponente di questo ciclismo é stato Fausto Coppi,
tragicamente scomparso al’alba del 1960. Dopo, é apparso un altro tipo di
ciclismo, definito “moderno”: scientifico, alimentato e
condizionato dalle sponsorizzazioni, omologato dai sistemi di allenamento e di
alimentazione uguali per tutti, potenziato e falsato da un doping diffuso.
Queste attuali
caratteristiche, oggettivamente non esaltanti, hanno solleciato negli
appassionati e nei commentatori una grande nostalgia verso il “ciclismo di una
volta”, tanto che si é assistito dovunque al fiorire di repliche in chiave
moderna di corse “epiche” . Non a caso una di queste gare, che vede la presenza
di vecchi campioni in disarmo e di un nugolo di cicloturisti, si chiama
“L’Eroica”: si disputa ogni anno a Gaiole in Chianti e ammette la presenza di
concorrenti solo se abbigliati alla vecchia maniera (occhialoni per la polvere,
tubolari a tracolla) e provvisti di una bicicletta anteguerra. E non é un caso
se per Pantani, in piena epoca del ciclismo “moderno”, é stato riesumato il
termine “eroico” riferito al suo modo di correre: Pantani, si scrisse subito al
suo apparire, é “un corridore che vince alla vecchia maniera”, un “eroe”. Si
parlò di avversari “travolti”, “schiantati”, “devastati”, annichiliti davanti
al suo spettacolare modo di correre che produceva distacchi abissali, appunto
“d’altri tempi”. L’accostamento
di Pantani a Coppi, ultimo “eroe” del ciclismo, é stato immediato e spontaneo.
Alfredo Martini, ex commissario tecnico della Nazionale di ciclismo, disse: “Mi
ricorda Coppi...”. Guido Vergani sul “Corriere della Sera” scrisse: “Il cuore
ha deciso: é come Fausto Coppi”. Coppi, che al suo rivelarsi nel 1940,
indossava una bandana come il “Pirata” della Cosa Adriatica. Coppi, del quale
fu detto subito “é un campione nuovo che vince all’antica”.
Ogni “era”
ciclistica ha sempre rincorso quella precedente, cercando quei brividi
epidermici, quelle emozioni provocate dalle imprese leggendarie di “eroi” della
bicicetta. Prima di Coppi “l’airone” c’era stato Bartali “l’uomo di ferro”, e
prima ancora – camminando a ritroso – Guerra “la locomotiva umana”, Binda “il
dittatore”, Girardengo “il Campionissimo”, Bottecchia “il carrettiere
friulano”, Gerbi “il diavolo rosso”, Garin “il mastino bianco”. Gente che
correva con biciclette pesantissime, tubolari di riserva a tracolla, strade
sassose e impolverate, distanze impossibili, corse di dieci e più ore, ogni
gara un’epopea ricca di piccoli e grandi drammi, sofferenze atroci da
sopportare, fatiche bestiali, gioie indicibili nel momento dell’agognato
trionfo. Il ciclismo “eroico” era visto e sentito come metafora della vita (per
giungere vittoriosi al traguardo bisogna soffrire) e nei suoi interpreti si identificava
il popolo degli appassionati e non.
In Francia,
fine 800. Brandivano la bicicletta come bandiera per le loro rivendicazioni i
maschi degli strati sociali più bassi, contadini, garzoni di bottega, operai
delle fabbriche che fossero. Erano stati i primi a cavalcare un velocipede non
appena qualcuno aveva cercato manovalanza a basso costo per sperimentare e
pubblicizzare nelle corse le grandi potenzialità di quel veicolo. Era stata la
loro grande occasione per togliersi dall’anonimato e per guadagnare qualche
soldo extra in tempi in cui il malcontento delle classi più povere aveva
generato i primi scioperi. Subito la stampa aveva celebrato le loro imprese,
conscia che la gente non aspettava altro che eroi da idolatrare, uomini in
grado di compiere gesta sportive fuori del comune. Corridori,
industria, giornali: questo il trinomio che aveva contribuito al successo della
bicicletta in tutto il mondo. La prima corsa in assoluto, effettuata su bicicli
dal gigantesco ruotone anteriore, si era svolta a Parigi nel Parco di
Saint-Claude nel maggio del 1868. Aveva riscosso tanto entusiasmo che nello
stesso anno erano sorti a Rouen, Parigi e Tolosa altrettanti Véloce-Club mentre
erano nate le riviste “Le Vélocipède”
e “Le Vélocipède illustré”:
quest’ultima aveva come caporedattore Richard Lesclide che poi sarebbe
diventato segretario di Victor Hugo, e che l’anno dopo – 1869 – aveva
organizzato la Parigi-Rouen di 123 km. I mille franchi in palio li aveva vinti
l’inglese James Moore ma chi aveva scatenato gli entusiasmi più focosi era
stata Miss America, che aveva terminato la prova al 20.o posto.
