Questa è la storia straordinaria del primo italiano vincitore del Tour, un povero diavolo pieno di dignità passato nel volgere di pochi anni dal nulla alla gloria e quindi alla tragedia. E' anche e soprattutto la storia di una sfida feroce giocata nella Francia degli Anni 20 da due uomini, Ottavio Bottecchia e Henri Desgrange, diversissimi e pure legati da un'unica ossessione: il denaro.
Bottecchia è un campagnolo trevigiano, ultimo di otto figli di un mugnaio e di una contadina, il cui solo pensiero è sopravvivere. A 19 anni è stato in guerra, esploratore d'assalto; ha guadagnato una medaglia per essere sfuggito agli austriaci e aver portato in salvo una mitragliatrice. Tornato con i polmoni intaccati dai gas e la malaria addosso, sbarca il lunario facendo il carrettiere e quando è la stagione va a Clermont Ferrand a fare il muratore. Oggi il nord-est d'Italia è benestante, disoccupazione minima. Allora si faceva la fame: anche Carnera fu costretto a emigrare a Le Mans per trovare lavoro. “Tavio” è taciturno, la faccia scolpita da patimenti e rancori e vagheggia il socialismo nel tempo in cui Mussolini ha appena marciato su Roma. Va verso la trentina, è sposato con Caterina Zambon e la difterite gli ha appena rapito una figlia di 18 mesi, quando gli scoprono doti da corridore: in guerra era bersagliere ciclista, a Clermont Ferrand sfogava rabbia ed energie dando l'assalto al Puy de Dome, al paese nei giorni festa batte tutti quelli che lo sfidano. Forse, pensa, la bicicletta può essere l'attrezzo di lavoro in grado di cambiargli la vita.
In Francia Henry Desgrange è un uomo ricco e potente. E' stato corridore (il primo a stabilire il record dell'ora, nel 1893) è direttore di un giornale sportivo, L'Auto. All'inizio del 900 ha pescato nella tradizione popolare l'idea vincente. Una volta c'erano i Compagnons du Tour de France, artigiani e operai che giravano il Paese per divulgare la professione. Desgrange pensò che moderni cavalieri erranti avrebbero potuto fare altrettanto per diffondere nella nazione il verbo dello sport, che aveva cominciato ad infiammare tutti. Ed ecco il Tour de France in bicicletta. Sempre più duro col passare degli anni, perché la gente aveva bisogno di eroi e lui di aumentare le vendite del suo giornale e gli introiti pubblicitari. Aveva inserito nel percorso le Alpi, poi anche i Pirenei. Tappe di 300-400 chilometri intervallate da un giorno di riposo, sicuramente insufficiente a ridare sembianze umane agli avventurosi della bicicletta. Il sogno di Desgrange era stato quello di "portare tutta la magnifica brutalità delle corse in bicicletta fra la gente". Aveva capito di averlo realizzato il giorno che l'avevano chiamato carnefice: quell’insulto andava tutto a vantaggio della leggenda della sua corsa. Bici di 10-15 chili e senza cambio, strade sfatte, si partiva di notte con la pila in mano e i tubolari di riserva a tracolla, lo zaino dei viveri sul manubrio, si stava in sella anche 14 ore. Il suo Tour lo vincevano però solo francesi e belgi e questo a un certo punto lo preoccupò. Occorreva un nuovo eroe. Per esempio un italiano, perché la Francia era piena di immigrati italiani. Già una ventina dei nostri ha tentato l'avventura: Gerbi, Ganna, Girardengo, Belloni ne erano usciti sconvolti.
