Avevo nove anni. La guerra era ormai un ricordo, il paese era tornato alla normalità, nei campi i contadini stavano piegati sulla terra. Di sera tornavano lentamente alle loro case, la zappa e il badile appoggiati su una spalla, il cappellaccio di paglia buttato indietro sulla testa sudata, un fazzolettone legato attorno al collo. Avevano la faccia rossa di sole, solcata da rughe profonde e nere di polvere ma si vedeva che dentro non erano stanchi.
Spuntavano dai viottoli laterali e quando arrivavano sullo stradone spesso incrociavano le mondine che rientravano dalla risaia in bicicletta. I capelli erano nascosti da grandi cappelli di paglia, tra quell’ombra lampeggiava il bagliore degli occhi. Pedalavano allegre, chiacchierando e ridendo e gesticolando. Le sottane svolazzavano qua e là, sollevate dalle ginocchia, lasciando intravedere le cosce bianche.
Allora ridevano anche gli uomini e volavano nell’aria le grida di appuntamento per la sera: Cesira, a s’vdan in piaza... Maria, a s’truvan al baladur...
La sera il paese si riempiva di vita. I giovani si incontravano in piazza e poi facevano lunghe passeggiate sul marciapiede lungo lo stradone. Altri invece si trovavano alla sala da ballo all’aperto, vicino al campo sportivo.
La nonna ci portava spesso, me e mia sorella, a vedere lo spettacolo del ballo. Stavamo dietro la stecconata ricoperta di edera e dai buchi guardavamo dentro. Mi piaceva sentire la fisarmonica e i violini, avevano un suono insieme allegro e malinconico che si perdeva lontano tra i profumi della sera.
E mi piaceva guardare i ballerini. C’era la Bruna che era la più ricercata. Aveva i capelli nerissimi, lo sguardo sfrontato, la sottana larga e gli uomini si vedeva che erano in soggezione davanti a lei. E c’era Sgargi, che non perdeva un ballo, fosse un tango o una mazurka: aveva i capelli lucidi di brillantina e la camicia bianca con le maniche rimboccate sulle braccia robuste, una faccia di quelle che non hanno paura di niente. Quando ballavano loro due, nella pista si faceva largo. Poi un giorno la Bruna avrebbe tentato di ammazzarsi con la varechina perché Sgargi l’aveva lasciata per un’altra venuta da fuori.
I vecchi invece andavano nelle osterie e giocavano a briscola o a morra; bevevano e battevano i pugni sul tavolo e gridavano quando avevano una carta buona o facevano il punto.
Quando il buio diventava fitto e i grilli cantavano più forte, nell’aria si levavano i canti degli ubriachi e dal ballatoio cominciavano ad andar via i giovani. Molti caricavano le ragazze sulla canna della bicicletta e sparivano nella notte, ridacchiando e lanciandosi saluti. La notte, allora, era bellissima e misteriosa
Anche il nonno andava all’osteria, una sera in quella dello zio Andrea e una sera in quella della zia Nina, per non far torto a nessuno. Erano osterie bellissime, col bancone alto, di legno vecchio e scuro, e dentro un odore acre di vino, e poi i tavolini di legno e le sedie di paglia; sopra i tavolini, i litri e i mezzi e i quartini di vetro trasparente. Capivo che il nonno tornava dall’osteria quando lo sentivo canticchiare con la voce incerta: La Marianna la va in campagna, la va in campagna a lavurer, la va la vaaaaa!
*****
Da quando non c’era più il Moro il nonno non faceva più i funerali e che io sappia non lavorava nemmeno. Aveva venduto i carri, poi le mucche, poi i maiali. Forse campava vendendo e comprando roba, come aveva fatto suo padre, che era stato ambulante.
Io andavo a scuola, da qualche anno. Non c’era la scuola, a Minerbio. E allora la mamma mi mandava a lezione da una maestra privata, in casa sua, dove c’era un buon profumo di inchiostro. E’ lei che mi ha insegnato a scrivere e far di conto.