Più tardi, con le innovazioni apportate alla bicicletta, si era scatenata una vera e propria velocipedomania, diffusasi dalla Francia all’Inghilterra, all’Italia, alla Germania. Gli artigiani più intraprendenti avevano colto lo spirare del vento e vi si erano messi in scia. Ed ecco i primi laboratori per costruire in serie quei veicoli alla moda.
Fatte le
biciclette, bisognava venderle. Per venderle bisognava pubblicizzarle. Da qui
l’idea delle gare, nate quasi simultaneamente dalla mente dei costruttori non
solo dei velocipedi ma anche dei componenti: pneumatici, freni, selle,
abbigliamento. Per divulgare questi prodotti non erano sufficienti i manifesti
affissi nei caffè o sui muri delle strade. Ed ecco nascere le corse, su strada
e su pista. Erano stati costruiti velodromi in tutta la Francia, a Parigi il
primo era stato il Velodromo di Buffalo, cosiddetto dalla località in cui anni
prima aveva messo le tende il circo del mitico Buffalo Bill. Il colonnello
William Cody a sua volta era divenuto un appassionato del velocipede tanto da
inserire nel suo show sfide tra ciclisti e giumente e altri numeri in cui le
due ruote erano protagoniste. Alle spese del Velodromo di Buffalo aveva
contribuito in maniera sostanziosa le Folies Bérgere che poi più tardi avrebbe
sponsorizzato il Grand Prix de la Ville de Paris, da corrersi intorno al
quartiere dove sorgeva il celebre locale.
Il crescente
successo di questo nuovo sport aveva provocato una autentica fioritura di nuovi
fogli specializzati: Le Sport
Vélocipèdique, La Revue Vélocipèdique,
Vélodrole, Cycliste, Le Cycle, Paris-Pedale, Véloce Sport poi trasformatosi in La Bicyclette. Erano realizzati da giornalisti appassionati di
bicicletta e in qualche caso a loro volta corridori. Chi aveva alle spalle
proprietari senza problemi di risorse finanziarie, si era fatto promotore di
corse su strada: le spese e le difficoltà di organizzazione erano enormi ma il
tornaconto era pressoché assicurato in copie vendute e in introiti pubblicitari.
Attiravano un numero enorme di spettatori, anche perché per vedere i corridori
non bisognava pagare alcun biglietto a differenza dei velodromi. E poi perché,
anziché da lontano come nelle piste, in strada si potevano vedere gli eroi del
pedale da pochi metri di distanza. A confronto delle gare in pista, destinate a
un pubblico ristretto, quelle su strade erano viste come una vera e propria
“iniziazione” del pubblico al ciclismo, e i corridori erano considerati i
promotori di un movimento di opinione. Le Petit Journal, il più importante quotidiano francese
con un milione di copie vendute, era stato il giornale che maggiormente aveva
contributo alla diffusione della bicicletta grazie alle straordinarie prove
messe in calendario. Tutte ideate su lunghe distanze, in modo da poter
attraversare il maggior numero di paesi possibile. Propulsore di questa
“politica” sportiva era stato il caporedattore del giornale. Si chiamava Pierre
Giffard, era un ex cronista del Figaro,
un giovanotto entusiasta, dinamico, avventuroso, grande organizzatore.