E' così che lo sconosciuto Bottecchia nel 1923 finisce a correre il Tour. Grazie a Ganna ha partecipato al Giro d'Italia, è arrivato quinto e primo degli isolati, soprattutto ha impressionato l'uomo mandato da Desgrange a cercare gente disposta al martirio francese. Girardengo e Brunero si sono rifiutati. Bottecchia, affamato com'è, accetta e parte. Deve fare il gregario dei fratelli Pelissier, Henri e Francis, nella squadra dell’Automoto. Il primo è una leggenda vivente, i medici dicono che ha polmoni e cuore fenomenali. Misteriose energie ricava poi dal "tè del Paraguay", un intruglio dalla formula segreta. Bottecchia non sa una parola di francese, impara solo a dire oui e a fare poi quello che gli detta il cuore. Non sopporta ordini, è sempre stato uno spirito semplice ma libero. Sicchè alla faccia dei Pelissier alla seconda tappa è già maglia gialla. Rimarrà leader sei giorni, fino a quando non lo stroncano le terribili e sconosciute montagne, prima il Tourmalet e poi l'Izoard, di cui fa a piedi gli ultimi tre chilometri. Finisce secondo, quel Tour, dietro a Henri Pelissier, ma ha conquistato la simpatia dei francesi per quello spirito indomito esibito, per quell'incoscienza che è propria dei temerari. Desgrange non ha dubbi: scrive che "Botescià" (così lo chiamano i francesi) è stata la vera grande rivelazione della corsa. Soldi a palate entrano nelle tasche dello stralunato Tavio, ci sono anche le 60 mila lire di una sottoscrizione popolare lanciata dalla Gazzetta dello Sport in favore del valoroso compatriota che si è fatto onore in terra straniera. Allora usava così: anche De Prà, portiere della Nazionale di calcio, si ebbe un orologio d’oro e tremila lire per il suo eroico comportamento contro la Spagna di Zamora. Bottecchia torna nel suo Veneto e comincia a costruire con le sue mani una casetta a Pordenone. Essendo un generoso, regala anche un pezzo di terreno al suo amico Piccin.
Desgrange ha intuito che Bottecchia può fare la sua fortuna: lo giudica un fenomeno, anche se un po' strano. E Ottavio capisce che il Tour può farlo ricco. E' così che nasce la grande sfida fra i due. Nel 1924 il campagnolo veneto è di nuovo lì, questa volta deciso a pigliarsi tutto. Degrange non ha cambiato nulla del Tour, se non qualche chilometro in più nelle solite 15 tappe: sportivamente vuol dare all'italiano la possibilità di prendersi la rivincita. E Bottecchia fa l'impresa della vita. Se nel 1923 ha corso d'istinto, questa volta lo fa con fantasia controllata. Ha disertato le corse italiane, non ha accettato le sfide di Girardengo e dell'astro nascente Binda, si è preparato con Piccin per la corsa francese. Vince la prima tappa e chiarisce ai Pelissier che lui non si considera più gregario. I due francesi si ribellano ma Desgrange cinicamente li butta fuori corsa attaccandosi a un cavillo del regolamento: loro sono il passato, il presente è quell'italiano stralunato, "enigmatique", selvaggio, un animale da corsa, l'ideale per esaltare il suo Tour disumano.
Bottecchia tiene la maglia gialla fino all'ultimo giorno e, primo italiano nella storia, vince la corsa. La sua grande impresa l'ha costruita nella Bayonne-Luchon, sesta tappa, 326 km, che si corre due giorni dopo la Les Sables-Bayonne, la più lunga frazione di tutta la storia del Tour, 482 km coperti in oltre 19 ore (Bottecchia è secondo dietro al gregario Buysse). Verso Luchon ci sono 7 colli. Botescià infila il primo, l'Aubisque, e poi solitario con i suoi pensieri scavalca il Tourmalet, l'Aspin, il Peyresourde e dopo 16 ore di bicicletta approda al traguardo disfatto, le gambe tremanti, 16’ prima degli altri. La tappa successiva, a Perpignano, è ancora sua e sua sarà anche l'ultima, quella del trionfo nei Campi Elisi: il muratore di San Martino che passa in giallo sotto l'Arco di Trionfo è la rivincita di tutti i nostri emigranti. Ha vinto il Tour con una impresa devastante, per sé e per gli avversari. E' in quell'anno che Albert Londres, reduce dalla Cajenna per un reportage sui lavori forzati dei galeotti, battezza i corridori del Tour "les forçats de la route", i forzati della strada, per dire le condizioni disumane in cui devono sopravvivere i corridori.
