C’era un sole dolce, quel giorno
maledetto del 1944 in cui si correva la Parigi-Roubaix. Era il 9 aprile e
intorno c’era un acre sapore di guerra: la Francia era libera per metà, lo
sbarco in Normandia sarebbe avvenuto esattamente due mesi dopo, lo sport si
trascinava fra sentimenti contrastanti, di paura e di esaltazione. Dieci
corridori erano andati in fuga e Jean Robic, “il piccoletto delle Ardenne”, li
inseguiva come una furia. Era al suo secondo anno di professionismo, aveva
nemmeno 23 anni e un coraggio da leone: alla fine della guerra gli avrebbero
dato la medaglia della Resistenza perché, nascosti nel telaio della bicicletta,
aveva recapitato messaggi ai partigiani francesi oltrepassando le linee
tedesche con la scusa degli allenamenti. Bartali in Italia aveva fatto qualcosa
del genere. Fu nell’attraversamento di Amiens che “Jeannot” scivolò sulle
rotaie del tram. Una caduta rovinosa, il capo sbattuto violentemente sul
selciato, le auto che scartavano e frenavano per non passargli sulle gambe. Si
rialzò un po’ stordito, circondato dalle cure dei curiosi e dei meccanici. Dopo
un po’ disse che stava bene, risalì in bicicletta nonostante un feroce mal di
testa. Sarebbe accaduto sette anni dopo anche a Serse Coppi, ma “Gilda” ne
morì. Robic invece montò sulla sua macchina e guidò fino a Parigi. La mattina
dopo, avendo ancora mal di testa, andò in ospedale a farsi dare un’occhiata.
L’operarono d’urgenza, aveva due fratture, gli trapanarono il cranio: per i
medici, che fosse sopravvissuto aveva dell’incredibile. Fu da quel giorno che
Jean Robic ricominciò a correre con un caschetto di cuoio in testa. Lo
chiamarono “Tete de cuir”, testa di cuoio. Più tardi l’avrebbero chiamato “Testa
di vetro”, perché si sarebbe rotto la testa una seconda volta, nella Ronde de
France del 1946, e di lì alla fine della carriera avrebbe contato altre 11
fratture. Si divertiva a elencarle ai giornalisti: frattura alla mano destra
nel ‘48, rottura di un’arcata sopracciliare nel ‘50, clavicola sinistra
spezzata nel ‘52, quattro vertebre incrinate nel ‘53 nella discesa del
Galibier, due fratture al naso non ricordava quando, frattura del femore destro
nel 1956. “Non m’importa - diceva - le mie gioie più grandi le devo al
ciclismo”.
Era davvero un innamorato della
bicicletta. Figlio di un carpentiere di Mobihan trapiantato in Bretagna,
piccolo e gracile, secondo le intenzioni del genitore avrebbe dovuto imparare
il mestiere di carradore. Invece marinava scuola e lavoro per andare a vedere
le corse e correre lui stesso. Aveva 15 anni e le braghe corte quando cominciò
a farsi notare nelle gare locali. A 19 anni, nel 1940, se ne andò a Parigi a
fare il meccanico nella bottega di biciclette di Sausin, un vecchio corridore
in pensione. Sfidò le speranze ciclistiche della capitale con successo, tanto
che lo convinsero, nel 1943, a passare professionista. Correva per la “Génial
Lucifer” e mai marca di bici fu più adeguata a un ciclista. Era un funambolo,
scartava le buche nelle strade sollevando le ruote, saliva sui marciapiedi,
zigzagava di qua e di là. A fine carriera si sarebbe anche esibito nei circhi.
E non é un caso che fosse diventato un asso del ciclocross tanto da vestire la
maglia iridata della specialità o che vincesse le gare dietro motori.
Era uno scalatore e il suo stile di corsa
rifletteva il suo temperamento. Fra i suoi vari soprannomi c’è anche quello di
“Biquet”, il capretto. Non faceva calcoli, se si sentiva di fare mattane
partiva subito dopo il via e quando se ne andava era difficile stargli dietro.
Aveva una formidabile capacità fisica e mentale di sopportare il dolore e la
fatica. Era un combattente straordinario, a dispetto delle sue dimensioni,
dotato di una volontà feroce e a questo dovette la sua popolarità: alla gente
piaceva un tipo così, capace di sfidare i grandi, di buttare il cuore oltre la
sofferenza. Nel Tour del ‘52 fu il primo francese dietro a Coppi, vinse la
tappa di Avignone staccando Bartali di quasi due minuti, all’Alpe d’Huez fu
secondo solo al grande Fausto e la gente andò in delirio. Nel Tour del ‘53
conquistò la maglia gialla a Luchon stracciando Bobet e Bartali.