All’inizio era stato un po’ scettico sulle reali possibilità della bicicletta:
troppo spesso quell’attrezzo aveva denunciato imbarazzanti carenze come la
rottura del freno e delle ruote, il distacco dei pedali dal loro supporto, lo
scollamento delle gomme. Aveva promosso gare podistiche e automobilistiche, e
poi finalmente si era lanciato sul ciclismo.
Giffard
cercava però una verifica della popolarità del ciclismo fra i lettori e nel
contempo voleva promuovere un’operazione spettacolare che fosse proficua per
l’industria del ciclo. Così a fine estate dello stesso 1891, in settembre,
aveva annunciato la creazione della Parigi-Brest-Parigi, una corsa mostruosa di
1.185 km, dalla capitale fino all’Atlantico e ritorno (adesso viene replicata,
ogni quattro anni, per la gioia di migliaia selezionatissimi cicloturisti).
L’uomo avrebbe mai potuto superare con la sola forza dei suoi muscoli una prova
così ardua? E la bicicletta avrebbe resistito alle insidie delle strade sconnesse?
Con una serie
di articoli su Le Petit Journal era
riuscito a creare un’atmosfera di attesa spasmodica attorno alla sua corsa. Si
erano subito iscritti 400 ardimentosi fra cui anche sette donne che poi
all’ultimo momento Giffard aveva deciso di escludere assieme ai corridori
stranieri. Alla fine i partenti sarebbero stati 207. Il tempo massimo per
coprire la distanza era stato fissato in 10 giorni. Era vietato cambiare
bicicletta. Erano ammessi i souiveurs, coloro che erano incaricati di aiutare i
corridori, trasportando vivande, vestiti di ricambio, lampade e quant’altro
fosse necessario alla spedizione. Era una sfida sensazionale. I medici del
tempo avevano detto che realizzare un’impresa titanica come quella non era
nelle possibilità umane. “Se da questa
lotta – aveva scritto Giffard – verrà
fuori la macchina che non si guasta a ogni pié sospinto - come capita, ahimé,
otto volte su dieci con gli attuali giocattoli che si vendono sotto il nome di
bicicletta – che gran passo in avanti per il ciclismo!”. “La più lunga corsa che sia mai stata
organizzata”, era stata celebrata la Parigi-Brest e ritorno. E aveva
suscitato eccitazione fra gli industriali: era la prova del fuoco per la
robustezza dei loro materiali, per le novità tecnologiche introdotte. Bisognava
vincere questa corsa o quantomeno piazzarsi bene. Erano ammessi tutti i
possibili tipi di veicoli a propulsione muscolare: in gara c’erano anche dieci
tricicli, due tandem e un biciclo, quello col ruotone gigante.
I pronostici
della vigilia avevano dato favoriti due corridori: Jacques Jiel- Laval, un
professionista bordolese sotto contratto con la Clément gommata Dunlop,
calcolatore, metodico, e Charles Terront, parigino dell’Avenue Saint-Ouen.
Terront, ormai 34enne, sangue caldo e muscoli d’acciaio, era l’idolo degli
appassionati di velocipede. Si era conquistato fama sulle piste di Londra e di
Edimburgo, aveva corso le 6 Giorni di New York, nel 1889 era stato campione di
Francia sui 100 km. A tutti dichiarava di dovere la propria energia a una dieta
speciale: “Quando ne ho bisogno, prendo
un po’ di vino, ma di quello buono!” A quel tempo era più famoso del
presidente della repubblica e del Papa, era il primo eroe nazionale dello sport
francese. Terront era in gara con una bicicletta fabbricata dall’inglese Thomas
Humber (l’importatore era Clément) pesante 21,5 kg e gommata Michelin che
nell’occasione aveva presentato una novità assoluta: il pneumatico smontabile.
