Era il 1972, andai in Iraq al seguito della
Nazionale di calcio militare per i mondiali di categoria. Il capo-delegazione
era il colonnello Casciotti, in azzurro c’erano giocatori di nome come Landini,
Cacciatori, Mozzini, Gori. E c’era anche l’arbitro Monti, che però dopo aver
diretto una partita sarebbe tornato di corsa in Italia perché ad Ancona c’era
stato un terremoto. Restammo due settimane a Baghdad e fu una esperienza che mi
suscitò le più diverse emozioni. Baghdad nei ricordi era la coreografia magica del famoso "ladro", delle Mille e una notte. La realtà era diversa. Moschee di una bellezza straordinaria e case
fatte a cubo del colore della sabbia, torme di ragazzini che ti seguivano
incuriositi dallo straniero, una piazza grande con al centro una rotonda
costituita da tante colonne in cima alle quali a mo’ di monito c’erano corde da
impiccagione. C’era già Saddam Hussein, era vicepresidente del Consiglio del
Comando Rivoluzionario, un anno dopo sarebbe diventato generale dell’esercito
iracheno e sette anni dopo presidente dell’Iraq.
Di quella trasferta ricordo un
viaggio ai margini del deserto, che cominciava alla periferia sud di Baghdad:
se non avete mai visto un deserto non potete immaginarvi cosa possa essere una
sconfinata distesa di dune di sabbia rossiccia accarezzate dal vento. Non so
più come ci eravamo arrivati, so però che ci avevano sconsigliato di prendere un taxi perché avremmo corso il rischio di essere rapinati e lasciati lì.
E ricordo una cena sul fiume Tigri, spettacolare perché illuminato dai fuochi che scaturivano dai pozzi di petrolio circostanti. C’erano le danzatrici del ventre, c’erano infinite pietanze che tutti ingozzavano afferrandole con le mani compreso il riso (io mangiai solo frutta!). Un’atmosfera allegra che però mascherava un’aria cupa che aleggiava sulla città. Un giorno uno studente iracheno mi sequestrò per un’ora chiedendomi come fosse il mondo fuori del suo paese, come si vivesse. Parlavamo in tedesco ma colsi ugualmente nel suo tono un misto di angoscia, rammarico, rabbia, speranza. Quel mondiale si disputava con un girone all’italiana e con 5 squadre: Grecia, Turchia, Costa d’Avorio, Iraq e Italia. Gli azzurri erano chiaramente la squadra più forte, ma era scritto che doveva vincere l’Iraq per alimentare l’orgoglio nazionale. L’Italia fu fermata dall’arbitraggio scandaloso di un direttore di gara iracheno (!) nella partita con la Turchia il che consentì alla squadra di casa di aggiudicarsi il titolo davanti agli azzurri. Ci furono proteste ufficiali, velate scuse da parte degli iracheni ma tutto rimase come era già stato scritto fin dall’inizio: l’Iraq rivoluzionario era campione del mondo.
E ricordo una cena sul fiume Tigri, spettacolare perché illuminato dai fuochi che scaturivano dai pozzi di petrolio circostanti. C’erano le danzatrici del ventre, c’erano infinite pietanze che tutti ingozzavano afferrandole con le mani compreso il riso (io mangiai solo frutta!). Un’atmosfera allegra che però mascherava un’aria cupa che aleggiava sulla città. Un giorno uno studente iracheno mi sequestrò per un’ora chiedendomi come fosse il mondo fuori del suo paese, come si vivesse. Parlavamo in tedesco ma colsi ugualmente nel suo tono un misto di angoscia, rammarico, rabbia, speranza. Quel mondiale si disputava con un girone all’italiana e con 5 squadre: Grecia, Turchia, Costa d’Avorio, Iraq e Italia. Gli azzurri erano chiaramente la squadra più forte, ma era scritto che doveva vincere l’Iraq per alimentare l’orgoglio nazionale. L’Italia fu fermata dall’arbitraggio scandaloso di un direttore di gara iracheno (!) nella partita con la Turchia il che consentì alla squadra di casa di aggiudicarsi il titolo davanti agli azzurri. Ci furono proteste ufficiali, velate scuse da parte degli iracheni ma tutto rimase come era già stato scritto fin dall’inizio: l’Iraq rivoluzionario era campione del mondo.
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