La sua vita è stata un incredibile rosario di sfide. Quasi
tutte vinte. Con il padre, che vedendolo preso dalla bicicletta e non dagli
studi, gliela scaraventò dalla finestra. Con Dorando Pietri, il maratoneta eroe
di Londra 1908 che un giorno sulla piazza del mercato di Novi aveva invitato
tutti e con qualunque mezzo a rincorrerlo e a raggiungerlo: Costante inforcò la
bici e lo superò intascando il primo guadagno della sua vita, due lire. Sfida
alle autorità militari quando, recluta ventenne a Verona, scappò dalla caserma
per correre per la prima volta il campionato italiano su strada: vinse e al
ritorno in premio si ebbe quindici giorni di cella di rigore e trenta di
prigione semplice. Sfida a tre epoche del ciclismo e a tre generazioni di
corridori, avendo per avversari Ganna e Gerbi sulle strade infangate e
polverose, Belloni e Brunero su percersi più nervosi e brevi, Binda, più
giovane di lui di nove anni, sull’asfalto e su bici col cambio: percorse
950.000 chilometri, da professionista disputò 289 corse su strada vincendone
128 e 965 in pista, nessun altro saprà fare tanto. Combattè e vinse le leggi
della natura: nel 1918 si prese la micidiale “spagnola” e molto dovette patire
per uscirne sano e vivere poi fino a 85 anni; corse per un quarto di secolo,
vinse la prima gara a 19 anni e l’ultima a 43. Sfidò persino Tazio Nuvolari nel
tiro al piattello: sceso di sella, era divenuto azzurro di tiro a volo e non
ebbe difficoltà a battere Nivola (foto sotto).
Amava anche sfidare le regole. Nel 1912,
dilettante, dopo una vittoria fece pubblicità alla marca della sua bici, cosa
vietata: per questo fu iscritto d’autorità fra i professionisti; nella Sanremo
del 1915 tagliò il percorso e si presentò primo sul traguardo meravigliandosi
poi molto per la squalifica: se la legò al dito e da allora ebbe nel mirino la
corsa di primavera, ne avrebbe vinte sei! In lotta anche con i benpensanti: era
amico di Sante Pollastri, uno che aveva cominciato a correre con lui ma che poi
era diventato malvivente e assassino; fu catturato a Parigi, al Vel’d’Hiv il
giorno che era andato lì per vedere il suo amico Girardengo e questa storia
sarebbe diventata una canzone nei primi anni novanta (“Il bandito e il
campione”, testo e musica di Luigi Grechi, fratello di Francesco De Gregori). E
sfidava a volte anche il ridicolo: mentre Bottecchia vinceva il Tour del 1924,
lui all’Arenaccia di Napoli si faceva battere dal trottatore Gioiello ma tre
anni dopo si sarebbe preso la rivincita, sul cavallo.
Una vita esagerata e superlativa, quella di Costante
Girardengo, per questo detto “Il campionissimo” dal direttore della Gazzetta
dello Sport, Emilio Colombo, che era specialista nel battezzare gli eroi
dello sport (fu lui che chiamò Learco Guerra “la locomotiva umana” e definì
Inter-Milan il “derby della Madonnina”). Sceso dalla bici, avrebbe
combattuto altre battaglie: diede vita a una fabbrica di biciclette forse anche
per strappare alla passione per il pallone i figli mediocri calciatori, Ettore
del Milan e Luciano del Genoa; guidò da commissario tecnico Bartali nel
vittorioso Tour del 1938; scoprì Coppi prima di Pavesi e non potendolo avere
alla Maino nel Giro del ’40 gli lanciò contro il figlio di sua sorella, Osvaldo
Bailo, che fu anche maglia rosa; lanciò
sulle sue biciclette i giovanissimi Ockers e Rik Van Steenbergen.
Raccontata così la vita di Girardengo, parrebbe di essere di
fronte a un colosso. Era detto invece “l’omino di Novi” per la statura (1 e 65)
e il corpo minuto, tutto nervi, in cui spiccavano il tronco poderoso e le
caviglie sottili da purosangue. Lo sorreggevano un cervello eccezionale che lo
fece astuto e intelligente, una sconfinata ambizione che lo portò talvolta a
stravincere (7 tappe su 10 nel Giro 1919 e 8 su 10 nel 1923) e una maniacale
cura della preparazione alle corse: per rafforzare le reni, punto debole dei
ciclisti, d’inverno caricava e scaricava carrettate di ghiaia sulla riva dello
Scrivia come gli aveva raccomandato Cavanna, per abituarsi alla fatica si allenava
con alcuni mattoni legati al parafango, per non sprecare briciole di energia in
vista delle grandi corse dormiva da solo.