La partenza
era stata data alle 6.17 del mattino del 6 settembre. Dopo innumerevoli
peripezie Charles Terront (fra l’altro aveva dovuto compiere un lungo tratto
pedalando con una sola gamba per la rottura di un pedale) era riapprodato a
Parigi alle 6.35 del 9 settembre fra l’entusiasmo di diecimila spettatori. Non aveva
mai dormito, aveva percorso la distanza in 71 ore e 16 minuti pedalando alla
media di 16 km/h. I fratelli André ed Edouard Michelin nella notte precedente
l’arrivo avevano preparato dei manifesti che pubblicizzavano Terront e i nuovi
pneumatici smontabili. Terront proclamava gioiosamente: “E’ solo grazie alla semplicità con cui li si può smontare e riparare
che ho vinto la Parigi-Brest”. Aveva forato sei volte e sei volte era
ripartito in un tempo ragionevole guadagnando terreno sugli avversari. Il secondo,
Jiel-Laval, era arrivato otto ore dopo. Da quel giorno sarebbero stati
abbandonati i pneumatici di gomma piena. Charles Terront, non imbeccato da
alcun pubblicitario, aveva anche rilasciato una considerazione storica: “Per la prima volta abbiamo scoperto una
nuova concezione del viaggiare, una nuova via all’avventura, una nuova
prospettiva del piacere. Questi ciclisti hanno percorso in media 120 chilometri
al giorno per dieci giorni e nonostante ciò sono arrivati al traguardo freschi
e sani. Anche un esperto cavaliere non ce l’avrebbe fatta. Credo che abbiamo
passato il confine di un nuovo e meraviglioso mondo”. Pierre Giffard avrebbe esaltato questo concetto nel libro "La fin du Cheval".
Da quel
giorno, e per quell’impresa, Charles Terront era stato chiamato Napoterront. Avrebbe poi consolidato la
propria fama vincendo in 14 giorni e 7 ore la Parigi-San Pietroburgo via Vienna
di 3.000 km. In questa corsa Terront avrebbe utilizzato una bicicletta sulla
quale era stata installata una clamorosa novità: un tubo per urinare senza
scendere di sella! L’industria ciclistica e componentistica aveva rinforzato la
propria immagine, tanto che presto sarebbero scese in campo nuove marche come
la Gladiator, la Delin, l’Omega e dal 1902 l’Alcyon, che avrebbe firmato i
successi di grandi campioni come Henri Pelissier. Le Petit Journal aveva aumentato le vendite e Pierre Giffard si era
finalmente convinto della validità dello sport ciclistico. Tanto che un anno
dopo la Parigi-Brest-Parigi aveva fondato un proprio giornale: il quotidiano
sportivo Le Vélo, il primo in
Francia. Dopo, sarebbe arrivato l'Auto di Henri Desgrange, promotore del Tour de France (nella foto qui sotto, Garin, il vincitore del primo Tour nel 1903)
Se Charles
Terront é stato il primo “eroe” del ciclismo, l’ultimo é stato Fausto Coppi.
Per il quale si scomodarono giornalisti e scrittori di grandissimo livello come
Indro Montanelli, Curzio Malaparte, Orio Vergani. Giovanni Arpino scrisse di un
“Coppi eroe” e lo definì “ippogrifo”. Giorgio Bocca lo etichettò come “uno dei
pochi possibili semidei degli anni amari del dopoguerra” e Gianni Brera disse
che “é stato il vero eroe di un paese costretto ad inventarsi eroi”. Jacques
Goddet, per anni direttore de Tour de France, scrisse che esprimeva una
“superpotenza” e Candido Canavò direttore de “La Gazzetta dello Sport” un
giorno nel rievocarne la figura parlò della ”potenza divina del superatleta
Coppi”.
Insomma, un
mito. Tale divenuto per le sue imprese strabilianti ma anche per la
terminologia suggestiva usata nell’illustrarlo al popolo. La figura di Coppi é
rimasta nella memoria di tutti soprattutto per una frase pronunciata con enfasi
dal radiocronista Mario Ferretti nel collegamento d’apertura con la tappa
Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia 1949. Coppi aveva scavalcato le Alpi francesi
con devastante potenza, stava portando a compimento una fuga solitaria di 192
km. E Ferretti attaccò, urlando: “Un uomo solo al comando, la sua maglia é
biancoceleste, i suo nome é Fausto Coppi!”. Parole da brivido, un’etichetta
indelebile, una contaminazione brutalmente provocata con l‘animo di
appassionati, donne, bambini, anziani.
Coppi é ancora
oggi, per tutti, “l’uomo solo al comando”.
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