Tavio, ex carrettiere, ex muratore dalle mani callose, adesso è un uomo agiato. In bocca tiene uno stuzzicadenti, "dà un'aria da signore", spiega. E Desgrange è un uomo felice: la tiratura del suo giornale è salita da 65.000 a 500.000 copie, i contratti pubblicitari sono triplicati, l'industria della bici gliene è grata in maniera tangibile. Ma da impresario che ama il rischio qual è, il patron alza ancora la posta. Bottecchia è un fenomeno? Lo dimostri un'altra volta, e in un contesto ancora più difficile. Il Tour 1925 ha 18 tappe anziché 15, tappe consecutive con soli tre giorni di riposo, niente abbuoni. L'enigmatico Bottecchia non fa una piega: sa di rischiare ma pensa a quanti franchi potrà portarsi a casa Accetta la sfida e domina anche quel Tour, questa volta col cervello: ha imparato a distribuire le forze. Vince quattro tappe, travolge tutti sulle Alpi e i Pirenei, subisce due cotte spaventose poi recupera, è penalizzato di 10' ma alla fine ne conta 54 sul secondo. Un trionfo che gli varrà decine di riunioni in pista, una tournée in Sudamerica, carrettate di soldi.
La folla è sbalordita, Desgrange folgorato. Quell'italiano che sopporta ogni calvario adesso lo incuriosisce davvero. Fin dove potrà arrivare? E nel 1926 inventa una corsa al massacro, un Tour di 5.795 km, il più lungo della storia. Bottecchia questa volta rifiuta. Dice che è "stanco di pensare". Il Tour non è solo fatica fisica ma anche mentale: è stanco degli assalti dei tifosi, degli industriali, degli impresari, dei giochi di squadra; è stanco anche di sentirsi dire che lui in Italia non ha vinto niente, che non è nessuno. Ed è stanco anche nel corpo: ha 32 anni, sempre più spesso ha dei mancamenti e i reni gli fanno male. Ma il richiamo dei soldi, tantissimi, è irresistibile: la sua Caterina e sua figlia Fortunata Vittoria, così chiamata dopo il Tour del 24, non devono mai soffrire i patimenti che ha subito lui. Va dunque in Francia ma questa volta dopo sei giorni si arrende, malinconicamente si ritira.
Sa che gli resta più poco da spendere, e adesso dice di voler vincere in Italia, dove la stampa da tempo ha preso sempre più le distanze da lui: è un socialista dichiarato, frequenta i circoli operai, e in tempi di manganelli non è salutare esaltare chi non la pensa come vuole il regime. Incurante dell'ostracismo e dell'invidia dei colleghi italiani, persegue tenacemente il nuovo obiettivo.
Improvvisa, la tragedia. Ai primi di giugno 1927 viene trovato agonizzante sulle strade di casa sua con il cranio fracassato, vicino alla sua bicicletta. Morirà dopo dodici giorni di coma. Caduto per un malore, si dice. Oppure ammazzato da un contadino che l'ha sorpreso a rubare frutta, si ipotizza. Qualcuno mormora che potrebbe trattarsi di un delitto politico, per via delle sue idee antiregime. I fascisti hanno fatto fuori Don Minzoni e Matteotti e altri, c'è chi giura che la stessa mano ha colpito anche lui. Anche la sua fine resterà un enigma. E' questa la straordinaria storia di Botescià, il primo italiano a vincere il Tour. Quando vedete sulle strade una bici "Bottecchia", ricordatevi dell'uomo che ha dato il nome a questo marchio.
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