In 18 anni di carriera non ha vinto
molto, 30 corse, ma quando annunciò di voler appendere la bici al chiodo ci fu
il rimpianto di tutti. Tranne che di quelli con cui aveva questionato, ed erano
tanti. Per questo al Tour solo una volta fu inserito nella Nazionale francese.
Altrimenti, sempre in una squadra regionale. Al via del Tour 1947 giurò che
l’avrebbe fatta pagare a Vietto che nella Monaco-Parigi dell’anno precedente
aveva favorito il suo allievo Apotre (detto Apo, era di origine greca)
Lazarides anziché lui. Nel Tour del 1948 irrise Bartali che era staccato di una
ventina di minuti in classifica, mettendosi a scorazzare con una moto davanti
all’hotel del toscano. Nel 1953 se la prese con Coppi, reo di aver aiutato
Ockers e Fausto gli rispose con una lettera aperta sui giornali. Odiava Bobet e
Geminiani, polemizzava con i giornali e i direttore sportivi. Oltre che Testa
di vetro cominciarono a chiamarlo anche “Testa di legno”. Era matto, Jean
Robic. E nel 1947 fece impazzire tutta la Francia. Perché vinse quella corsa
all’ultimo giorno e senza aver mai indossato la maglia gialla quando ormai
pareva che gli italiani avrebbero concluso in trionfo. Vale la pena raccontare
nel dettaglio questa storia, perché fu una storia da brividi.
Si correva dopo otto anni di interruzione
e molte cose erano cambiate. Il giornale organizzatore L’Auto era scomparso e
al suo posto c’era L’Equipe. Era morto Henry Desgrange e il patron era Jacques
Goddet. La squadra francese comprendeva il giovane Bobet e i vecchi draghi
Vietto, Fachleitner, Teisseire. Robic non era stato preso in considerazione ed
era stato relegato nella formazione dell’Ovest. “Lo so che mi considerano un rigolo, un fanfarone - minacciò - ma
vedremo come andrà a finire...”. Si era sposato quattro giorni prima del
via con la figlia di un ristoratore di Montparnasse e nessuno gli dava credito
anche per questo. Per i giornali, i grandi favoriti erano “le roi” Vietto e
Fachleitner; Combat puntava sul debuttante Bobet e Paris Presse su Ronconi. La squadra italiana non riscuoteva molta
considerazione: assenti Coppi e Bartali, gli uomini di punta erano il
passista-scalatore Ronconi e Cottur; i tricolori - guidati dal giornalista
Guido Giardini - erano stati rinforzati con la presenza degli italo-francesi
Brambilla e Tacca. Era un Tour duro ma propenso a venire incontro ai più
arditi: un minuto di abbuono a chi passava per primo sui colli di prima e
seconda categoria. Robic, oltre che sulla propria rabbia, contava anche su
questo. Era uno scalatore: saliva ondeggiando con le spalle e con la testa,
cambiando traiettoria, sembrava sempre sul punto di morire ma poi mordeva la
strada come pochi.
Fu un Tour bellissimo, quello, ricco di
colpi di scena. L’inizio sembrò confermare i pronostici della vigilia. Già alla
seconda tappa, a Bruxelles, Vietto era in giallo. Avrebbe poi resistito a un
furibondo attacco di Ronconi, nella quinta, nel momento in cui si era fermato
per un “bisogno”. Una simile ingenuità sarebbe stata fatale nel Giro ‘57 a
Charly Gaul ma a “le roi” costò solo il pericoloso avvicinamento dell’italiano
in classifica: 1’22”. Robic, che aveva dato un saggio delle proprie intenzioni
arrivando a Strasburgo solitario con un minuto su Kubler, in classifica era
distanziato già di un quarto d’ora. Ma aspettava con fiducia il giorno giusto
per la stangata.
Il giorno giusto fu il settimo, con la
Lione-Grenoble. “Biquet” attaccò come un forsennato sul Cucheron e fece una
strage: Brambilla e Fachleitner arrivarono a oltre 4’, Ronconi a 6’, Vietto a
8’24”. Il sorprendente corridore romagnolo vestì la maglia gialla ma la dovette
cedere di nuovo a Vietto due giorni dopo, nella Briançon-Digne con l’Izoard, il
Vars e l’Allos. Quel giorno Robic,
caduto nella discesa del Vars, arrivò a 6’30” e in classifica ripiombò
indietro. Testa di vetro non se ne preoccupava molto: aspettava la crisi di
Vietto, che puntualmente venne all’indomani, verso Nizza. La maglia gialla
scalando i colli a lui famigliari del Braus e della Turbie perse sei minuti: a
sua scusante, il fisico debilitato dalla penicillina assunta per curare
l’incisione di un foruncolo. Intanto la spocchia e la presunzione di Robic
avevano fatto sì che il minuscolo bretone venisse isolato nella sua squadra.