Era corridore completo, da pista e da strada, forte sul
passo e in volata, un po’ meno in salita: quando nel Giro del 1921 fu costretto
a scendere dalla bicicletta per completare la scalata del Macerone, si chinò e
col dito tracciò una croce nella polvere della strada: da lì non sarebbe mai
più passato. Il suo temperamento lo rendeva adatto alle corse in linea e non a
quelle a tappe: vinse solo 2 Giri d’Italia, contro i tre di Brunero, per dire.
E disattese sempre gli inviti di Desgrange al Tour: corse giusto quello del
1914, nella squadra di Petit-Breton, l’Automoto, cadde alla sesta tappa, la
Bayonne-Luchon, e si ritirò prima che arrivassero le torture dei Pirenei.
Animato da una feroce volontà e da un esagerata autostima,
faceva di ogni sconfitta il pretesto per una rivincita clamorosa. Quando
Belloni lo batté nella Sanremo del 1917 di 12’, Gira covò la vendetta per un anno.
E nel 1918 inscenò una fuga solitaria di 200 chilometri arrivano al traguardo
13’ prima di Tano, che sarebbe poi stato battezzato “l’eterno secondo”: secondo
a Girardengo. E dire che i due erano amicicissimi: quando si correva a Milano,
il Gira dormiva a casa di Belloni e la mamma di Tano preparava i sacchetti col
pollo, le uova e la torta di riso per tutti e due.
Ruggine autentica invece ci fu con Binda (foto sotto), anche qui
scatenata da questioni d’orgoglio. Quando l’Alfredo da Cittiglio diede a vedere
che la sua stella stava spuntando, nel 1925, la Legnano lo ingaggiò subito e
relegò Girardengo nella squadra di una sottomarca, la Wolsit. Non bastasse,
subito nel Giro di quell’anno ci fu l’episodio che avrebbe dato linfa alla
rivalità dei due: Gira era maglia rosa, nella Napoli-Roma a 50 km dal traguardo
forò e il lombardo lo attaccò; lì si decise la vittoria finale di Binda,
nonostante le sei vittorie di tappa di Costante. Binda aveva 23 anni e
Girardengo già 32 ma l’omino di Novi da quel momento non ci pensò su molto a
tentare di vendicarsi. Nel Mondiale del 1928, fuggito Ronsse, Binda e Gira si
misero all’inseguimento del belga: il cittigliese sollecitò il piemontese a
tirare la sua parte ma Gira si negò: non voleva che si ripetesse la faccenda
dell’anno prima, quando, in fuga assieme, Binda era diventato campione del
mondo lasciandolo per strada, secondo. Straordinario quel 1928 per i tifosi del
Gira: nella Sanremo, staccato da Binda sul Berta, il campionissimo 35enne lo
rincorse e lo raggiunse a tre chilometri dall’arrivo superandolo poi allo
sprint. Così, con una goccia di veleno, nel 1952 avrebbe rievocato quella
corsa: “Sia per aver sbagliato rapporto o perché aveva bevuto qualche
intruglio, fatto è che Binda era provatissimo e io lo battei facilmente in volata”.
Lo battè a fine giugno anche nella Milano-Modena, 186 km a cronometro, prova
per il campionato italiano: Binda arrivò a 3’16” e un grande brivido percorse
la pelle dei tifosi dell’omino.
Che Girardengo sarebbe diventato un campione non c’era mai
stato dubbio. Con la scuola era arrivato fino alla sesta, poi aveva lavorato
nell’osteria dei genitori, in un laboratorio chimico, presso un armaiolo di
Novi e all’Alfa di Tortona. Sempre avendo in testa la bicicletta: ne era
affascinato. Comincia a correre a 16 anni, nel 1909. A 17 lo pagano già 6 soldi
al km in caso di vittoria che diventano 12 nel 1911 quando conquista ben 22
delle 29 corse cui partecipa. Lo chiamano “Giribaldengo”, un nome che sa di
spavaldo ed evoca Garibaldi.
Professionista nel 1912 con un ingaggio alla Maino di una
lira al km, nel 1913, a vent’anni, diventa campione d’Italia, vince la
Roma-Napoli-Roma, la Gran Fondo di 610 km e guadagna già 180 lire al mese.