Avevo una grande difficoltà coi numeri, facevo fatica a capire la questione dei decioni e dei soldoni e allora mi si inumidivano gli occhi per la vergogna: la maestra mi spiegava paziente, ma io non capivo. A casa riempivo le pagine del quaderno con numeri e parole ma soprattutto disegnavo cavalli. Ero diventato bravissimo, avevo copiato il primo da un vecchio libro e dopo ero riuscito a farli da solo, subito, a penna, senza correggere il segno.
Se chiudo gli occhi e ripenso a quei giorni, sento odori, soprattutto quello della drogheria, quando andavo a comprare i pennini e i quaderni, un profumo acre e gradevole fatto di una infinità di sfumature, perché in quella bottega piccola vendevano tutto, dalla cioccolata all’inchiostro, dalle scarpe di tela alla farina.
Ero triste. Avevo ancora la mia capanna sul tiglio e ci stavo ore e ore a pensare a chissachè. Ero così da quando era morto il Moro. Forse fu per questo che un giorno mia mamma decise di farmi una sorpresa...
*****
Era un pomeriggio di una domenica d’estate. La nonna aveva messo a scaldare al sole una catinella d’acqua presa dal pozzo, mi ero fatto il bagno nella rimessa degli attrezzi poi mi ero seduto sui gradini davanti a casa a fare merenda con una fetta di pane coperta di panna e di zucchero.
Mi sentii chiamare dalla mamma, era in casa con la nonna e con la Pia, la moglie del fornaio. Sulla tavola c’era un cestino.
Mi avvicinai e guardai dentro il cestino. C’era un cosino tutto nero, raggomitolato, piccolissimo, profumava di latte e dormiva con le zampine sopra gli occhi.
Guardai la Pia, con fare interrogativo.
- Pavlein, it cuntaint? chiese la moglie del fornaio.
- Contento di cosa?
- Mo’ dal cagnulén!...
Mi avevano regalato quel cagnolino, per vedere se riuscivano a farmi tornare allegro. Era nato forse un mese prima dalla cagna del fornaio e adesso era mio.
Non ero entusiasta, istintivamente paragonai quel cosino al Moro, così alto, imponente. Quel cagnino invece era una piccola cosa indifesa, indifferente a tutto. Lo guardai meglio, lo accarezzai piano. Era caldo e morbido. Lo rigirai sulla pancia e vidi che sul petto aveva una macchia bianca! Ebbi un tuffo al cuore: come il Moro! Gli volli bene all’istante, mi sentii vibrare in ogni nervo. Lo estrassi dal cestino, lo misi sulla tavola.
Il cagnino si guardava intorno con aria smarrita e impaurita, non capiva che cosa dovesse fare e che cosa tutta quella gente intorno si aspettasse da lui. La mamma gli mise sotto il muso una ciotola di latte. Cominciò a leccare furiosamente, spruzzandosi di bianco i baffi piccoli e il naso. Aveva una fame da lupo. E tanto era il suo entusiasmo che a forza di zampettare intorno alla tazza arrivò sull’orlo del tavolo e prima che potessimo farci qualcosa cadde per terra. Un tonfo sordo.
Non ebbi il coraggio di guardare. Temevo che si fosse fatto male, non avevo ancora cominciato a volergli bene e già lo perdevo?
Per fortuna non si era fatto niente. Gli misi la tazza in terra e lui continuò a leccare il latte come se niente fosse. Scoppiai a ridere di felicità e credo di aver ben ripagato mia madre, con quella risata.
Nemmeno quella volta riuscii a inventare un nome per il “mio” animale. Volevo chiamarlo Boby, o Fuffi, che erano nomi comuni a tutti cani del paese. Mia mamma però me ne suggerì uno che mi piacque subito: Flic. Non significava niente, ma era un nome famigliare: era il protagonista di una filastrocca che la mamma mi canticchiava sempre d’inverno davanti al camino: E’ morto flic, è morto floc / povero flic, povero floc...