Ogni giorno andava dicendo che “je me sens irresistible” sicché alla fine i
suoi compagni lo lasciarono solo: se sei così forte, argomentarono, non hai
certo bisogno di noi.
In effetti, per le sue stramberie Robic
non aveva bisogno di nessuno. Lo dimostrò sui Pirenei, tappa numero 15,
Luchon-Pau di 195 km. Scappò dopo 5 km e lo rividero solo al traguardo. Fu una
cavalcata esaltante lungo le salite e le discese del Peyresourde, dell’Aspin,
del Tourmalet, dell’Aubisque. Era il suo giorno di grazia, saliva con un
fazzoletto in testa sotto il casco di cuoio, sembrava un legionario proiettato
nell’avventura della vita. Arrivò a Pau con 10’43” su Vietto, Ronconi,
Brambilla, Fachleitner e Goldschmit. E 5 minuti di abbuono li aveva guadagnati
scavalcando per primo i colli. Ciononostante la classifica vedeva Vietto con
1’54” su Brambilla, 3’55” su Ronconi e 8’08’ su Robic. La battaglia, dicevano i
cronisti, era fra i primi tre, le salite erano finite e quel matto di Biquet
non aveva più terreno per fare esplodere le sue mine. Niente di più sbagliato.
Perché la 19.a tappa, Vennes-St.Brieuc, una incredibile cronometro di 139 km,
rivoluzionò la classifica. Vinse Impanis, ma Robic fu secondo a 4’54”. Ronconi
arrivò a 6’32 e Vietto a 15’. Il cannese si era accordato con un amico perché
gli segnalasse i tempi lungo il percorso. E a un certo momento “le roi” vide
l’amico a terra vicino alla sua moto, il cranio fracassato: si era schiantato
contro un paracarro. Questo l’aveva distrutto. Brambilla era la nuova maglia
gialla con appena 53” su Ronconi, 2’58” su Robic. Vietto era a 5’06, poi c’era
Fachleitner.
L’ultima tappa, Caen-Parigi di 257 km,
secondo logica avrebbe dovuto vedere il
sensazionale arrivo dei due italiani sotto l’Arco di Trionfo. Ma i francesi non
ci stavano, questione d’orgoglio. Così quando sulla salitella di Bonsecours,
all’uscita di Rouen, Brik Schotte e Teisseire sferrarono un attacco,
Fachleitner che era quinto in classifica a oltre 8’ fu il primo a muoversi. Brambilla e Ronconi persero quei
venti metri che poi sarebbero diventati 100 e poi 500, fatali insomma. Robic
invece fu svelto a mettersi a ruota di Fachleitner. Mentre Schette volava verso
Parigi aumentando il proprio vantaggio, Brambilla e Ronconi piombavano in una
crisi irreversibile. E Robic a un certo punto si ritrovò maglia gialla. Ma non
ancora sul podio. Fu allora che avvicinò Fachleitner e gli disse: “Non mi
scappi, ormai non puoi più vincere il Tour. Stai tranquillo e ti dò centomila
franchi”. Fach, abbandonato l’impossibile sogno, accettò. A Parigi, Robic e
compagnia arrivarono 7’ dopo Schotte ma Brambilla e Ronconi di minuti ne
contarono 13. Fu così che quel piccolo orgoglioso bretone vinse il suo Tour
senza aver indossato un giorno la maglia gialla. Fachleitner fu secondo a
3’58”, poi Brambilla, Ronconi e il povero Vietto.
Quel successo gli regalò gloria,
popolarità e denaro (comprò alla madre un negozio di merceria). Disputò
l’ultimo Tour nel 1959, si ritirò a due giorni dalla fine perché arrivato fuori
tempo massimo. Corse fino ai 40 anni, portando in gruppo e fra la gente la
grinta, la follia, il coraggio e l’irrazionalità. Quando smise, disse che si
sentiva morire. Morì nel 1980, a 59 anni. Naturalmente non nel suo letto, ma in
un incidente stradale mentre tornava da una corsa di gentlemen.
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