Il viaggio che mi è rimasto più inciso nella mente è stato
quello effettuato nel 1971 (43 anni fa!) in Birmania (continuo a chiamarla
così, ma dopo il colpo di stato del 1988 si chiama Myanmar) al seguito della
Nazionale Semipro(fessionisti) di calcio, allora guidata da Enzo Bearzot. Il
viaggio in aereo fu eterno (14 ore), scalo a Beirut, cambio d'aereo a Bangkok e arrivo a Rangoon (oggi Yangon)
che era la capitale. Era febbraio, in Italia era pieno inverno ma là c'erano 35 gradi con un tasso altissimo di umidità. L'accoglienza fu entusiastica: era la prima volta che una squadra di calcio europea arrivava fin là, l'Italia poi era famosa per le imprese dei Riva, Rivera, Mazzola, c'erano due grandi striscioni con le scritte "Benvenuta Italia" e "Forza Azzurri", tanta gente e fra la gente un giovane, il vicentino di Thiene Roberto Bassi che stava compiendo a piedi il raid Roma-Tokyo per ricordare il volo di Arturo Ferrarin di mezzo secolo prima. Alloggiavamo
all’Inya Lake Hotel (sono andato a vedere su internet, c’è ancora!). Restai
subito colpito da una scenetta incredibile di fianco all’ingresso: alcuni
operai scavavano attorno a una grande buca sorvegliati da guardie armate. Mi
dissero poi che scavavano giada, di cui il sottosuolo era ricchissimo. Un’altra
cosa che mi colpì fu l’espetto della città. In centro le vecchie case coloniali
britanniche rimaste, in periferia baracche di legno, tutte costruite su
palafitte. Dentro, gente poverissima ma dignitosa, pronta ad accoglierti e a
parlarti. Un tempo il Paese era stato dominio inglese, che ne aveva sfruttato
le risorse (riso, teck, petrolio, pietre preziose) per poi abbandonarlo a se
stesso. Su tutto incombeva l’incredibile Shwedagon (foto in alto), una pagoda immensa tutta
laminata d’oro che faceva contrasto con l’evidente miseria circostante. Altre
meraviglie del genere poi avrei visto a Pegu con un Budda gigantesco, lungo 26 metri, sdraiato (foto più in basso), a
Mandalay con i suoi templi bellissimi (foto qui sotto), sul fiume Irrawaddy.
In Birmania restammo una settimana, lo spazio di
due partite, ed ebbi modo di conoscerla abbastanza bene: infatti nel tanto
tempo libero il cancelliere dell’ambasciata ci portava in giro in macchina a
vedere i villaggi dei dintorni. L’ambasciatore Elio Pascarelli, un campano di Nusco, colui che aveva suggerito quella trasferta per rafforzare i rapporti italo-birmani, organizzò anche un party. Ricordo un pianista
che suonava e cantava in italiano “Buonasera signorina” e si meravigliava che
nessuno di noi sapesse le parole. Ricordo ragazzi che giocavano a “cynlon”, una
specie di basket praticato con i piedi e con una palla di vimini (me ne comprai
una, ce l’ho in casa!). Ricordo anche che uno dei giocatori italiani si
innamorò perdutamente, a quel party, di una principessa birmana, so che lei
venne poi in Italia ma non so altro. E poi ricordo le partite e lo stadio pieno di 50 mila spettatori:
c'erano quattro missionari italiani venuti dal nord del paese, c’erano anche tanti bonzi col loro abito rossiccio, che dopo aver girato in città
con la ciotola per chiedere riso si mettevano ordinatamente in fila per
entrare. Per la storia, i nostri azzurri vinsero 2-1 la prima partita contro gli Under 20
a Pegu, e pareggiarono 2-2 la seconda a Rangoon con la Nazionale maggiore birmana. E per la cronaca, Bearzot fece giocare poco Del Neri (il più famoso di quei ragazzi, allora giocava nella Spal): non
era in forma. Ricordo che ebbi occasione di parlare con Bernd Trautmann, che era stato appena ingaggiato come futuro allenatore della Birmania: era un tedesco, era stato un grande portiere la cui carriera in Germania era stata condizionata dal fatto di essere stato hitleriano per forza di cose (era nato nel 1923). Anche lui era rimasto impressionato dai ragazzi di Bearzot.
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