*****
Flic fu l’amico delle mie scoperte, il mio compagno di avventura. Il Moro mi aspettava nella stalla e ascoltava quello che gli raccontavo. Flic invece semplicemente veniva con me. Per questo, col tempo, il mio legame con Flic se possibile divenne ancora più stretto di quello col Moro.
Era allegro, vivace, instancabile come tutti i cuccioli. E capiva il bene che gli volevo. Quando, dopo una corsa a perdifiato intorno al prato, mi lasciavo cadere a terra esausto, mi saltava sul petto e scodinzolando furiosamente cominciava a leccarmi la faccia, quasi con voluttà e mi mordicchiava le mani e il naso.
Ero già grande e il mio mondo si allargava ogni giorno di più. Minerbio non era più solo la mia casa col cortile e il fienile e la stalla e la rimessa. Era un paese lungo, le case vecchie costruite ai bordi dello stradone che porta a Baricella, in mezzo allo stradone c’erano i binari del trenino; e poi c’era una rocca antica e un borgo nascosto pieno di case vecchissime e piccole.
Tutt’intorno, i campi. Attraverso i campi andavo a esplorare posti nuovi: dietro i canneti scoprivo un macero, oltre una siepe di biancospino si spalancava una distesa di grano mai vista prima, là in fondo all’orizzonte c’era un boschetto di pioppi giovani a regalare frescura.
Mi piaceva entrare in quei mondi nuovi, mi immaginavo esploratore, stavo attento ai rumori, ai piccoli movimenti di una lucertola o di un insetto, ascoltavo il vento frusciare tra le foglie e le piante, annusavo i mille odori diversi che scaturivano dalla campagna, da quello dolciastro degli alberi da frutto a quello inebriante dei cespugli di caprifoglio.
Flic mi seguiva o mi precedeva con la stessa intensa emozione, con la stessa palpitante attesa di nuove e immediate rivelazioni. Ce ne tornavamo a casa dopo ore, stanchi, impolverati, ma felici, saltellando.
A volte stavamo fermi in un posto per ore. Come quando andavamo sull’orlo del canale o di un macero. Restavamo seduti sull’erba in silenzio a osservare le rane che si tuffavano o che emergevano dall’acqua stagnante gracidando, i pesci che facevano le bollicine: erano esseri straordinari che popolavano un mondo diverso. E poi c’erano gli uomini e le donne che battevano la canapa e la mettevano nell’acqua con bastoni lunghissimi: Flic li seguiva e abbaiava.
Ci piaceva stare anche in mezzo alla gente e guardare quello che faceva. Un giorno andavamo dal fabbro a vederlo piegare il ferro rosso di fuoco, un altro dal maniscalco che inchiodava i ferri ai cavalli e mi meravigliavo che non gli facessero male, un altro ancora dal falegname che impagliava le sedie e piallava le assi per i mobili.
Il mercoledì andavamo al mercato, a gironzolare fra le bancarelle. Flic si intrufolava fra le gambe della gente, abbaiava a tutti come per salutare e mi guardava per ricevere un cenno di approvazione. A volte ero così felice che me lo stringevo stretto al petto, e lo accarezzavo a lungo facendogli il solletico sulla macchia bianca.
Flic - avevo dimenticato di dirlo - era un “bastardino” alto non più di venti centimetri, due occhi vispi e lucidi, un naso sempre umido. Cresceva a vista d’occhio ogni giorno ma sarebbe rimasto sempre piccolo, come la sua macchia bianca sul petto.
In breve, in paese diventammo la favola di tutti per via che eravamo inseparabili. Quando dovevo andare a scuola, Flic mi aspettava sulla porta di casa e mi correva incontro che non mi aveva ancora visto, aveva sentito che stavo arrivando. Mi faceva feste a non finire, mi saltellava intorno come se non mi vedesse da mesi, prendeva la palla fra i denti e chiedeva di giocare.