L’esplosione del ragazzino di Novi è accolta dai tifosi e dai giornali con urla
di gioia: finalmente è nato chi potrà mettere in riga gli assi stranieri che
vengono in Italia a vincere le nostre classiche. Si pensa soprattutto a Henri
Pelissier detto “la ficelle”, lo spago, per via della conformazione fisica e
della resistenza all’usura. Il francese, che ha quattro anni più di Gira, ha
vinto il Lombardia del 1911 e la Sanremo del 1912. I due si incontrano per la
prima volta al Lombardia del 1913 e sono subito scintille. C’è una volatona,
una macchina del seguito che attraversa la pista e fa sbandare i corridori,
Agostoni tocca la ruota di Pelissier e cade trascinando a terra Girardengo.
Pelissier è incolpevole ma nella confusione dello sprint la gente crede di
vedere una scorrettezza del francese. Anche perché Girardengo si mette a gridare
al complotto. Pelissier è circondato, preso a calci e pugni, sanguinante si
rifugia nel gabbiotto dei cronometristi e può lasciare il velodromo solo dopo
due ore. E’ l’inizio di un terribile duello che riprenderà nel 1919 e durerà
fino al 1925.
Nel 1919 i due sono le massime potenze del ciclismo.
Pelissier vince la Bordeaux-Parigi, la Parigi- Tours e il campionato francese.
Girardengo è campione italiano, vince il Giro, il Lombardia con 8’ su Belloni
dopo una fuga solitaria di 170 km. Raramente i due si trovano di fronte, la
polemica resta a distanza: nel 1921 Gira è battuto sulla salita del Mont Agel
ma poi si prende la rivincita infliggendo al rivale 22’ nella Genova-Nizza. La
guerra esplode nel 1923 quando Pelissier vince il Tour davanti a Bottecchia.
Desgrange scrive che il suo francese è il più grande corridore del mondo e
l’italiano Bottecchia l’uomo del futuro. Girardengo? Ha paura di affrontare i
rivali, provoca il patron del Tour. Non l’avesse mai detto! Gira, ferito
nell’orgoglio e vista in pericolo la propria popolarità, manda a Desgrange una
lettera aperta che contiene una terribile sfida: “Invito tutti i corridori
del mondo a incontrarsi con me in una corsa a cronometro di 300 km sul
percorso, ad esempio, della Milano-Sanremo. Se si considera che le strade
italiane mi sono favorevoli, io accetto un percorso su strade straniere dai 300
ai 600 km anche sulle strade del tipo Galibier e Izoard. Posta per ciascun
incontro di lire 50.000. Epoca degli incontri a scelta degli avversari. Da oggi
io sono pronto”. Firmato Girardengo, 26 lugli 1923. Mai successo un fatto
del genere, solo negli anni 50 Benito Lorenzi detto Veleno avrebbe osato
mettere in palio un milione per il derby Inter-Milan. La sfida fece epoca, ma
non si realizzò. Ci fu solo uno scontro al Velodromo d’Inverno di Parigi
promosso il giorno di Natale dal furbo Desmaert, direttore del velodromo:
furono battuti tutti i primati d’incasso. Articolato su tre prove – velocità
sui 1000 metri, inseguimento di 6 km, 20 km dietro tandem – il duello fu facile
preda di Girardengo. Ma quel successo contava poco, si disse: un pistard contro
uno stradista! E allora il Gira, sempre
più stizzito, lanciò a Pelissier una nuova sfida: una crono a due di 200-300 km
sulle strade della Riviera con un passaggio sul Sospet. Posta e data, a
discrezione del francese. Questa volta Pelissier rispose: rifiutava dicendo che
queste cose non avevano senso e che non sarebbe mancata l’occasione nelle corse
normali di vedere chi dei due fosse più forte.
L’occasione è il GP Wolber del 1924, una gara di 362 km a
invito, con i migliori corridori del momento, una specie di campionato del
mondo. Pelissier ha 35 anni, Gira 31. Gira attaca sul Coeur Volant, fa
selezione, respinge i contrattacchi della coalizione di undici stranieri tutti
schierati con Pelissier. E nello sprint di Parigi stronca tutti. Anche i
francesi si inchinano alla superiorità dell’italiano. Non Pelissier, che nella
Parigi-Roubaix dell’anno dopo, spalleggiato dal fratello Francis, ostacola in
tutti i modi la volata di Linari che sta tirando il Gira: brutta fine per lo
“spago”, che poi abbandonò le corse. Gira invece stava per cominciare l’altra
titanica e impari battaglia – molto più breve -
con Binda. Avrebbe smesso di correre nel 1936, a 43 anni, un anno dopo
che il suo rivale Pelissier era morto, ammazzato dalla convivente, e solo
quando anche Binda si arrese al tempo, per un femore rotto.
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