*****
Un giorno seppi che avremmo dovuto lasciare la campagna. Mio padre faceva il camionista, quando tornava dai suoi viaggi doveva sempre tornare in bicicletta da Bologna a Minerbio, era dura. Così aveva trovato casa in città, lì ci saremmo trasferiti la mamma, mia sorella, il babbo e io. E naturalmente Flic.
La mamma e il babbo andarono a Bologna qualche giorno prima, per preparare la casa e i mobili e tutto. Mia sorella, io e Flic li raggiungemmo più tardi, in treno. Non mi resi conto che la mia vita sarebbe cambiata radicalmente, che avrei abbandonato la campagna, gli alberi, il prato, il mio tiglio, il paese. Mi importava solo che Flic fosse con me. Anzi, quella nuova avventura alla scoperta della città mi eccitava.
Non ero mai stato in treno. Per andare a Bologna, da Minerbio, allora c’era il treno: la littorina, tre carrozze, andava veloce, per arrivare impiegava solo quasi un’ora perché si fermava solo nei paesi grossi come Granarolo, Quarto Inferiore. Poi c’era anche un “accelerato”, un treno-merci a vapore che aveva anche una carrozza viaggiatori e che si fermava proprio ad ogni paesino, Ca de Fabbri, Armarolo, Sisto, Cadriano.
Flic e io osservavamo con curiosità mista a timore quel mondo nuovo che sfilava davanti a noi. La campagna pareva sconfinata, le case isolate vi si perdevano. Di tanto in tanto si elevavano boschetti di pioppi, o distese di meli o peri. Poi la campagna lasciò il posto alle case, fitte fitte, alcune alte. E la città, con le automobili. Credo che prima di allora avessi visto al massimo due o tre automobili: a Minerbio giravano tutti i bicicletta....
Alla stazione ci aspettava il babbo con un camioncino. Ci caricò tutti e ci portò a casa: Flic sedeva sulle mie ginocchia e guardava smarrito fuori dal finestrino ansimando per l’emozione, la lingua rosa fuori dalla bocca. Abbaiava, quando un’altra macchina ci passava vicino, forse perché aveva paura, forse per salutare. In noi c’era un senso di eccitazione misto a soggezione.
Di tanto in tanto, fra una casa e l’altra si vedevano cumuli di macerie, montagne di pietre e terra, erano le case abbattute dalle bombe degli aerei. Intorno, non un albero, non un prato, non un filo d’erba. E questo ci lasciò sgomenti, me e Flic.
Arrivammo a casa. Un palazzone nuovo, di quattro piani. Noi stavamo al terzo. Mi piacque l’odore dell’intonaco ancora fresco, i pavimenti ben levigati, le porte nuove. Com’era diversa quella casa da quella dei nonni! Avremmo vissuto lì. Ma Flic come avrebbe fatto? Credo che per lui sia stato un trauma. Sotto casa c’era una strada larga, tutta di asfalto, dove avrebbe potuto correre? Pochi giorni dopo per fortuna avremmo scoperto che lì vicino scorreva un canale.
*****
Il canale divenne il nostro nuovo terreno di esplorazione. Ci avventuravamo sulla riva e andavano ogni giorno sempre più lontano, scoprendo sempre qualcosa di nuovo, un’ansa, una chiusa, una barca, i pesci, le donne che lavavano i panni sulla riva e a volte si fermavano per togliersi le sanguisughe dai polpacci, e frotte di ragazzi che sguazzavano allegri nell’acqua limpida.
Pomeriggi di sole caldo dedicati a esplorare il nuovo mondo della città. Venne l’inverno e non fu così piacevole. Flic doveva stare in casa, io andavo a scuola e quando partivo lui correva in terrazza e guaiva e piangeva.
Il nostro legame si era fatto ancora più stretto. Ci divertivamo a fare il bagno assieme nella vasca, la domenica mattina veniva a letto con me, sotto le coperte, e mia madre rideva - prima di arrabbiarsi - nel vedere Flic con le lenzuola fino al collo e la piccola testa sul cuscino:
- Sembra un cristiano! diceva
Flic era stato bravissimo. Aveva imparato a fare i suoi bisogni in una cassettina, dormiva in cucina in una cesta di vimini, quando andavamo in giro stava attento a non scendere dal marciapiede per non essere investito dalle biciclette o dalle macchine. Capitava qualche volta, di sera, d’estate, che il babbo ci portasse tutti a prendere il gelato in un bar di un suo parente, parecchio lontano da casa. E allora Flic restava in casa da solo. Andava in terrazza e piangeva, piangeva da spaccare il cuore, forse aveva paura che lo abbandonassimo.
Quando tornavamo - e io per arrivare prima dicevo sempre che avevo sonno - era un diluvio di feste.
D’estate tornavamo anche a Minerbio, per un mese. Era un viaggio affascinante, in treno. Riscoprivamo pian piano la campagna, prima i campi da frutta, poi gli alberi, poi i nostri cespugli, poi il paese con le sue case. Erano visioni che mi riempivano il cuore.
Anche Flic era felice. Per un mese dimenticavamo la città, riconquistavamo la nostra libertà, riscoprivamo i nostri posti, le vecchie cose che adesso sembravano nuove e ci beavamo dei profumi intorno.
*****
Durò così qualche anno. Io andavo a scuola, mi ero fatto qualche amico nel palazzo, ma Flic restava il mio compagno preferito. Quando io ero a scuola, la mattina, Flic accompagnava sempre la mamma a fare la spesa.
Ormai lo conoscevano tutti e tutti lo salutavano, lo chiamavano e lui correva e scodinzolava. Quando la mamma entrava in un negozio, lui si sedeva fuori e aspettava guardando la gente.
Un giorno di maggio avvenne la tragedia. Tornai a casa da scuola e Flic non c’era, la mamma era seria. Disse che mentre lei era dal fruttivendolo Flic era stato preso dagli accalappiacani: lo avevano chiamato, lui era andato incontro scodinzolando e lo avevano preso, caricato su un furgone e portato via.
Fu come se mi avessero dato una bastonata in testa. Piansi, mi consolarono dicendo che forse, pagando, lo avremmo avuto indietro. Una nostra cugina, la Pina, andò al canile. Io aspettavo a casa piangendo e col cuore che batteva furiosamente nelle testa.
La Pina tornò, dopo alcune ore, scura in volto. Chiamò la mamma e le parlò fitto fitto in un angolo. Mia madre mi guardava, e piangeva. Capii che era accaduto qualcosa di irreparabile. Non ricordo più come me lo disse, con quali parole, forse l’ho rimosso dalla memoria.
Mi fu detto che i cani presi e portati al canile di solito li tenevano per tre giorni prima di ucciderli. La verità era che tenevano in vita per tre giorni solo i cani di lusso. I “bastardi” li uccidevano subito. Flic era un bastardino ed era stato subito ucciso. Col gas, mi disse la mamma: non aveva sofferto, mi assicurò, non aveva sentito niente...
Fu un dolore indicibile, come se mi avessero strappato un pezzo di carne, una parte di cuore. Piansi per giorni, smisi di mangiare, non volevo credere alla ferocia degli uomini, avevano ucciso una bestiolina innocua e l’avevano fatto senza aspettare che qualcuno lo andasse a cercare soltanto perché era un piccolo bastardino, nero con una macchia bianca sul petto, come ce ne sono tanti.
Mi ammalai seriamente: itterizia. Divenni tutto giallo e ci vollero mesi di iniezioni e sciroppi per rimettermi in piedi. Ma quella ferita non si sarebbe più rimarginata. Capii che la mia vita sarebbe cambiata, senza Flic. Dissi che non avrei mai più voluto animali per amici...
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